Il 17 settembre scorso 15 accademici di prestigiose università cattoliche americane, dalla Catholic University of America, alla Fordham University, dal Boston College, all’Università di Dallas, dall’Università di San Francisco a diverse altre istituzioni, hanno scritto una lettera a mons. Vincenzo Paglia, Gran Cancelliere del Pontificio Istituto Giovanni Paolo II, lamentando la minaccia della “perdita di credibilità” dell’Istituto.
I filosofi hanno chiesto ai funzionari dell’Istituto “che sia ripristinata la missione dell’Istituto Giovanni Paolo II come originariamente costituito e che i membri della facoltà i cui contributi sono stati esclusi dai nuovi statuti siano riportati alle loro posizioni nell’Istituto. Solo queste misure sono coerenti con i canoni della libertà accademica e con la grande necessità del contributo del Pontificio Istituto Giovanni Paolo II alla vita intellettuale della Chiesa”. “Senza la collegialità in questa consultazione e il coinvolgimento dei consigli di amministrazione e delle facoltà a lungo termine, l’università o l’istituto non può più rivendicare l’imprimatur della ricerca della verità.”
Ma, nonostante le note vicissitudini e numerose altre proteste arrivate all’Istituto Giovanni Paolo II da più parti, il nuovo anno accademico arriverà e finalmente inizierà.
Mons Pierangelo Sequeri, preside dell’Istituto, ha presentato l’offerta formativa per l’anno accademico 2019-2020. Il suo messaggio, però, ha fatto mettere le mani nei capelli a molti. L’incipit, infatti, è a dir poco fenomenale:
Ascoltate cosa dice Sequeri:
“La ricomposizione del pensiero e della pratica della fede con l’alleanza globale dell’uomo e della donna è ormai, con tutta evidenza, un luogo teologico planetario per il rimodellamento epocale della forma cristiana. E per la riconciliazione dell’umana creatura con la bellezza della fede. Detto nei termini più semplici, attraverso il superamento di ogni intellettualistica separazione fra teologia e pastorale, spiritualità e vita, conoscenza e amore, si tratta di rendere persuasiva per tutti questa evidenza: il sapere della fede vuole bene agli uomini e alle donne del nostro tempo”.
Ci avete capito nulla? Io no. E l’ho letto più volte. La stessa impressione è stata espressa da molti nella blogosfera.
La cosa curiosa è che Sequeri per questo suo programma abbastanza nebuloso riconosca che:
“Un pizzico di ambizione, in questo progetto, è innegabile”.
Inoltre, dalle seguenti parole si capiscono un po’ di cose degli eventi che sono recentemente accaduti. Infatti, egli spiega che l’obiettivo del rinato Istituto è quello di:
“…essere all’altezza di una ‘sfida culturale e spirituale’ molto alta, in cui è messa in conto anche la fatica di ‘lunghi processi di rigenerazione’ (Veritatis gaudium, 6). Quel pizzico di ambizione, tuttavia, purificato da ogni spirito di presunzione e di contesa, può diventare il lievito e il sale di una gioiosa diaconia della fede.”
Da queste parole mi pare di capire che la ratio dei cambiamenti attuati (leggasi “licenziamenti”) sia la seguente: sì alla “rigenerazione”, basta con la “presunzione” e la “contesa”. In altre parole, basta con la Veritatis Splendor, basta con l’insegnamento di Giovanni Paolo II che creano solo “muri” e contrapposizione, avanti con la Amoris Laetitia, avanti con il “dialogo”, avanti con l’”accompagnamento”.
E dunque, se le frasi di mons. Sequeri sulla nuova offerta formativa per l’anno 2019-2020 vi appariranno ancora oscure, non vi preoccupate. Per capirle, vi basterà leggere quanto hanno affermato i professori neo assunti che andranno a rimpiazzare mons. Melina, padre Noriega, il filosofo Grygiel, ecc., questi ultimi tutti seguaci dell’insegnamento di San Giovanni Paolo II, rimasti a casa per mancanza del loro insegnamento venuto meno in seguito all’adozione dei nuovi statuti.
Infatti, il neo assunto prof. Maurizio Chiodi ha detto:
“Per tale ragione, non escluderei che, a certe condizioni, una relazione di coppia omosessuale sia, per quel soggetto, il modo più fruttuoso per vivere relazioni buone, tenendo conto del loro significato simbolico, che è insieme personale, relazionale e sociale. Questo, ad esempio, accade quando la relazione stabile sia l’unico modo per evitare il vagabondaggio sessuale o altre forme di relazioni erotiche umilianti e degradanti o quando sia aiuto e stimolo a camminare sulla strada di relazioni buone”.
L’altro neo assunto, il prof. Pier Davide Guenzi, ha detto:
«Oggi siamo invitati a comprendere come la relazione nell’orizzonte della comunione delle persone rappresenti il bene cui tendere e che lo stesso legame uomo-donna non ne esaurisce tutte le forme umane di espressione, anche sotto il profilo affettivo. In questa luce anche la relazione omosessuale esprime potenzialità e limiti inerenti ai legami umani di tipo affettivo, non solo in riferimento alla valutazione morale dei comportamenti, ma anche nel segno positivo di arricchimento reciproco delle persone impegnate in esse».
