A sei giorni dall’uccisione a Baghdad del generale iraniano Qassem Suleimani (nella foto con l’ayatollah Ali Khamenei), era forte l’attesa di ciò che avrebbe detto Francesco nel tradizionale discorso d’inizio anno al corpo diplomatico.
Il papa si è espresso in proposito con queste parole, riprendendo quanto da lui già detto all’Angelus del 5 gennaio:
“Particolarmente preoccupanti sono i segnali che giungono dall’intera regione [del Medio Oriente], in seguito all’innalzarsi della tensione fra l’Iran e gli Stati Uniti e che rischiano anzitutto di mettere a dura prova il lento processo di ricostruzione dell’Iraq, nonché di creare le basi di un conflitto di più vasta scala che tutti vorremmo poter scongiurare. Rinnovo dunque il mio appello perché tutte le parti interessate evitino un innalzamento dello scontro e mantengano ‘accesa la fiamma del dialogo e dell’autocontrollo’, nel pieno rispetto della legalità internazionale”.
Va notato che tra la Santa Sede e l’Iran c’è una vicinanza di lunga data. Le relazioni diplomatiche intercorrono dal 1954 e anche con l’islam sciita e i suoi ayatollah c’è una tradizione di scambi culturali più consolidata che con l’islam sunnita. Sul terreno geopolitico, la diplomazia vaticana ha generalmente visto nell’Iran un fattore di stabilizzazione più che di scontro, oltre che di protezione delle minoranze cristiane nell’Iran stesso e nella vicina Siria. Durante il conflitto siriano tuttora in corso, la Santa Sede ha sempre parteggiato per la permanenza al potere di Bashar el Assad, di fatto assicurata principalmente proprio dalle milizie al Quds di Suleimani, spietate con le popolazioni civili non meno che con i combattenti.
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Recentemente, però, in Vaticano c’è stato qualche segnale di presa di distanza critica da questo tradizionale buon vicinato con la Repubblica Islamica dell’Iran.
Il quaderno de “La Civiltà Cattolica” mandato in stampa poche ore prima dell’uccisione di Suleimani è un’interessante “test” di come il Vaticano guarda oggi alle ambizioni di egemonia dell’Iran sul Libano e sull’Iraq, oltre che sulla Siria.
Giovanni Sale – il gesuita che si occupa del mondo musulmano nella rivista diretta da padre Antonio Spadaro e pubblicata con il “visto” preventivo del papa – dedica dieci pagine alle rivolte popolari che agitano da alcuni mesi il Libano, l’Iraq e lo stesso Iran.
E per quanto riguarda l’Iraq, padre Sale scrive che i bersagli principali della protesta, prevalentemente giovanile, sono proprio “gli ayatollah di Teheran, molto interessati a controllare strategicamente la regione della cosiddetta ‘mezzaluna sciita’”.
In Iraq – spiega il gesuita – vige attualmente “un sistema non ufficiale di quote”, che “spartisce il potere fra i primi tre gruppi di elettori: gli sciiti, i sunniti e i curdi”, assegnando la preminenza ai primi, con il sostegno anche armato dell’Iran.
E tale sostegno armato è entrato puntualmente in azione fin dall’inizio della rivolta popolare contro il predominio iraniano. Scrive padre Sale:
“Da quando è scoppiata la protesta, il 1 ottobre 2019, stando alle stime ufficiali, il numero dei morti è stato di circa 360, mentre quello dei feriti è stato di 16 mila. Durante la prima settimana della rivolta vi erano cecchini non identificati ma attribuiti all’Iran, che sparavano sulla folla. Anche i poliziotti antisommossa della Brigata 46, incaricata della sicurezza dell’ultraprotetta ‘zona verde’, dove risiede il governo, hanno partecipato attivamente alla repressione, sparando proiettili veri”.
