Giuda e l'Inferno, Paglia scomunica anche Gesù
Hanno fatto rumore le ultime esternazioni di monsignor Paglia, che ha definito “eretico” chi crede che Giuda sia all’Inferno. Ma i Vangeli, nonché molti santi e papi lo smentiscono. E anche sull’assistenza religiosa a chi si ostina al suicidio assistito le parole del vescovo contraddicono il Magistero.
Gesù Cristo è eretico. Eh sì, cari lettori, è la triste verità. O non vorrete forse dubitare delle asserzioni di mons. Vincenzo Paglia? Sua Eccellenza, lo scorso 10 dicembre ha presentato il Simposio internazionale Religione ed etica medica: cure palliative e la salute mentale durante l'invecchiamento, organizzato dalla Pontificia Accademia per la Vita e dalla World Innovation Summit for Health, Simposio che si è tenuto a Roma presso l'Augustinianum, l’11 e il 12 dicembre (vedi qui e qui).
Rispondendo ad alcune domande di un giornalista, mons. Paglia ci informa che «per la Chiesa cattolica, se uno afferma che Giuda sta all'inferno, è un eretico». Abbiamo già dovuto udire diverse volte dal pulpito (pardon, dall’ambone) di Santa Marta che Giuda si è in realtà pentito (10 aprile 2016), che Giuda è «la pecora smarrita più perfetta» che il Vangelo ci presenta (6 dicembre 2016) e qualche giorno dopo (13 dicembre) che «il povero Giuda traditore e pentito non è stato accolto dai pastori». Poi abbiamo avuto la fila di interventi sull’interpretazione del capitello della Basilica Santa Maria Maddalena di Vézelay, quasi rappresentasse la salvezza di Giuda; interpretazione che si basava su libro di Eugen Drewermann, Il Vangelo di Marco. Immagini di Redenzione, ma che in realtà risulta errata.
Dunque, purtroppo, il tema gnostico della salvezza di Giuda non è nuovo; la novità sta nell’anatema lanciato da Paglia, il quale non dev’essersi accorto di averlo scagliato contro Gesù stesso, che, in riferimento a Giuda, non aveva lasciato adito a dubbi: «Il Figlio dell'uomo se ne va, come sta scritto di lui, ma guai a quell'uomo dal quale il Figlio dell'uomo è tradito! Bene per quell'uomo se non fosse mai nato!» (Mc. 14, 21). Cosa c’è di peggio che non l’essere mai nato? Chiunque abbia la fede cattolica nell’esistenza dell’Inferno, conosce bene la risposta.
Una maledizione, quella riportata, che il Maestro non ha lanciato contro gli altri discepoli, che pure lo hanno abbandonato e neppure contro Pietro, che lo ha rinnegato per ben tre volte. Evidentemente Gesù, che è Dio, sapeva che il traditore non si sarebbe pentito. Ma non si tratta dell’unico elemento delle Scritture che ci porta almeno a non essere troppo ottimisti circa la sorte eterna di Giuda; Gesù, pregando il Padre, si rivolge a Lui con queste altre inequivocabili parole: «Nessuno di loro è andato perduto, tranne il figlio della perdizione, perché si adempisse la Scrittura» (Gv. 17, 12).
E’ vero che ormai abbiamo imparato dal generale dei Gesuiti che, in assenza di registratori imperiali, non sappiamo esattamente cosa abbia detto Gesù; ma ci si conceda che queste parole dimostrano almeno che la prima comunità cristiana riteneva – eccome! – che Giuda fosse finito nei bassi fondi. Tutti eretici.
Eretici pure gli estensori del Catechismo tridentino, che, riferendosi alla virtù di penitenza, nel paragrafo 241, hanno messo in guardia da quell’eccesso che si chiama disperazione: «Tale sembra essere stato il caso di Caino che esclamò: "II mio peccato è più grande del perdono di Dio" (Gn 4,13) e tale fu certamente quello di Giuda, il quale pentito, appendendosi al laccio, perdette insieme la vita e l'anima (Mt 27,3; At 1,18)». Forse per Caino, ma certamente per Giuda. Anathema sit!
