L'ordinazione di uomini sposati è ormai una vera fissazione. Ieri al briefing la scelta è stata sponsorizzata dal vescovo Verzeletti, che ha anche detto di avere in diocesi uomini eccezionali, con una vita eucaristica costante e che desiderano il bene degli altri. Ma non è questo il criterio per l'ordinazione sacerdotale. Leggasi san Paolo...
Il briefing di ieri, mons. Verzeletti è il terzo da sinistra
Al briefing sul Sinodo di ieri pomeriggio, si è tornati nuovamente a sponsorizzare l’ordinazione di uomini sposati; questa volta è stato il turno di mons. Carlo Verzeletti, vescovo, dal 2004, di Castanhal do Parà, in Brasile. Il vescovo di origini bresciane ha lamentato che «non possiamo ridurre il prete ad un distributore di sacramenti poche volte l’anno [...] I preti devono correre da una parte all’altra, e possono incontrare le comunità al massimo 4-5 volte l’anno. Non hanno il tempo di seguire la vita del popolo, di stare in mezzo alla gente, di offrire una vera cura pastorale». Per queste ragioni mons. Verzeletti ha auspicato l’ordinazione di «uomini sposati per il ministero sacerdotale, affinché l’Eucaristia sia una realtà vicina alle nostre comunità e le persone possano essere accompagnate».
Ancora una volta, ci troviamo di fronte ad un ragionamento che non sembra avere molto a che fare con l’autentica evangelizzazione, ma con un modo piuttosto clericale e funzionalista di affrontare il problema. Più esplicitamente: bisognerebbe iniziare a capire che la mancanza di sacerdoti non è la causa, ma l’effetto di un grave problema che colpisce le comunità cristiane, siano esse dell’Amazzonia o dell’Europa. Ed in effetti, più si ascoltano gli interventi durante i briefing o si assiste alle “celebrazioni” pseudo-liturgiche di questi giorni e più emerge chiaramente che probabilmente buona parte del problema si situa proprio nei vescovi e missionari presenti in Amazzonia, quasi tutti di origine europea.
Nessuna volontà di generalizzare, intendiamoci, ma quando si vede con quanta timidezza si ha il coraggio di annunciare Gesù Cristo come unico Salvatore degli uomini, quando non si capisce con chiarezza da che cosa abbiamo bisogno di essere salvati, quando la liturgia assume i tratti ora di culti pagani, ora di rivendicazioni socio-politiche, allora si ha come minimo il diritto di pensare che quella dell’ordinazione di uomini sposati sia una comoda copertura dei propri misfatti.
L’intervento di mons. Verzeletti ha però assunto una sfumatura diversa dagli altri. Il vescovo missionario ha infatti voluto precisare che «quando parlo di ordinazione sacerdotale di uomini sposati non penso a sacerdoti di seconda categoria, ma a persone preparate che abbiano una vita esemplare. [...] Abbiamo uomini eccezionali, con una vita eucaristica costante: uomini che desiderano il bene per gli altri, che vivono per gli altri». Ed ha aggiunto: «Trovare uomini che vivano l’Eucaristia nel quotidiano è un criterio fondamentale per dire: questo è un modo per celebrare». Per questo, «se il Papa decidesse per l’ordinazione sacerdotale di uomini sposati saprei già chi indicargli».
Dunque avere un’intensa vita eucaristica, desiderare il bene per gli altri sarebbero indicatori sufficienti per la selezione del nuovo “personale”; ma a ben vedere questi non sono altro che orientamenti di una vita cristiana seria, che tende alla santità, non della specifica vocazione agli ordini sacri. Certamente i candidati agli ordini devono avere dei tratti specifici di irreprensibilità, come indica san Paolo scrivendo a Tito (1, 6) e a Timoteo (1 Tm. 3, 2-4; 3, 12); ma tra le condizioni per essere ammessi al sacerdozio, l’Apostolo indica, come tratto specifico, l’essere «mariti di una sola donna». Si tratta di un punto fondamentale da capire.
