Caso Orlandi / Parla Viganò: “Ecco i miei ricordi di quella sera del 1983”
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Periodicamente la vicenda di Emanuela torna alla ribalta, e così è stato anche l’estate scorsa, quando, in seguito a un’istanza presentata dall’avvocato Laura Sgrò, legale della famiglia Orlandi, nel camposanto teutonico, in Vaticano, sono state aperte due tombe. “Le tombe sono vuote” hanno titolato i giornali, dopo di che è calato di nuovo il silenzio. In realtà sono stati trovati frammenti ossei, e l’avvocato Sgrò ritiene che si debba ancora indagare.
“Dopo un primo esame sulle ossa ritrovate – ci dice la legale della famiglia Orlandi – contrariamente a quanto sostenuto dal professor Giovanni Arcudi, perito d’ufficio, riteniamo che alcuni resti meritino un ulteriore approfondimento. Abbiamo fatto le nostre richieste e siamo in attesa, ormai da mesi, di conoscere gli intendimenti della magistratura vaticana in tal senso. Dispiace vedere che si perda tanto tempo. Questa storia è incominciata il 22 giugno del 1983, il cammino verso la verità dovrebbe essere interesse comune. Certo è che, a prescindere da che cosa verrà deciso, noi continueremo a percorrere ogni via che possa condurci a Emanuela”.
Ma che cosa, davvero, può finalmente condurre a Emanuela? Le piste percorse sono innumerevoli, ma forse non si è prestata ancora la dovuta attenzione, in modo analitico, ai primissimi momenti successivi alla scomparsa. Parliamo della sera di quel 22 giugno del 1983 e ci riferiamo, in particolare, a quanto avvenne in Vaticano, negli uffici della segreteria di Stato, centro nevralgico della Santa Sede.
La stessa sera della scomparsa di Emanuela Orlandi, il 22 giugno 1983, intorno alle 20 (nemmeno due ore dopo che la ragazza era stata vista uscire dalla scuola di musica a Sant’Apollinare, vicino a Piazza Navona), uno sconosciuto chiamò il Vaticano e chiese di parlare urgentemente con il segretario di Stato, il cardinale Agostino Casaroli. Ma Casaroli era in viaggio, in Polonia, con il papa Giovanni Paolo II, per una visita ufficiale, e dunque non fu in grado di rispondere.
In segreteria di Stato all’epoca lavorava un monsignore di curia il cui nome sarebbe diventato celebre molti anni dopo. Si tratta di Carlo Maria Viganò.
Il futuro nunzio vaticano negli Stati Uniti, che l’anno scorso, con il suo rapporto sul cardinale McCarrick e la richiesta di dimissioni rivolta a papa Francesco, ha suscitato tanto clamore, nel 1983 lavorava a stretto contatto con l’arcivescovo Eduardo Martinez Somalo, che ricopriva l’incarico di sostituto per gli affari generali, una sorta di ministro dell’interno.
Monsignor Viganò ha accettato di tornare con la memoria a quella sera del 22 ottobre 1983, ed ecco le sue risposte.
Monsignore, qual era il suo incarico all’epoca? Dove si trovava? Chi c’era con lei?
Ovviamente a distanza di oltre trent’anni da quella sera non posso essere preciso su tutto. In quegli anni, dal 1978 al 1989, svolgevo l’incarico, insieme con monsignor Leonardo Sandri, di segretario del sostituto, che allora era l’arcivescovo Eduardo Martinez Somalo. Quella sera mi trovavo in ufficio in segreteria di Stato alla terza loggia insieme con monsignor Sandri, mentre il sostituto era assente.
Come le arrivò la notizia?
Erano circa le 20, o forse più tardi, quando ricevetti una telefonata da padre Romeo Panciroli, allora direttore della sala stampa vaticana, il quale mi annunciò che era giunta, appunto alla sala stampa, una telefonata anonima che annunciava che Emanuela Orlandi era stata rapita. Padre Panciroli mi disse che mi avrebbe inviato immediatamente via fax un testo con il contenuto della telefonata.
Quale fu, nel dettaglio, il contenuto della telefonata? Lei in seguito ha detto che era composto da due paragrafi: che cosa dicevano?
Purtroppo la memoria non mi assiste sul contenuto preciso di quel documento. Vi si affermava che Emanuela Orlandi era detenuta da loro e che la sua liberazione era collegata a una richiesta, il cui adempimento non necessariamente dipendeva dalla volontà della Santa Sede. Si trattava di un messaggio formulato in termini precisi e ben costruito. Esso è indubbiamente reperibile nell’archivio della segreteria di Stato.
Chi altri venne a conoscenza del contenuto della telefonata? Dopo aver ricevuto il fax che cosa fece? Con chi parlò?