Eretico anche San Leone Magno, che nel Sermone LXII (undicesimo sulla Passione), parla della disperazione di Giuda ed afferma che «il traditore, non poté ottenere questo perdono, perché, quale figlio di perdizione, avendo alla destra il diavolo, giunse alla disperazione prima ancora che Cristo completasse l’opera, sacra ed efficace, della universale Redenzione». Ed aggiunge, a scanso di equivoci, che «l’empio traditore insorse contro se stesso non con la resipiscenza di chi si piega a penitenza, ma con la follia di chi va in perdizione. Fu così che, avendo venduto agli assassini l’autore della vita, anche nell’atto di morire, commise peccato, ad aumento della sua condanna (in augmentum damnationis suae)». E si potrebbe proseguire, con altri santi e dottori. Ovviamente tutti eretici.
Ma perché mons. Paglia si mette ad anatemizzare gli insensibili accusatori di Giuda in un contesto di riflessione sulle cure palliative?
La Conferenza Episcopale Svizzera ha deciso di dare delle indicazioni dottrinali e pastorali sul suicidio assistito, dilagante nel paese elvetico, con il documento Comportamento pastorale di fronte alla pratica del suicidio assistito (testo francese scaricabile qui e riassunto in italiano qui). I Vescovi hanno espresso la radicale contrarietà di questa pratica al Vangelo ed hanno affermato il dovere di difendere la vita umana dal concepimento alla morte naturale. Se il suicidio rimane «un atto intrinsecamente cattivo», il suicidio assistito è ancora più grave, in quanto «azione riflessa, organizzata e pianificata».
Il documento affronta poi una questione pastorale delicata: di fronte a diverse richieste da parte di persone che hanno scelto il suicidio assistito, di essere accompagnate dalla presenza del sacerdote, i vescovi elvetici hanno esortato ad accompagnare queste persone il più possibile, nella speranza del pentimento. Ma hanno poi aggiunto che «l’agente pastorale ha il dovere di lasciare fisicamente la camera del malato nel momento stesso dell’atto suicida».
La ragione di questo comportamento è spiegata con chiarezza: «Rifiutandosi, in questo momento preciso, di assistere una persona che volontariamente si toglie la vita, l’agente pastorale testimonia con i fatti l’opzione della Chiesa in favore della vita [...] Malgrado tutti gli sforzi fatti, la presenza di un agente pastorale a fianco di una persona che si suicida deliberatamente, sarebbe interpretata, forse a posteriori, come un sostegno o una cooperazione: non solo i familiari coinvolti e le associazioni stesse potrebbero interpretare questo atto come un’approvazione dell’aiuto al suicidio, ma la società potrebbe pensare che la Chiesa avvalli queste azioni: il rischio è immancabilmente quello di un oscuramento della testimonianza pubblica della Chiesa in favore della vita».
I vescovi svizzeri hanno dunque trovato il giusto equilibrio tra l’assistenza umana e spirituale alla persona e la testimonianza della riprovazione del suicidio assistito.
Mons. Paglia, con la precisione e la delicatezza di un elefante in una cristalleria, rispondendo proprio ad una domanda sulla questione pastorale affrontata nel documento, se ne è uscito con espressioni di questo tipo: «Mai nessuno deve essere abbandonato, in qualunque situazione si trovi [...] Accompagnare e tenere per mano chi muore è un grande compito che ogni credente deve promuovere, così come il contrasto al suicidio assistito». Già. E perché non stare con una donna nel momento in cui abortisce? E magari di fianco ad un sicario, mentre uccide un innocente? Dopotutto, il Signore non abbandona nessuno.
Paglia ha poi aggiunto: «Io faccio sempre i funerali a chi si suicida». Male, perché se è vero che il Codice di Diritto Canonico (can. 1184) in vigore non menzioni esplicitamente i suicidi tra le categorie di coloro ai quali si devono rifiutare le esequie ecclesiastiche, è altrettanto vero che vi sono però «i peccatori manifesti, ai quali non è possibile concedere le esequie senza pubblico scandalo dei fedeli». Di fronte ad un suicidio, specie se in presenza dell’aggravante della predeterminazione e del rifiuto di ravvedimento, bisognerebbe almeno prendere seriamente in considerazione l’eventualità che si tratti proprio del caso previsto dal Diritto Canonico.