Questa formulazione, che in latino suona unius uxoris vir, non è una semplice indicazione sul fatto che il futuro sacerdote non dev’essere adultero (e ci mancherebbe) o che non debba essere risposato, ma è - come ha fatto notare de la Potterie - un’espressione tecnica, che compare solamente in riferimento a diaconi, sacerdoti e vescovi e che è strettamente connessa alla continenza perpetua. L’essere mariti di una sola moglie era considerata come la garanzia dell’osservanza della continenza a partire dal momento dell’ordinazione.
Si può capire questo modo di intendere la formula paolina anzitutto dal suo parallelo femminile, «moglie di un solo uomo». Nella prima lettera a Timoteo (5, 9 ss.), San Paolo parla del «catalogo delle vedove», al quale potevano essere iscritte solo una categoria speciale di vedove, ossia quante avevano almeno sessant’anni. Le vedove più giovani infatti «quando vogliono sposarsi di nuovo, abbandonano Cristo»; esse sono dunque più propense a risposarsi, e a rinunciare, di conseguenza, al proposito di continenza per dedicarsi all’unico Sposo, Cristo. Questo significa che l’espressione «moglie di un solo uomo», espressione tecnica per indicare le iscritte al catalogo delle vedove, era strettamente connessa con il proposito della perpetua continenza.
Lo stesso si deve pensare per il corrispondente maschile «marito di una sola donna», così come la tradizione dei primi secoli ha sempre inteso. E’ infatti curioso che la legislazione che imponeva la continenza ai candidati agli ordini maggiori che erano coniugati, si appoggiasse proprio sull’espressione paolina. Papa Siricio, nella decretale Cum in unum del 386, offre l’interpretazione autentica dei testi dell’Apostolo in cui troviamo questa formula. Riferendosi alla continenza richiesta ai sacerdoti “sposati”, il Papa così si esprime: «Forse qualcuno crede che ciò [continuare ad avere rapporti con le proprie mogli] sia permesso, poiché è scritto: “marito di una sola donna” (1 Tm. 3, 2). Tuttavia [San Paolo] non stava parlando di chi persisteva nel suo desiderio di procreare; egli ha parlato in vista della continenza futura». Dunque, il candidato agli ordini «marito di una sola donna», diveniva colui che era stato marito di una sola donna.
Il senso profondo di questa espressione, come scrive ancora de la Potterie, sta nel fatto che la vocazione sacerdotale ha a che fare con la fedeltà ad una sola donna e questa donna è la Chiesa, alla quale ci si dedica totalmente e con cuore indiviso. Per questa ragione, i candidati monogami agli ordini dovevano promettere di interrompere i rapporti coniugali con le propri mogli, perché da quel momento dovevano vivere un altro e più elevato rapporto sponsale.
E’ evidente allora, che a voler essere fedeli all’insegnamento apostolico, la selezione dei candidati al sacerdozio non può basarsi sulla loro semplice “buona condotta”, ma sulla risposta ad una chiamata a dedicarsi interamente alla propria sposa, la Chiesa. Ed è proprio questa prospettiva, attestata dalla Chiesa antica, ad essere completamente obliata nella incessante pressione per strappare al Papa l’autorizzazione per un clero né celibe né continente. Mons. Verzeletti, se vuole essere fedele alla tradizione apostolica, non dovrebbe indicare come candidati al sacerdozio uomini di intensa vita eucaristica e di dedizione al prossimo, ma uomini che avvertono la chiamata a dedicarsi interamente ed esclusivamente ad una sola donna: la Chiesa.
Luisella Scrosati
https://lanuovabq.it/it/il-problema-dellamazzonia-sono-certi-missionari
La prof. Ines Murzaku ci propone un interessante articolo che riflette sulle facili ma pericolose soluzioni avanzate al Sinodo dell’Amazzonia per porre rimedio alla carenza di sacerdoti nel territorio pan-amazzonico. Soluzioni profeticamente rigettate da Papa Pio X già un secolo fa perché considerate moderniste. L’articolo è già stato pubblicato su The Catholic World Report.