Poiché, come ho detto, il sostituto non era in ufficio, mi recai immediatamente alla seconda sezione, quella che oggi si chiama sezione per i rapporti con gli Stati. L’arcivescovo Achille Silvestrini (futuro cardinale, morto il 29 agosto scorso, ndr) lesse il testo e commentò che secondo lui si trattava dello scherzo di pessimo gusto di qualche squilibrato. Da parte mia gli feci notare che il testo era redatto in termini molto rigorosi e scritto in modo professionale e che quindi doveva essere preso in seria considerazione. Mi venne in mente che il contenuto della telefonata anonima presentava una strana coincidenza con un’altra vicenda. Poco tempo prima era giunta in segreteria di Stato una lettera, firmata da un sedicente rifugiato di un paese dell’Est Europa, il quale diceva di trovarsi in un campo profughi in Friuli e chiedeva asilo politico in Vaticano. Alla lettera allegava una sua fotografia formato tessera e un certificato della sua iscrizione al medesimo istituto di musica sacra frequentato da Emanuela Orlandi. Erano le dieci di sera passate e con monsignor Sandri chiamammo immediatamente il responsabile dell’archivio perché ci desse quel documento, che consegnammo in copia quella sera stessa al dottor Volpe, dell’ispettorato di pubblica sicurezza presso il Vaticano, perché facesse le opportune indagini.
Chi fu coinvolto?
Nel mio ruolo di segretario non mi fu dato sapere quali iniziative abbia preso nell’immediato monsignor Silvestrini, ma non ho dubbi che ne informò il sostituto e il cardinale segretario di Stato Agostino Casaroli e anche papa Giovanni Paolo II.
Quali furono le reazioni?
Di viva preoccupazione e di grande impegno per fare il possibile per salvare Emanuela. I suoi genitori, costernati, vennero in segreteria di Stato dai miei superiori, e più volte li vidi recitare il rosario alla grotta di Lourdes, la sera, nei giardini vaticani. In segreteria venne più volte anche un loro avvocato per avere informazioni.
In seguito, alle comunicazioni dei presunti rapitori venne riservata una linea telefonica, con il numero 158. Anche lei rispose al telefono?
Sì, ricevetti anch’io alcune telefonate da quello che i media chiamarono “l’americano”. Le telefonate erano in italiano, ma dalla pronuncia di quell’uomo capii che non si trattava di un americano; piuttosto di qualcuno che aveva inflessioni proprie dei maltesi. L’interlocutore si limitava a chiedere di voler parlare unicamente con il cardinale Casaroli e fu quello il motivo per cui a un certo punto fu creata una linea riservata. Da parte nostra fu fatto tutto il possibile per far sì che questo interlocutore potesse parlare con Casaroli. Vennero fissati diverse volte appuntamenti telefonici. Ma il cardinale rimase in attesa inutilmente, perché quell’individuo non rispettava mai l’orario stabilito e, forse per evitare che venisse identificata la località da dove proveniva la telefonata, richiamava magari un’ora o due ore dopo. Il sostituto ebbe contatti anche con il magistrato italiano responsabile dell’antiterrorismo. Per evitare che quell’alto funzionario (di cui purtroppo non ricordo il nome) fosse visto entrare in Vaticano, un incontro ebbe luogo alla nunziatura apostolica in via Po. Accompagnai il sostituto a quell’incontro, in cui fu fissato un appuntamento telefonico in segreteria di tato per le dieci di sera di un giorno determinato. Quando venne il giorno, alla presenza del magistrato, restammo in attesa della telefonata fin dopo le 23 nel mio ufficio, assieme al sostituto. Naturalmente tutto era stato predisposto dai servizi italiani per intercettare la provenienza della telefonata, ma fu inutile. La telefonata arrivò dopo che il magistrato fu uscito dal Vaticano, tanto che lui, il magistrato, si disse convinto di avere a che fare con i servizi segreti di un altro Stato che conoscevanole sue mosse e ci confidò che per precauzione cambiò immediatamente i membri della sua scorta.
Dalle pagine dell’Annuario pontificio del 1983 risulta che nella segreteria di Stato dell’epoca c’erano molte persone che poi avrebbero assunto incarichi importanti: tra loro, solo per fare alcuni nomi, i futuri cardinali Sepe, Sandri, Harvey, Re e Dziwisz, quest’ultimo storico segretario particolare di Giovanni Paolo II. È immaginabile che all’epoca, e anche in seguito, queste persone siano venute a conoscenza di particolari utili alle indagini. Sono state sentite? Con lei hanno mai parlato?
Oltre al segretario di Stato e al sostituto, anche l’assessore Giovanni Battista Re e naturalmente anche monsignor Dziwisz furono tra le persone allora in servizio in segreteria di Stato che certamente vennero a sapere nei dettagli quanto avvenne e le decisioni prese al riguardo. Mentre nella seconda sezione oltre a monsignor Silvestrini ne vennero a conoscenza il sottosegretario (che credo fosse monsignor Tauran) ed eventualmente anche il minutante per l’Italia, che credo fosse monsignor Mennini. Certo l’Annuariopontificio riporta una lunga lista di nomi, ma ognuno con competenze nella singole sezioni, mentre la vicenda di Emanuela fu trattata con grande discrezione direttamente dai superiori. Anche a noi segretari del sostituto non veniva detto se non l’essenziale in funzione operativa. Nella segreteria del cardinale Casaroli penso vi fosse monsignor Celata e forse anche monsignor Ventura. Ma io non ho mai avuto l’occasione di parlare con loro al riguardo.