Poi, in perfetto stile Sant’Egidio, chiarendo di non aver «letto nel dettaglio il documento» dei vescovi della Svizzera, mons. Paglia si sfila dall’argomentazione, con la solita scusa di chi lancia il sasso e ritira la mano: «Il tema va oltre le leggi e io non voglio dare una regola per contraddire e via dicendo. Vorrei togliere l’ideologia da queste situazioni per sempre e per tutti. [...] Evitiamo di bloccarci su dibattiti ideologici: quello che è più importante è l’accompagnamento». Già, l’accompagnamento; se poi la direzione sia verso la salvezza o la condanna eterna poco importa: l’importante è accompagnare. E soprattutto mettere il cervello in naftalina, altrimenti si diventa ideologici.
Morale della favola, mons. Paglia esorta ad accompagnare senza una meta, non rifiuta a nessun suicida il funerale, ma non risparmia l’accusa di eresia a chi ritiene che Giuda sia all’Inferno. La domanda sorge spontanea: siccome il canone appena citato, afferma anche che si debbono rifiutare i funerali a «quelli che sono notoriamente apostati, eretici, scismatici», vuoi vedere che Paglia li rifiuterà a noi, che crediamo che Giuda sia nel fuoco inestinguibile?
Luisella Scrosati
https://lanuovabq.it/it/giuda-e-linferno-paglia-scomunica-anche-gesu
Ieri Annarosa Rossetto nel suo articolo ha espresso grandi dubbi sulle affermazioni che mons. Paglia ha fatto sulla presenza di un sacerdote durante un suicidio assistito. Oggi rilancio un articolo di C.C. Pecknold, pubblicato sul Catholic Herald, che stigmatizza sia l’approccio di mons. Paglia alla questione sia l’abuso della parola “accompagnamento” che fa correre il rischio di trasformarla in un potente cavallo di Troia per l’introduzione di quanto è stato sempre estraneo all’insegnamento perenne della Chiesa.
Ecco l’articolo nella mia traduzione.
Accompagnamento è stata una parola d’ordine del pontificato di Papa Francesco. E’ una parola che normalmente significa quella parte musicale che dà supporto armonico ad una melodia. Mentre un accompagnamento può essere semplice o complesso, il suo compito principale è quello di sostenere l’esecuzione centrale – per elevarla e perfezionarla. In questo senso, è una bella metafora della presenza pastorale in mezzo alla vita delle persone.
Accompagnamento è stata una parola d’ordine del pontificato di Papa Francesco. E’ una parola che normalmente significa quella parte musicale che dà supporto armonico ad una melodia. Mentre un accompagnamento può essere semplice o complesso, il suo compito principale è quello di sostenere l’esecuzione centrale – per elevarla e perfezionarla. In questo senso, è una bella metafora della presenza pastorale in mezzo alla vita delle persone.
Eppure il termine può essere abusato.
Martedì scorso, all’arcivescovo Vincenzo Paglia, presidente della Pontificia Accademia per la Vita, è stato chiesto a un simposio di due giorni sulle cure palliative se un sacerdote potesse essere presente durante un suicidio assistito da un medico. Paglia è stato veloce a rispondere che sarebbe stato disposto ad essere presente in modo pastorale durante il suicidio, e che avrebbe tenuto la mano della persona perché “Il Signore non abbandona mai nessuno”.
L’Arcivescovo Paglia ha insistito sul fatto che essere presente pastoralmente non implica un sostegno alla pratica. Piuttosto che pensarla come una contraddizione, o un messaggio misto, Paglia ha detto che “accompagnare, tenere la mano di qualcuno che sta morendo” è il “grande dovere di ogni credente”.