Gli occhi e le menti dei cattolici sono fissi su Roma, nel mentre si è appena conclusa la prima settimana del tanto atteso Sinodo amazzonico. La discussione è incentrata sulla regione periferica dell’Amazzonia e sui problemi legati all’evangelizzazione di quella regione. Ma c’è naturalmente di più al Sinodo amazzonico [della sola] Amazzonia: c’è una spinta a trasformare le soluzioni pastorali ritenute adatte all’Amazzonia in soluzioni universali applicabili a tutta la Chiesa.
Ma una cosa è certa, anche se non la si dice spesso: non c’è nulla in Amazzonia e nell’evangelizzazione dei popoli che la Chiesa missionaria/evangelizzatrice non abbia incontrato prima. Infatti, la Chiesa cattolica e i suoi innumerevoli e impavidi missionari hanno una lunga e notevole permanenza nelle missioni, sia nazionali che internazionali. Per secoli, i missionari cattolici hanno attraversato deserti e oceani, hanno attraversato con canoe fiumi pericolosi e scalato montagne, andando verso le periferie più estreme per diffondere la Buona Novella. Erano uomini e donne senza paura, pieni di zelo e spirito evangelistici, compiendo atti di amore disinteressato e persino di martirio per le popolazioni che vivono nella periferia e ai margini della società.
Le esigenze evangelistiche della Chiesa e dei missionari in passato sono state tanto pressanti quanto lo sono ora in Amazzonia e altrove nel mondo secolarizzato; le sfide che i missionari cattolici e le loro missioni erano così pressanti allora come lo sono ora. Ma poi la Chiesa ha proposto soluzioni innovative che hanno rafforzato la fede, sia coltivando il seme che altri missionari avevano seminato prima di loro, sia partendo da zero. L’evangelizzazione non consisteva nell’adattare o cambiare la dottrina, né nell’introdurre nuove regole morali. Invece, per questi missionari, le tribù e gli aborigeni – siano essi dell’Amazzonia o di altre parti del mondo – meritavano il meglio che una Chiesa evangelizzatrice e missionaria potesse offrire. Come ha spiegato la Lumen gentium del Vaticano II:
[M]emore del comando del Signore che dice: «predicate il Vangelo ad ogni creatura» (Mc 16,15), mette ogni cura nell’incoraggiare e sostenere le missioni.Come infatti il Figlio è stato mandato dal Padre, così ha mandato egli stesso gli apostoli (cfr. Gv 20,21) dicendo: «Andate dunque e ammaestrate tutte le genti, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro ad osservare tutto quanto vi ho comandato. Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, sino alla fine del mondo » (Mt 28,18-20). E questo solenne comando di Cristo di annunziare la verità salvifica, la Chiesa l’ha ricevuto dagli apostoli per proseguirne l’adempimento sino all’ultimo confine della terra (cfr. At 1,8). Essa fa quindi sue le parole dell’apostolo: « Guai… a me se non predicassi! » (l Cor 9,16) e continua a mandare araldi del Vangelo, fino a che le nuove Chiese siano pienamente costituite e continuino a loro volta l’opera di evangelizzazione. (pars 16-17)
Perché trattare le missioni in Amazzonia in modo diverso? Perché non lavorare per far crescere la gente o per trovare le vere cause della mancanza di vocazioni sacerdotali autoctone tra gli amazzonici? Perché le missioni protestanti pentecostali ed evangeliche hanno avuto tanto successo in Brasile, ad esempio, ed ha visto diminuire il numero dei cattolici del 64,4%? Questa tendenza al ribasso è in atto dagli anni Sessanta.