Se le parole di mons. Sequeri appaiono fumose, gli atti, le assunzioni, appaiono chiari.
di Sabino Paciolla
Il papa, gli aggettivi, gli avverbi e un preside ampolloso
Cari amici di Duc in altum, leggete insieme a me il brano seguente, poi ne parliamo.
“La ricomposizione del pensiero e della pratica della fede con l’alleanza globale dell’uomo e della donna è ormai, con tutta evidenza, un luogo teologico planetario per il rimodellamento epocale della forma cristiana. E per la riconciliazione dell’umana creatura con la bellezza della fede. Detto nei termini più semplici, attraverso il superamento di ogni intellettualistica separazione fra teologia e pastorale, spiritualità e vita, conoscenza e amore, si tratta di rendere persuasiva per tutti questa evidenza: il sapere della fede vuole bene agli uomini e alle donne del nostro tempo”.
Come dite? Che non ci avete capito gran che? Nemmeno io. Dalla selva lessicale emerge l’idea che le cose devono cambiare e che la Chiesa deve scendere a patti con il mondo. Ma chiederei all’autore un piccolo sforzo: non potrebbe esprimersi un pochino più chiaramente?
Temo però che la cosa sia impossibile. L’autore è infatti monsignor Pierangelo Sequeri, la cui prosa non si è mai distinta per chiarezza.
Come dite? Chi è Sequeri?
Teologo e musicologo, è l’attuale preside del Pontificio istituto teologico san Giovanni Paolo II per le scienze sul matrimonio e sulla famiglia, ovvero l’istituto voluto da papa Francesco al posto del precedente, fondato da Giovanni Paolo II nel 1981 e misericordiosamente raso al suolo dai solerti esecutori dei diktat bergogliani.
Il brano che ho riportato all’inizio fa parte della presentazione dell’offerta accademica dell’istituto per l’anno 2019-20, ma dire presentazione è riduttivo. Infatti è assai probabile che riuscire a capire che cosa vuol dire monsignor Sequeri costituisca un test di ammissione.
George Weigel, biografo e amico di papa Wojtyła, in un articolo in lingua inglese per First Things scrive che alcuni potrebbero immaginare che l’insalata di parole prodotta da Sequeri sia meno indigesta nell’originale italiano, ma, ahinoi, non è così. Come dice Weigel, la prosa suona ugualmente imperscrutabile anche nella lingua madre del buon monsignore.
Ma perché ci stiamo occupando del testo sequeriano? Perché mentre lo leggevo e rileggevo, e a ogni passaggio mi stupivo di quell’insalata, pensavo a ciò che ha detto papa Francesco pochi giorni fa, quando, in uno dei suoi momenti di misericordiosa stizza, se l’è presa con gli aggettivi e gli avverbi.
Come dite? Che non vi ricordate?
Vi rinfresco subito la memoria. L’altro giorno Francesco ha rivolto un discorso al dicastero vaticano per la comunicazione e in quell’occasione ha detto fra l’altro di provare “allergia” quando sente dire: “Questa è una cosa autenticamente cristiana”. Oh bella, direte voi, perché il papa ce l’ha con le cose autenticamente cristiane? Il fatto è che in realtà il papa, come ha spiegato lui stesso, ce l’ha con gli aggettivi e gli avverbi. Sentite qua: ”Siamo caduti nella cultura degli aggettivi e degli avverbi, e abbiamo dimenticato la forza dei sostantivi. Il comunicatore deve far capire il peso della realtà dei sostantivi che riflettono la realtà delle persone. E questa è una missione del comunicare: comunicare con la realtà, senza edulcorare con gli aggettivi o con gli avverbi”. Dunque, argomenta il papa, perché dire “autenticamente cristiana” quando basta dire “questa è una cosa cristiana”?
Ora sarebbe interessante sapere che cosa pensa Francesco dell’insalata di parole prodotta dal fido Sequeri. Quando aggettivi e avverbi sono usati dai filobergogliani vanno bene?
Scusate, so che vi sottopongo a dura prova, ma ecco un altro brano sequeriano: “Il nuovo organigramma degli studi visualizza in modo eloquente l’aggiornata strumentazione di bordo di cui la nostra navigazione potrà disporre. Il potenziamento dei suoi fondamentali teologici passa attraverso la nuova centralità conferita alla struttura fondamentale della forma cristiana, in cui si ricompongono – esistenzialmente, eticamente, spiritualmente – il soggetto dell’amore di Dio e le figure dell’amore umano, la grazia della fede e le passioni della vita. Questo potenziamento teologico, declinato poi nei vari insegnamenti che specificano il profilo accademico dell’Istituto, apre coerentemente lo spazio di un dialogo amichevole e di un confronto competente con i saperi umanistici e scientifici che più strettamente vi si collegano”.
Cortina fumogena sempre più fitta. Si capisce, di nuovo, che la faccenda si riduce a come mettersi d’accordo col mondo eliminando il senso del peccato, ma il tutto viene detto con un’ampollosità, e un’abbondanza di aggettivi e avverbi, da far venire il mal di testa.
Papa Francesco dunque decida: il suo bando nei confronti di aggettivi e avverbi vale sempre e comunque o solo quando colpisce chi si preoccupa di stabilire che cos’è autenticamente cristiano? Quando invece si tratta di celare l’eresia dietro una cortina fumogena di parole, gli aggettivi e gli avverbi sono ammessi?
Aldo Maria Valli
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