Se guardi a lungo nell’abisso l’abisso guarderà te. L’abisso in cui si è specchiata la civiltà moderna è il male, è il diavolo! E nessuno è abbastanza forte da poterne sostenere lo sguardo senza esserne soggiogato e trasformato
di Francesco Lamendola
Nel quarto capitolo di Al di là del bene e del male (1886), intitolato Detti e intermezzi, Friedrich Nietzsche fa la sua celebre, profondissima osservazione: Chi combatte contro i mostri deve guardarsi dal non diventare egli stesso un mostro. E quando guardi a lungo in un abisso, anche l’abisso ti guarda dentro.
Ebbene: il problema della nostra civiltà, o piuttosto della nostra anti-civiltà moderna, è appunto quello che essa ha guardato troppo a lungo nelle profondità insondabili dell’abisso; e sta continuando a farlo tuttora. L’abisso in cui essa guarda, o meglio in cui guardano, affascinati e sedotti, i suoi figli, è l’abisso del relativismo, del materialismo, del nichilismo: è l’abisso degli abissi, cioè il nulla, il vuoto. I padri della modernità sognavano di riempire il vuoto, creato dalla distruzione sistematica della Tradizione, con i loro nuovi idoli: la ragione scientifica, il progresso illimitato, l’edonismo eretto a sistema, la teoria dei diritti innati e inalienabili, il successo fine a se stesso. Per questo la civiltà moderna (chiamiamola pure così, tanto per capirci) è la civiltà della tecnica: perché solo in una civiltà che ha azzerato la Tradizione, che ha reciso i legami con la trascendenza, che ha represso, negato e deriso la tensione metafisica dell’uomo, gli uomini possono illudersi di affrontare e risolvere i problemi dell’esistenza mediante delle soluzioni tecnologiche. Solo in una civiltà spiritualmente inaridita, grossolanamente materialista, si può pensare che le macchine siano tutto ciò di cui v’è bisogno per fornire agli uomini gli strumenti per vivere. Le macchine e la tecnica, però, risolvono i problemi, ma solo in senso materiale; non hanno nulla da dire sui fini, sugli scopi; non sono neppure interessate a capire in quale direzione si stia andando. A loro basta avanzare, risolvere, proseguire: a che scopo, per fare cosa, per andare dove, sono tutte cose che esorbitano dalle loro funzioni e anche dalle loro possibilità. Perciò gli uomini moderni sono prigionieri di un meccanismo da loro stessi creato: il meccanismo del fare, nel quale il continuo progresso tecnologico accelera sempre più il movimento, senza che s’intravveda il senso, e tanto meno la meta, di esso.
C’è una sola possibilità di guardare in faccia il diavolo e rimanere illesi: avere la protezione di Dio, essere in grazia di Lui. Ma gli uomini moderni hanno voltato le spalle a Dio, hanno deciso di far da soli e di costruire la loro Torre di Babele come una sfida all’Onnipotente!
Ora, proprio questa corsa senza una meta, questo movimento senza uno scopo determinato, ma che tende ad essere sempre più la giustificazione retroattiva di se stesso, con la tecnica che detta all’uomo le mete da raggiungere (diciamo la tecnica nel senso più ampio del termine: dalla tecnica dell’economia alla tecnica della fecondazione artificiale), fa sì che gli uomini siano attratti e quasi affascinati da questo movimento vertiginoso, del quale nessuno ha compreso la destinazione finale, e anzi del quale molti negano che vi sia una destinazione finale, essendo il concetto stesso di progresso illimitato tale da escludere che vi sia mai, non che una meta, neppure una sosta. Il che delinea una situazione psicologica e morale simile a quella descritta da Nietzsche: un guardare troppo a lungo nell’abisso, che finisce per trasformarsi nell’azione reciproca, dell’abisso che guarda all’interno di colui che sta guardando. E quando l’abisso guarda dentro qualcuno, se costui se non possiede una idonea preparazione, è perduto: è una di quelle esperienze dalle quali non si può tornare indietro, non si potrà essere mai più quelli di prima. L’abisso, infatti, è ciò che supera ontologicamente, e non solo psicologicamente o intellettualmente, la misura umana; quando un essere umano è scrutato dall’abisso, si trasforma, per così dire, da cacciatore a preda: non è più lui che avanza e che agisce, ma è afferrato e posseduto da qualcosa che è più grande di lui e, soprattutto, che è estranea alla sua natura. La differenza ontologica fa il resto: essere afferrato e posseduto da qualcosa di estraneo significa, per l’uomo, morire: e se non è la morte fisica, è tuttavia la morte morale. Sono forse vivi, nel senso comune del termine, quegli esseri umani che hanno fatto da cavie, volenti o nolenti, magari ancor prima di nascere, fin dal concepimento, ai mostruosi esperimenti di una scienza impazzita? Sì, lo sono, ma non più in quanto esseri umani; sono divenuti qualcos’altro: qualcosa che eccede la misura della condizione antropologica, e che non ci sono neanche parole per descrivere. Chi può dire cosa sentono realmente?
