Chi è il più forte, chi è il più debole? Attenti ai buoni se sono armati di telecamera. L’apparenza inganna in un mondo dominato dai mass-media: l’uomo con la telecamera è più forte dell’uomo col fucile. Il dittatore di Charlot
di Francesco Lamendola
Uno dei dogmi fondamentali del politically correct, anzi, diciamo pure la chiave di volta dell’intero pensiero politicamente coretto, è la netta ed evidente distinzione fra chi è più forte e chi è più debole; con l’immediato corollario, altrettanto evidente, sulla scelta da che parte stare: dalla parte del più debole, sempre e comunque, e mai dalla parte del più forte, il quale o è il responsabile delle sofferenze del più debole, o ne è, in ogni caso, un complice, e sia pure inconsapevole, cosa che, del resto, non lo rende del tutto incolpevole.
Dunque, forza è una colpa, debolezza è una virtù: la lotta non è più fra il bene e il male, come nella vera morale cristiana, bensì tra la forza, che è intrinsecamente ingiusta e potenzialmente malvagia, e la debolezza, che è intrinsecamente innocente e potenzialmente santa. Chi ha operato questo slittamento di senso dalla morale del Vangelo alla morale dei gesuiti modernisti e massoni? Difficile dirlo: è stata una cosa graduale. Si parte almeno dal XVIII secolo, quando i gesuiti del Paraguay, imbevuti delle farneticazioni illuministe sul “buon selvaggio”, vedono degli indios delle loro reducciones delle anime pure e forse naturalmente sante, e in tutti i bianchi, all’infuori di loro, dei malvagi e degli scomunicati, e si arriva a Pedro Arrupe e alla teologia della liberazione, che vede nei “poveri” il Regno di Dio e nei “ricchi” la Civitas Daboli, la Città del Diavolo. Ai nostri giorni, Bergoglio non fa altro che riprende ed estremizzare ulteriormente, se possibile, questa rozza e delirante antropologia “teologica”. Tutti i giorni parla dei migranti e del loro diritto a migrare, infischiandosene sia dei morti in mare, sia degli squilibri e dei crimini legati all’immigrazione clandestina, sia, soprattutto, di quel che dice un vero pastore cattolico e un vero figlio dell’Africa, il cardinale Robert Sarah, il quale da anni esorta i suoi compatrioti della Guinea, e tutti gli africani, a non partire, a non lasciare la loro terra e le loro famiglie, e mette in guardia gli europei da un’accoglienza indiscriminata, che avrà gravissime ripercussioni anche per il loro tessuto sociale, oltre che per il loro assetto religioso. Ma i migranti, per Bergoglio, sono innocenti, sono puri, sono buoni, sono immagini viventi di Cristo: senza mai aver detto una parola fra quanti fuggono davvero per necessità, e l’enorme maggioranza di quelli che si spacciano per profughi e in realtà inseguono solo l’ingenuo miraggio di un facile miglioramento della loro condizione materiale. Arriva al punto di affermare che Gesù, Giuseppe e Maria erano dei profughi, erano dei migranti, pur di inculcare, Natale e Pasqua compresi, il dogma del dovere dell’accoglienza per tutti i buoni cristiani (la parola cattolico gli scotta sulla lingua e ne fa il più parco uso possibile; non sia mai che qualcuno possa, un giorno o l’altro, tacciarlo non di coprire i crimini di McCarrick, ma di voler fare del proselitismo!).
I migranti per Bergoglio, sono innocenti e buoni: immagini viventi di Cristo. Egli non fa altro che riprende ed estremizzare la rozza e delirante antropologia “teologica” della liberazione, che vede nei “poveri” il Regno di Dio e nei “ricchi” la Civitas Daboli, la Città del Diavolo!
Dunque, il dogma della distinzione manichea fra il più debole e il più forte porta con sé il corollario del dovere dell’accoglienza sempre e comunque, il quale, a sua volta, porta l’ulteriore dogma dell’inclusione, intesa come diritto di tutti ad essere inclusi, a cominciare da quelli che non lo desiderano affatto, perché preferiscono sfruttare i vantaggi della marginalità. Chi non ha voglia di rispettare le regole, per esempio, non vuole affatto essere incluso a pieno titolo nella società civile: preferisce impietosire gli altri, vivere di elemosina, magari ricevere una casa gratis, ma guai a parlargli di farsi carico anche di qualche dovere, oltre che di una serie di diritti, di vantaggi e di agevolazioni. A maggior ragione, chi vuole restare “diverso”, chi ha la precisa intenzione di non lasciarsi includere, bensì di sottomettere gli altri, presto o tardi, ai propri usi, al proprio credo, alla propria fede, non ne vuol sapere di lasciarsi includere: per lui, si tratta di una trappola da evitare; se si lasciasse includere, infatti, dovrebbe rispettare, su un piede di assoluta parità, gli altri usi, le altre credenze e le altre fedi. Dovrebbe rivedere, e magari modificare, alcune delle sue abitudini: per esempio quella di trattare la moglie e le figlie come schiave, e obbligarle ad andare in giro con il corpo e il volto interamente coperti e nascosti, salvo una minuscola fessura per gli occhi, e senza il diritto di aprir mai bocca in pubblico, neanche in un ufficio postale o in una banca, per chiedere un’informazione o per rispondere a una domanda dell’impiegato (specialmente se maschio), cosa che sarebbe profondamente immorale e che andrebbe a ledere i suoi diritti di maschio padrone assoluto.
