Giuseppe Conte, Presidente del Consiglio
di Gianfranco Amato
 Da qualche tempo notavo, con un certo fastidio, come Giuseppe Conte si riferisse sempre più spesso ed in maniera esplicita al cosiddetto “nuovo umanesimo”, come orizzonte valoriale della società ideale. Il fastidio se è trasformato in preoccupazione quando questo concetto è ufficialmente entrato a far parte di un possibile programma di governo. Il 29 agosto 2019, infatti, l’“Avvocato del popolo” nel suo discorso al Quirinale ha testualmente affermato: «Molto spesso, negli interventi pubblici sin qui pronunciati, ho evocato la formula di un “nuovo umanesimo”. Non ho mai pensato che fosse lo slogan di un Governo. Ho sempre pensato che fosse l’orizzonte ideale per un intero Paese». In quello stesso discorso ha parlato di “valori” comuni, definendoli “non negoziabili”, tra cui «il primato della Persona», «il lavoro come supremo valore sociale», «l’uguaglianza nelle sue varie declinazioni, formale e sostanziale», «il rispetto delle Istituzioni», «il principio di laicità», e così via.
Conte è un uomo troppo intelligente e colto per non sapere di cosa stia parlando, e per ignorare quale sia l’umanesimo cui lui fa riferimento.
Ricordo che ai tempi in cui si stava redigendo la Costituzione europea, Giovanni Paolo II incaricò un politico italiano di consegnare una sua lettera personale all’allora presidente della Convenzione che stava lavorando al testo costituzionale, Valerie Giscard D’Estaing, per supplicarlo di inserire nel preambolo di quell’importante documento il riferimento alle radici giudaico-cristiane dell’Europa. Quando il politico italiano incontrò il presidente e gli anticipò il contenuto della lettera che stava per consegnargli, quest’ultimo, con l’insolenza tipica dei francesi e dei massoni, gli rispose così: «Guardi, se questo è il contenuto della lettera, può fare pure a meno di darmela. Anzi, è bene che la tenga in tasca e non me la consegni affatto». La lettera rimase nella tasca del politico italiano e il riferimento delle radici giudaico-cristiane sparì dalla bozza della Costituzione. Interessante è il fatto di come venne sostituito quel riferimento nella prima versione del preambolo: «Consapevoli che l’Europa è un continente portatore di civiltà; che i suoi abitanti, giunti in ondate successive fin dagli albori dell’umanità, vi hanno progressivamente sviluppato i valori che sono alla base dell’umanesimo: uguaglianza degli esseri umani, libertà, rispetto della ragione; (…)». Non il cristianesimo ma l’umanesimo. Giovanni Paolo II, che in realtà era un tipo alquanto suscettibile, non prese bene lo sgarro all’Angelus del 20 giugno 2004, urbi et orbi, gridò in polacco: «Nie podcina sie korzeni, z których sie wyroslo!», non si tagliano le radici dalle quali si è cresciuti!
Per comprendere meglio la natura di quell’umanesimo considerato vera radice della nuova Europa, è sufficiente leggere un documento coevo molto interessante. Si tratta dell’Allocuzione, non a caso intitolata Per un Nuovo Umanesimo, tenuta il 6 aprile 2002 dall’Illustrissimo e Venerabilissimo Fratello Fabio Venzi, in occasione della sua nomina a Gran Maestro della Gran Loggia Regolare d’Italia.
Ma che cos’è, in realtà, questo nuovo umanesimo?
È molto semplice: siamo ancora una volta di fronte alla prospettiva antropocentrica e anticristiana che considera l’uomo come misura di tutte le cose. Secondo questi “nuovi umanisti”, la ragione, invece di essere considerata come lo strumento con cui l’uomo si apre alla realtà fino al suo ultimo orizzonte di mistero, viene concepita come misura, come garanzia ultima dell’esistenza stessa del reale, come gabbia entro cui ridurre la inesauribile natura della realtà. Ma l’esito di questa prospettiva è disastroso: l’uomo che si erige a misura di tutte le cose pretende, in ultima analisi, di ridurre tutte le cose alla misura delle sue capacità e del suo potere su di esse. Per i “nuovi umanisti”, infatti, lo Stato moderno è l’incarnazione del potere autoreferenziale: una realtà che si presenta come assoluta e che conferisce, essa, dignità all’uomo. Cadono nello stesso errore condannato dalla preposizione 39 del Sillabo di Pio IX: «Lo Stato, come quello che è origine e fonte di tutti i diritti, gode un certo suo diritto del tutto illimitato». Per questo inquieta un personaggio come Conte, quando parta di “valori” e di nuovo umanesimo.