Gli uomini moderni sono prigionieri di un meccanismo da loro stessi creato: il meccanismo del fare, nel quale il continuo progresso tecnologico accelera sempre più il movimento, senza che s’intravveda il senso, e tanto meno la meta, di esso!
Se, dunque guardare nell’abisso troppo a lungo equivale a un viaggio senza ritorno, bisogna trarne la conclusione che gli uomini moderni sono pellegrini perduti, viaggiatori che non potranno mai più tornare a casa, non potranno mai più rientrare in se stessi. Qualcosa è intervenuto a modificare la loro natura; qualcosa ha alterato la loro umanità, penetrando dall’esterno: l’abisso ha invaso e annebbiato la loro anima, ha stravolto la loro percezione della realtà, ha radicalmente modificato le loro coordinate interiori. Visti dall’esterno sono gli stessi di prima, gli stessi di sempre, solo vestiti in modo diverso e circondati da oggetti e abitudini diversi da quelli di cento o di mille anni fa; ma in realtà appartengono a una nuova razza, a una razza di mutanti, di ibridi post-umani, che non sente, non ragiona, non giudica in maniera umana, bensì in maniera post-umana. Che cosa siano diventati, nessuno lo può dire con certezza; tanto più che essi, nella stragrande maggioranza dei casi, non hanno alcuna coscienza di quel che è avvenuto in loro. Non si sono neppure accorti di quel che è accaduto, fuori di loro e dentro di loro; e proprio questa è la prova del fatto che la loro mutazione è senza ritorno: solo se chi è cambiato si rende conto d’essere cambiato, esiste, per lui, una possibilità di rientrare in se stesso, nel suo io di prima; ma se chi è cambiato non se n’è accorto nemmeno, la sua mutazione è definitiva e irrevocabile.
È tutto l’orizzonte in cui si muovono gli uomini moderni a costituire, di per sé, un qualcosa d’innaturale, di forzato e di alieno: è l’abisso nel quale guardano fissamente, senza ormai più rendersene conto!
Possiamo chiarire questo concetto con un esempio pratico. Tutti sappiamo cos’è un bambino di cinque, sei, sette anni. Ma se a quel bambino viene concesso di guardare troppo a lungo nell’abisso del suo telefonino, arriverà il momento in cui egli non sarà più il bambino che era prima, né potrà ritornare ad esserlo, quand’anche lo volesse (e certamente non lo vorrà). Non sentirà più come un bambino, non ragionerà più come un bambino, non vedrà più il mondo come lo vede un bambino: lo vedrà come lo vede un essere ibrido, che ha il corpo di un bambino, la maturità di un bambino e la volontà di un bambino, ma che ha acquisto una serie di abilità e di nozioni, ha introiettato una psicologia e fatto suo un punto di vista che non sono più quelli di un bambino, ma di un adulto, anzi di un particolare tipo di adulto: colui che vive in uno stato di dipendenza dal telefonino. Ora, nessuno sa che cosa veramente senta, pensi e giudichi un essere ibrido di questa natura: e tale è appunto la ragione per la quale noi avvertiamo oscuramente – ed è una delle fonti della nostra angoscia esistenziale - che i nostri figli ci stanno sfuggendo, che si è creato un diaframma invisibile, ma insuperabile, fra noi e loro. Ma naturalmente, quello del telefonino è solo un esempio: e magari non si trattasse che di quello; benché rappresenti un pericolo oggettivo per la crescita normale dei bambini, la minaccia è molto più ampia. È tutto l’orizzonte in cui si muovono gli uomini moderni a costituire, di per sé, un qualcosa d’innaturale, di forzato e di alieno: è l’abisso nel quale guardano fissamente, senza ormai più rendersene conto. Gli uomini moderni sono diventati, alla lettera, il popolo dell’abisso – sembra il titolo di un romanzo di fantascienza, o meglio di un romanzo del terrore – ma il paradosso è che non lo sanno; e che, se qualcuno provasse a metterli in guardia, non otterrebbe come risposta che un incredulo sorriso, non scevro di una certa qual sufficienza e di un certo qual compatimento. Non è forse evidente che essi, grazie alle sempre nuove conquiste della scienza e della tecnica, stanno trionfalmente marciando verso le magnifiche sorti e progressive? Ne sono talmente convinti, che il pensiero di essersi affacciati sull’abisso raramente li sfiora, e quasi mai li turba.
L’abisso è il diavolo, insieme alle forze oscure che a lui sono collegate. L’abisso è poi un papa che non è papa, che non parla di Dio, del mistero del peccato e della Grazia, della penitenza e della Redenzione, ma sempre e solo dei migranti, del clima, delle emissioni di anidride carbonica, della minaccia alla biodiversità e del problema dello smaltimento dei rifiuti di plastica. Sì, questo è l’abisso: l’abisso della mistificazione, dell’eresia e dell’apostasia spacciate per normalità, per cattolicità, per amore di Dio; l’abisso della menzogna promossa a verità e della verità fatta passare per menzogna; del male spacciato per bene e del bene calunniato come se fosse male; della giustizia pervertita in ingiustizia, e dell’ingiustizia promossa a giustizia!
Se guardi a lungo nell’abisso, l’abisso guarderà te
di Francesco Lamendola
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