Prima del Concilio Vaticano II, i missionari gesuiti cercavano soluzioni, che non rompevano con la tradizione e l’insegnamento della Chiesa, per rispondere al disperato bisogno del clero tra le tribù irraggiungibili e completamente isolate dell’Albania settentrionale e del Kosovo, fondando la Jesuit Traveling Mission. La ragione principale per l’istituzione della Jesuit Traveling Mission (Missione itinerante dei gesuiti, ndr) fu la carenza di clero nel vasto territorio degli altipiani albanesi. Se “alcune persone [in Amazzonia] potrebbero non vedere un sacerdote per un anno” come riportato da Crux il 9 ottobre 2019, nel 1888 le tribù cattoliche dell’Albania e del Kosovo non avevano visto un sacerdote da dieci anni. E, parlando di distanza, questa regione non era così lontana dal centro – Roma – come l’Amazzonia. Ciò che i missionari gesuiti della Missione itinerante trovarono tra le remote e isolate tribù albanesi del nord non era molto diverso dalla situazione degli indigeni dell’Amazzonia. Trovarono uomini e donne che non si erano confessati da vent’anni, cattolici che non si erano mai confessati in vita e giovani che non erano mai stati battezzati o che non avevano mai visto un sacerdote. Abbondavano anche gli abusi morali: uomini che convivevano con molteplici mogli, matrimoni combinati, superstizioni, animismo, vendette o faide sanguinose tra le famiglie. La Chiesa non pensò mai di cambiare dottrina o tradizione, di ordinare gli anziani della tribù (che erano molto rispettati dal popolo), o di ordinare donne diacono per rimpiazzare celibi, sacerdoti formati in seminario e missionari che predicavano, ascoltavano confessioni e con il loro zelo e dedizione disinteressate sollevavano la gente e promuovevano vocazioni sacerdotali nativo-locali. Infatti, nonostante le numerose conversioni forzate all’Islam, il cattolicesimo fu salvato e le vocazioni sacerdotali tra i locali si susseguirono negli altipiani dell’Albania e del Kosovo.
La verità è che la Chiesa allora non ha optato per la riforma secondo l’agenda modernista, né per la facile via d’uscita. I missionari gesuiti della Missione itinerante non si sono arresi, ma si sono alzati per affrontare le sfide e le difficoltà dell’evangelizzazione. Nel 1907, Papa Pio X, nella sua enciclica Pascendi Dominici Gregis (Nutrire il gregge del Signore), metteva in guardia contro i pericoli della riforma modernista, che mirava a cambiare la filosofia, la teologia, la storia, il dogma, il culto e il celibato ecclesiastico del cattolicesimo:
Riformare la filosofia, soprattutto nei seminari: la filosofia scolastica deve essere relegata alla storia della filosofia tra sistemi obsoleti, e ai giovani deve essere insegnata la filosofia moderna, che è l’unica vera e adatta ai tempi in cui viviamo. Riformare la teologia; la teologia razionale deve avere una filosofia moderna per il suo fondamento, e la teologia positiva deve fondarsi sulla storia del dogma. Quanto alla storia, essa deve essere per il futuro scritta e insegnata solo secondo i loro metodi e principi moderni. I dogmi e la loro evoluzione devono essere armonizzati con la scienza e la storia. Nel catechismo non devono essere inseriti dogmi, tranne quelli che sono stati debitamente riformati e che rientrano nelle capacità del popolo. Per quanto riguarda il culto, il numero di devozioni esterne deve essere ridotto, o almeno si devono prendere misure per evitare che aumentino ulteriormente, anche se, in effetti, alcuni degli ammiratori del simbolismo sono disposti ad essere più indulgenti su questo capo. Il governo ecclesiastico richiede di essere riformato in tutti i suoi rami, ma soprattutto nelle sue parti disciplinari e dogmatiche. Il suo spirito con la coscienza pubblica, che non è tutta per la democrazia; la partecipazione al governo ecclesiastico dovrebbe quindi essere data ai ceti inferiori del clero, e anche ai laici, e l’autorità dovrebbe essere decentrata. Le congregazioni romane, e specialmente l’indice e il Sant’Uffizio, devono essere riformate. L’autorità ecclesiastica deve cambiare la sua linea di condotta nel mondo sociale e politico; pur tenendosi fuori dell’organizzazione politica e sociale, deve adattarsi a quelle esistenti per penetrarle con il suo spirito. Per quanto riguarda la morale, essi adottano il principio degli specialisti della cultura americana, secondo cui le virtù attive sono più importanti di quelle passive, sia nella stima in cui devono essere tenute che nell’esercizio di esse. Ai chierici viene chiesto di tornare alla loro antica umiltà e povertà, e nelle loro idee e azioni di essere guidati dai principi del modernismo; e c’è chi, facendo eco all’insegnamento dei loro maestri protestanti, vorrebbe la soppressione del celibato ecclesiastico. Che cosa c’è nella Chiesa che non deve essere riformata secondo i loro principi?