Mai come in questi ultimi tempi sto rivalutando le parole profetiche di quello che considero il mio Maestro, Luigi Giussani, fondatore del movimento di Comunione e Liberazione, il cui giudizio acuto sulla realtà ci manca terribilmente.
Giussani aveva già affrontato decenni fa il tema del cosiddetto nuovo umanesimo, avvertendone il tratto anticristiano e totalitario e denunciandolo con queste parole: «il laicismo propone un nuovo umanesimo, vuole elidere il cristianesimo richiamando la parola “valori”. Il potere, attraverso la sottolineatura di valori da lui stabiliti, pretende dalla gente ubbidienza secondo il suo disegno. Ma senza il senso del mistero, l’affermazione di un valore come criterio unico genera “violenza”, “omologazione” e “moralismo”».
Si può anche essere devoti di Padre Pio, ma la concezione dell’uomo come centro e misura di tutte le cose rende Dio una realtà inutile, in quanto, pur se professato, il rapporto tra Lui e l’uomo è concepito come rapporto con un’astrazione, come fattore non decisivo nella determinazione dello svolgersi concreto della vita. Anche il devozionismo si può ridurre all’ateismo pratico se prevale l’idea denunciata dal teologo Cornelio Fabro, per cui «Dio, se c’è, non c’entra». Vale per i nuovi umanisti ciò che ancora una volta spiegava bene Giussani, ossia che per loro «Dio non c’entra con l’uomo concreto, con i suoi interessi, i suoi problemi, ambito in cui l’uomo è misura a se stesso,
signore di se stesso, sorgente e dell’immaginazione del progetto e dell’energia concreta per la sua realizzazione, ivi compresa la direttiva etica implicata». Nell’ambito dei problemi umani dunque Dio – se c’è – è come se non fosse. Si realizza così la divisione tra un sacro e un profano, invocata dai nuovi umanisti nel principio della laicità dello Stato.
Se chiedessimo oggi a Giussani di spiegarci quali sono i «valori comuni» invocati da Giuseppe Conte – in compagnia di qualche alto prelato –, e cosa sia questo nuovo umanesimo, il fondatore di C.L. ci risponderebbe con le stesse parole che si possono gustare a pagina 32 dell’ottimo volume intitolato L’io, il potere, le opere: Contributi da un’esperienza: «Io vorrei spiegare questo nuovo umanesimo, che è lo sforzo supremo operato dalla cultura dominante (atea nel senso pratico del termine) per eludere ed elidere il cristianesimo (con la collaborazione di tanti cattolici di ogni ordine e tipo), richiamando una parola importante: la parola valori. Si dice, si può anche sentire qualche alta personalità ecclesiastica affermare che scopo della Chiesa è aiutare la società civile a individuare e sorreggere una piattaforma di “valori comuni”. Ma i valori comuni anche i pagani li possono sostenere. Non può essere specifico del cristianesimo. Cosa è un valore? E ciò per cui vale la pena, in fondo, vivere».
Vale davvero la pena vivere per i valori invocati dal nuovo umanista Giuseppe Conte, ovvero per «il lavoro come supremo valore sociale», per «l’uguaglianza nelle sue varie declinazioni», per « il rispetto delle Istituzioni, per il «principio di laicità», per «il primato della persona» inteso nell’accezione prometeico-umanistica del «faber est suae quisque fortunae», ovvero dell’uomo artefice del proprio destino?
Duemila anni di cristianesimo ci hanno rivelato qual è il vero significato ultimo dell’esistenza umana per cui, davvero, vale la pena, in fondo, vivere.