La questione dell’accompagnamento è sorta perché i vescovi svizzeri avevano recentemente emanato direttive che dicevano esattamente il contrario riguardo alla cura pastorale nei casi di suicidio assistito. I vescovi svizzeri hanno dichiarato esplicitamente che, mentre gli operatori pastorali dovrebbero essere attivamente presenti nelle cure palliative, non dovrebbero mai essere presenti durante un suicidio assistito, perché questo darebbe un tacito sostegno ad un atto intrinsecamente cattivo.
Paglia respinge il consiglio delle direttive del vescovo che recita: “Lasciate andare le regole. Credo che nessuno dovrebbe essere abbandonato”. Mentre ha insistito sul fatto che è una “società crudele” che giustifica l’eutanasia, il presidente della Pontificia Accademia per la Vita ha ribadito che opposizione all’eutanasia non significa opposizione all’accompagnamento.
Comprendo perfettamente il desiderio pastorale di accompagnare qualcuno anche nei momenti più difficili. Eppure l’accompagnamento deve mantenere il suo significato armonico. L’accompagnamento deve seguire la logica della carità e della verità – altrimenti non sarà altro che un “bronzo che risuona” o un “cembalo che tintinna” come dice l’apostolo Paolo ai Corinzi.
L’autentico accompagnamento è la presenza della vera carità. Non sta a guardare mentre qualcuno si uccide nella disperazione. Può un sacerdote essere presente ad un suicidio assistito? Non per tenere la mano che non possono. Non cooperare materialmente in un atto intrinsecamente cattivo – un sacerdote non può, non deve accompagnare le persone in atti di grave peccato.
Un adeguato accompagnamento sacerdotale deve essere in armonia con la verità, perché solo allora un sacerdote può portare la vera carità a una persona sofferente. Non si tratta di “regole” come sembra pensare l’Arcivescovo Paglia. Si tratta del rapporto tra parole e azioni. Un sacerdote non accompagna adeguatamente nessuno se ciò che fa contraddice ciò che dice, o viceversa. Nessuno pensa che la presenza di un sacerdote durante un aborto o un matrimonio omosessuale sia una “parola d’ordine” – proprio perché le persone giustamente prendono la presenza sacerdotale come una tacita benedizione dell’atto stesso. Lo stesso vale per il suicidio assistito da un medico.
Thomas Petri, O.P., professore di Teologia morale presso la Dominican House of Studies di Washington, D.C. ha offerto una risposta di gran lunga migliore alla domanda se un sacerdote possa accompagnare qualcuno che sceglie l’autodistruzione come atto finale della propria anima.
“Non ti terrò la mano e non ti accompagnerò mentre ti impicchi. Non starò a guardare mentre ti spari da solo. Al contrario, giuro a Dio Onnipotente che farò tutto ciò che è in mio potere per impedirti di suicidarti, anche se è legale per te farlo“.
Questo è il vero accompagnamento – in armonia con la verità e l’amore. Questo è un sacerdote che difende la dignità umana. Piuttosto che rinnegare con riluttanza una cultura della morte tenendosi per mano, il vero accompagnamento predica Cristo crocifisso.
È vero quello che dice l’Arcivescovo Paglia: il Signore non abbandona mai nessuno in questa vita presente. Gesù Cristo è veramente Dio con noi! Dio si è fatto carne! Dio presente nel tempo. Ma la presenza di Dio non è accettazione sentimentale dei nostri peccati. Dio non si fa carne per confermarci, ma per metterci di fronte a quella realtà eterna che solo può guarire.
Flannery O’Connor una volta ha osservato che in un’epoca senza fede la “tenerezza” viene tagliata fuori dalla persona di Gesù Cristo che è la fonte di ogni tenerezza. Scrive: “quando la tenerezza si stacca dalla fonte della tenerezza, il risultato logico è il terrore. Finisce nei campi di lavoro forzato e nei fumi della camera a gas”. Il suo punto non è che la tenerezza conduce alla camera a gas. Il punto di O’Connor è molto simile a quello di Petri. L’unico vero accompagnamento, l’unica vera tenerezza, si affianca non per cooperare con il nostro peccato, ma per salvarci da esso.
Di Sabino Paciolla
Nessun commento:
Posta un commento
Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.