Profeticamente, Papa Pio X ha previsto la lotta del post Vaticano II per sostituire localmente [in Amazzonia] il celibato ecclesiastico. Infatti, quella che è stata offerta come opzione per l’Amazzonia è la soluzione facile e modernista di cui Papa Pio X aveva avvertito la Chiesa nel 1907. Fare un passo verso la soppressione del celibato ecclesiastico e l’ordinazione degli anziani al sacerdozio, il Sinodo pan-amazzonico. Il Documento di lavoro [l’Instrumentum laboris] per il Sinodo dei vescovi propone l’ordinazione di [uomini]:
…. preferibilmente indigeni, rispettati e accettati dalla loro comunità, anche se hanno una famiglia esistente e stabile, per assicurare la disponibilità dei Sacramenti che accompagnano e sostengono la vita cristiana.
La Chiesa post-Vaticana II ha esaurito le soluzioni? O semplicemente è a corto di attenzione e fervore evangelistico? Papa Francesco, nella sua Esortazione Apostolica Evangelii Gaudium del 2013, offre una chiave e una soluzione per promuovere le vocazioni locali al sacerdozio, che è diversa dalla soluzione modernista e facile del Sinodo pan-amazzonico. Il documento di lavoro [Instrumentum Laboris] per il Sinodo dei vescovi:
Molti luoghi stanno sperimentando una carenza di vocazioni al sacerdozio e alla vita consacrata. Ciò è spesso dovuto alla mancanza di un contagioso fervore apostolico nelle comunità, che si traduce in un raffreddamento di entusiasmo e attrattiva. Ovunque ci sia vita, fervore e desiderio di portare Cristo agli altri, sorgeranno autentiche vocazioni. Anche nelle parrocchie dove i sacerdoti non sono particolarmente impegnati e gioiosi, la vita fraterna e il fervore della comunità possono risvegliare nei giovani il desiderio di consacrarsi completamente a Dio e alla predicazione del Vangelo.
Secondo Papa Francesco, il problema non è la mancanza di vocazioni; la mancanza di vocazioni autoctone è il risultato della mancanza di fervore apostolico e della mancanza di processi evangelistici seri e profondi. Una seria, autentica e continua evangelizzazione porterà autentiche vocazioni autoctone al sacerdozio in Amazzonia come altrove. Il popolo amazzonico, così come i cattolici in altre parti del mondo, ha bisogno di essere evangelizzato e convertito a Cristo. (Come scrisse Paolo VI nel 1975: “La Chiesa è evangelizzatrice, ma essa stessa inizia con l’essere evangelizzata”). Se il Sinodo cerca di trovare una soluzione, l’ordinazione di viri probati – uomini di provata fiducia – non è una soluzione. I missionari dovrebbero prendere la fiaccola e iniziare a correre la corsa con fervore e sete per portare Cristo agli altri, sulla strada che una grande e illustre schiera di missionari ha posto davanti a loro. La Chiesa non deve accontentarsi di meno, ma riportare il meglio delle sue pratiche missionarie.
di Ines Murzaku
Sulla questione del diaconato femminile ecco alcune voci dal sinodo amazzonico. Un vescovo presente al Sinodo dell’Amazzonia dice di essere pronto ad ordinare donne diacono se il sinodo lo suggerisce ed il Papa lo autorizza. Ce ne parla Hannah Brockhaus nel suo articolo pubblicato sul Catholic News Agency. Eccolo nella mia traduzione.
Un vescovo che partecipa al Sinodo vaticano dell’Amazzonia ha detto sabato che ordinerà le donne nelle sue comunità come diaconi se l’idea è raccomandata dal Sinodo e permessa da Papa Francesco.
Il vescovo Dom Adriano Ciocca Vasino della prelatura di São Félix, Brasile, ha detto il 12 ottobre, ci sono donne nella sua comunità che hanno già una formazione teologica, e “sanno che se questo sinodo, con il permesso del papa, apre la possibilità del diaconato per le donne…. le ordinerò io”.