Furono avviate indagini interne sulla vicenda di Emanuela? Se sì, a chi furono affidate?
Non ne sono mai venuto a sapere. In questo caso la memoria mi avrebbe assistito. Solo i superiori di allora sarebbero in grado di dirlo.
Ci furono riunioni tra di voi nella segreteria di Stato? Lei fu presente? Ne ebbe almeno notizia? Vide che vi partecipò?
Non mi risulta che ci furono riunioni.
In quei giorni ci furono visite di esponenti istituzionali italiani?
È probabile, ma non ne ho memoria. Credo probabile che il sostituto ne abbia parlato con l’allora ambasciatore d’Italia presso la Santa Sede, Claudio Chelli.
Lei dice che nella prima telefonata si affermava che Emanuela era “detenuta da loro”. Può dirci di più su “loro”? Chi erano? Come si qualificarono?
Mi rendo conto dell’imprecisione della mia risposta, ma la mia memoria non mi permette di precisare ulteriormente.
Secondo lei il testo di quella telefonata è conservato nell’archivio della segreteria di Stato. Ora non sarebbe segno di trasparenza renderlo noto? Perché resta segreto?
Certo, il testo di quella telefonata, l’appunto che ricevetti da padre Panciroli, deve essere nell’archivio della segreteria di Stato e non so se fu mai dato agli inquirenti italiani. Mi meraviglierei che non fosse stato fatto.
Lei dice che il testo di quella prima telefonata fu redatto “in termini molto rigorosi” e fu “scritto in modo professionale”. Può spiegare meglio che cosa intende? E che cosa dedusse da queste caratteristiche formali?
È rimasta nella mia memoria l’impressione, che ebbi fin dalla prima lettura, della precisione dei termini usati in quel testo e quindi della serietà di quanto vi era asserito. Lo ricordo bene perché la mia impressione fu completamente diversa da quella di monsignor Silvestrini, che parlò di uno “scherzo”.
Lei dopo aver parlato con monsignor Silvestrini si rivolse anche ad altri?
Ne parlai ovviamente alla prima occasione con monsignor sostituto e con monsignor Sandri, che potrebbe avere una memoria migliore della mia.
Pensa che esista una copia della lettera del rifugiato dell’Est Europa che chiedeva asilo politico in Vaticano?
Anche questo documento dovrebbe trovarsi negli archivi della segreteria di Stato.
Lei riferisce che Silvestrini in un primo tempo pensò a uno scherzo di cattivo gusto. Però dice anche: “Non ho dubbi che Silvestrini informò il sostituto e il cardinale segretario di Stato Agostino Casaroli e anche papa Giovanni Paolo II”. Quindi Silvestrini cambiò subito idea? E lei come sa che Silvestrini si rivolse subito ai vertici? Glielo disse lui? Pensa che Silvestrini sapesse qualcosa di più di quanto voleva dare a vedere?
Silvestrini non doveva certo dire a me quello che aveva intenzione di fare, ma è ovvio che non può non averne parlato quanto prima con il sostituto e il cardinale. Non credo che Silvestrini avesse alcun motivo per simulare con me minimizzando il fatto.
Lei dice che le immediate reazioni furono di “grande preoccupazione”. In che modo fu espressa questa preoccupazione. Chi espresse preoccupazione e perché?
Da quanto era percepibile da un osservatore esterno, seppure nella segreteria del sostituto, ritengo che la preoccupazione fosse evidente. Ma il tenore dei colloqui dei superiori fra di loro non veniva comunicato ad altri.
Lei dice anche che la situazione fu affrontata subito “con grande impegno”. Può spiegarmi meglio in che modo si manifestò questo impegno? In concreto che cosa fece la segreteria di Stato?
Purtroppo rimango a un livello di impressioni allora avute e non sono in grado di precisare meglio.
Lei dice di aver ricevuto personalmente alcune delle telefonate del cosiddetto “americano”, che però a suo giudizio sarebbe stato piuttosto un maltese. Che cosa le disse? Che cosa ricorda di quei colloqui al telefono?
L’unica richiesta del chiamante era di parlare con il cardinale Casaroli. Lo faceva con insistenza e non diceva altro. Le telefonate erano solo su questo argomento.
Lei pensa che il cardinale Casaroli condusse una sua trattativa riservata, al di là di quanto si è saputo?
Non ne ho idea. Ma su questo punto potrebbe sapere qualcosa monsignor Pier Luigi Celata, che era il suo segretario di fiducia.
Aldo Maria Valli
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