Quale reciprocità? Sa, "il capo" della chiesa Cattolica che i migranti sono quasi tutti di fede islamica: fede che vieta (pena la morte) la conversione ad altre religioni, men che meno alla fede Cattolica!
Ebbene, di cambiare siffatte abitudini, sono in molti a non avere la benché minima intenzione, né tanto, né poco. Al contrario, ciò a cui essi mirano è di vedere arrivare il giorno in cui anche le altre donne, tutte le donne, saranno rese simili alle loro mogli e alle loro figlie; e quando non ci saranno più donne che se ne vanno in giro come delle “puttane”, o che svolgono un lavoro fuori casa, o che guidano la macchina, fumano le sigarette, vanno a ballare, e altre sconcezze simili. Oppure prendiamo il caso di un gruppo sportivo o di una classe scolastica: si fa presto a dire: includiamoli tutti; ma se c’è qualcuno che preferisce stare al di fuori, o al di sopra, se c’è qualcuno che è egoista e prepotente, costui vuol ricevere l’omaggio e la sottomissione degli altri, quindi non accetterà di farsi includere, perché, una volta incluso, perderebbe i vantaggi che gli vengono dal fatto di avere una posizione eccezionale, di sfruttare un ruolo particolare e tacitamente riconosciuto. Per un certo tipo di mentalità, è più vantaggioso essere trattati come un problema che come un soggetto di pari dignità rispetto a tutti gli altri; finché si è visti come un problema, gli altri si sentiranno sempre in dovere di usare un codice di comportamento differenziato. Cosa volete, lui è fatto così, dirà la maestra ai bambini di una classe, di fronte alle continue provocazioni, ai capricci e alle prepotenze di un compagno caratteriale, ovviamente sostenuto a spada tratta dai suoi genitori. Bisogna capirlo, in fondo non è cattivo; bisogna aver pazienza… La pazienza mal riposta (perché c’è anche una pazienza santa) è l’arma di cui si servono i prepotenti per ricattare e sottomettere gli altri, sfruttando i loro sensi di colpa e abusando della loro buona volontà.
Chi non ha voglia di rispettare le regole, non vuole affatto essere incluso a pieno titolo nella società civile: preferisce impietosire gli altri, vivere di elemosina, magari ricevere una casa gratis, ma guai a parlargli di farsi carico anche di qualche dovere. A maggior ragione, chi vuole restare “diverso”, chi ha la precisa intenzione di non lasciarsi includere, bensì di sottomettere gli altri, ai propri usi, al proprio credo, alla propria fede, non ne vuol sapere di lasciarsi includere!
Vale perciò la pena di considerare più da vicino il dogma fondamentale di questa nuova morale buonista, accogliente e inclusiva: che il più debole e il più forte si riconoscono di primo acchito, e che perciò, di primo acchito, bisogna schierarsi con il primo e mai con il secondo. Ma siamo sicuri che si tratta di un qualcosa di evidente, di riconoscibile al primo sguardo? Noi non ne siamo affatto convinti, e ci spiegheremo con un esempio tratto dal mondo del cinema. Prendiamo il caso di Charlot, l’indimenticabile attore comico che con la sua bombetta, il bastoncino e le enormi scarpe sgangherate si trova spesso a lottare, impari lotta evidentemente, contro avversari massicci, corpulenti, e soprattutto stupidi e prepotenti; mentre lui, poverino, non domanda altro che un angolino per vivere in pace, un cantuccio nel quale non darà fastidio a nessuno, ed essere a sua volta rispettato. È ragionevole, no? Poi dall’idea che la forza sia di tipo fisico, muscolare, come in La febbre dell’oro, del 1925, si passa a illustrare il concetto che la forza è sempre di tipo materiale, però non è quella del corpo, ma quella della potere politico: ne Il grande dittatore, che è del 1940, (quando, si badi, gli Stati Uniti erano ancora formalmente neutrali, e non esisteva uno stato di guerra fra loro e le potenze dell’Asse), l’esile e simpatico omino con la bombetta, il bastoncino, i calzoni troppo corti e le scarpe troppo grandi, è un mite, dolcissimo, romantico abitante di una graziosa cittadina da cartolina, alla Walt Disney, e ama, riamato, una dolce, delicata, graziosa fanciulla; ma contro il suo modesto sogno di felicità piccolo borghese si staglia l’ombra di Hitler, il ridicolo dittatore dai baffetti che paiono una stringa da scarpe ripiegata, e che si agita e si sbraccia furiosamente davanti al microfono, poi si abbandona a sogni voluttuosi di dominio mondiale, giocando, nel segreto del suo studio, con un grande globo terrestre di gomma gonfio d’aria, che getta in alto e poi riprende, trastullandosi come un bambino un po’ svampito. Accanto a lui compare anche la figura, riconoscibilissima, di un altro dittatore, un rivale in fatto di prepotenza, arroganza e ridicolaggine, un Mussolini che fa ogni mezzo minuto il saluto romano e che vuole competere con lui in potenza e vanagloria, tanto che Hitler, per metterlo a disagio, gli offre una seggiola minuscola mentre lui lo domina dall’alto della sua scrivania, e insomma fra tutti e due fanno a gara, senza rendersene conto, a chi è più buffo e più grottesco.
Il caso di Charlot? Chi controlla gli schermi del cinema, controlla l’immaginario collettivo; e chi controlla l’immaginario collettivo, controlla anche tutto il resto, perché non c’è forza più potente al mondo di quella della suggestione, specie quando si esercita per mezzo di strumenti emotivi e non per mezzo di strumenti razionali!
Chi è il più forte, chi è il più debole?
di Francesco Lamendola
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