Ciocca è intervenuto ad una conferenza stampa che si è svolta durante il Sinodo dei vescovi vaticani sulla regione pan-amazzonica, un incontro dal 6 al 27 ottobre sulla vita e il ministero della Chiesa nella regione.
Il vescovo ha descritto ai giornalisti un modello di formazione che usa nella prelatura di São Félix, con una scuola teologica aperta sia agli uomini che alle donne.
Dopo il completamento del corso quadriennale, agli uomini che desiderano diventare sacerdoti viene chiesto di trascorrere diversi anni di vita e di lavoro nella comunità locale, dopodiché vengono considerati per l’ordinazione come diaconi o sacerdoti, anche su raccomandazione della comunità in cui vivono.
L’idea che le donne possano essere ordinate o nominate in qualche modo come diacone nella Chiesa è in discussione da quando Papa Francesco ha nominato una commissione per studiare la questione nel 2016. La Chiesa insegna come definitivo che solo gli uomini possono essere ordinati sacerdoti o vescovi, ma alcuni teologi suggeriscono che le donne sono state ordinate diaconi nei primi secoli della Chiesa.
Altri teologi affermano che l’ordinazione è un sacramento riservato agli uomini, e che mentre le donne potrebbero essere incaricate con qualche forma di “diaconato”, una parola greca che significa “servizio”, il loro incarico non sarebbe sacramentale.
In maggio, Papa Francesco ha detto ai giornalisti che alcuni membri della commissione vaticana hanno concluso che il “diaconato femminile” storico era diverso dal ruolo dei diaconi maschi, ciò perché non includeva l’ordinazione sacramentale.
“Per esempio, le formule dell’ordinazione femminile diaconale finora trovate, secondo la commissione, non sono le stesse per l’ordinazione di un diacono maschio e sono più simili a quella che oggi sarebbe la benedizione abbaziale di una badessa”, ha detto.
Il papa ha aggiunto che altri membri della commissione ritengono che ci fosse “una formula da diacono femminile”, ma non è chiaro se si trattasse o meno di un’ordinazione sacramentale.
Un diacono permanente del Brasile, Francisco Andrade de Lima, ha detto ai giornalisti che non è contrario all’idea di diaconi donne, ma che ritiene che la questione debba essere pensata in termini di vocazioni, piuttosto che semplicemente come una potenziale soluzione a un problema.
Secondo il briefing del 12 ottobre, il tema della formazione è importante per la Chiesa in Amazzonia.
La formazione adeguata dei sacerdoti e dei laici è una grande sfida nella regione, ha detto il vescovo Rafael Cob García del vicariato di Puyo, Ecuador.
Cob ha detto di pensare che la chiave per l’evangelizzazione in Amazzonia sia l’inculturazione e la comprensione della realtà vissuta. Ha anche sottolineato che l’approccio all’evangelizzazione nelle città deve essere molto diverso da quello adottato nelle zone più remote.
Per avere “una Chiesa dal volto amazzonico”, si devono trovare nuovi percorsi di formazione e di evangelizzazione, ha detto. Per una Chiesa dal volto amazzonico, ha notato, si ha bisogno anche di vocazioni provenienti dalle comunità locali, ma la sfida principale in questo momento è la mancanza di formatori e di una buona formazione a livello locale.
Interrogato sull’importanza dell’evangelizzazione rispetto all’importanza di proteggere le comunità indigene minoritarie da cattivi attori esterni, Cob ha detto che entrambe sono importanti, ma che queste comunità minoritarie, come tutti, hanno il diritto di conoscere la missione salvifica di Cristo.
Hanno bisogno di essere evangelizzate in modo diretto, ha detto, indicando il mandato missionario della Chiesa di portare Cristo a tutti gli uomini.
Cob ha anche detto che c’è bisogno di proteggere gli indigeni dalle multinazionali “avide” che entrano in uno spazio senza preoccuparsi degli abitanti di quello spazio. Le loro vite sono minacciate da questo, ha affermato.
Di Sabino Paciolla
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