Ma nonostante ciò – prosegue il gesuita – le proteste si sono estese da metà novembre anche in Iran. E anche lì sono state represse sanguinosamente:
“Molti manifestanti protestano per la dispendiosa politica estera condotta dalla Repubblica Islamica a sostegno dei propri alleati e clienti regionali: gli Hezbollah in Libano, gli Huthi nello Yemen, il governo siriano e le numerose milizie sciite irachene. […] Le manifestazioni sono state duramente represse dalla polizia, che non ha esitato a usare, come in Iraq, proiettili veri contro i manifestanti, causando, secondo Amnesty International, almeno 208 morti. […] Le rivolte però sono continuate, anche perché il malcontento sociale che scuote il Paese non è soltanto economico, ma più profondo. Viene contestata l’esportazione della rivoluzione islamica che legittima il regime e spende denaro pubblico in guerre lontane, privando i suoi cittadini di servizi basici”.
Scrive padre Sale in conclusione della sua analisi:
“La propaganda di regime ha interpretato immediatamente i fatti secondo i soliti cliché: le insurrezioni di piazza sono state manovrate dai nemici della rivoluzione islamica. […] Ma anche se le proteste in Iran, Iraq e Libano venissero in qualche modo sedate, il problema per Teheran rimarrebbe. Non sono soltanto gli americani, gli israeliani o i sauditi a voler contenere l’influenza sciita sulla regione e a preoccupare i governanti della Repubblica Islamica. La pressione viene anche dalle comunità depauperate e disilluse del Medio Oriente, per le quali i vecchi slogan sulla resistenza contro i ‘nemici esterni’ della rivoluzione sciita non sono più sufficienti e neppure necessari”.
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Fin qui ciò che “La Civiltà Cattolica” scrive. Ma c’è anche il non detto, ciò che il Vaticano sa ma preferisce tacere. E tra questo non detto c’è il ruolo svolto per molti anni dal generale Suleimani, prima che un missile lanciato da un drone americano lo annientasse poco fuori l’aeroporto di Baghdad, nella notte tra il 2 e il 3 gennaio.
Quando padre Sale fa cenno ai “cecchini non identificati ma attribuiti all’Iran” che sparavano sui manifestanti a Baghdad, non esplicita che all’inizio della protesta, quando le forze di sicurezza irachene s’erano riunite con il primo ministro Adil Abdul Mahdi, sciita, per decidere come reprimerla, a comandare la riunione c’era Suleimani in persona, come riportato da una dettagliata corrispondenza dell’Associated Press. E il giorno dopo dai tetti i cecchini cominciarono a sparare.
Nel fornire le cifre delle vittime di Baghdad “La Civiltà Cattolica” si attiene alle “stime ufficiali”. Ma in tre mesi di manifestazioni i morti e i feriti pare che siano stati molti di più, rispettivamente 600 e 22 mila, stando a quanto riferisce al “Corriere della Sera” dell’8 gennaio Ahmed sl Mutlak, membro del parlamento e segretario generale del partito iracheno sunnita denominato Negoziato e Cambiamento.
A Suleimani è fatta risalire, in Iraq, anche la scomparsa di 12 mila iracheni sunniti, catturati come sospetti oppositori mentre erano in fuga verso sud dalle regioni occupate e poi perse dall’ISIS.
In Iraq le milizie sciite comandate in modo diretto o indiretto da Suleimani contano oltre 140 mila combattenti, in buona parte infiltrati dall’Iran, e si intersecano con i corpi militari ufficiali. Ad esempio, dice ancora Ahmed sl Mutlak al “Corriere”, il capo militare di Ashad al Shaabi, cioè delle Forze di Mobilitazione Popolare sciite, è quello stesso Faleh al Fayaz che comanda il servizio di intelligence militare iracheno, e il cui numero due era quell’Abu Mahdi al Muhandis ucciso accanto a Suleimani sul veicolo colpito dal missile americano. Al Muhandis era anche il capo delle Kataib Hezbollah, cioè dei Battaglioni del Partito di Dio, la milizia sciita che a fine dicembre aveva diretto l’assalto contro l’ambasciata americana a Baghdad e che a metà dicembre aveva massacrato decine di pacifici manifestanti nel garage di Baghdad in cui trovavano riparo, secondo i testimoni ascoltati dall’inviato del “Foglio” Daniele Raineri.
Suleimani era l’onnipotente stratega a capo delle milizie al Quds dei Guardiani della Rivoluzione, la forza d'élite dell'esercito della Repubblica Islamica dell’Iran incaricata di compiere operazioni coperte all'estero.
La guerra in Siria a sostegno del regime filoiraniano di Assad era stata il suo esercizio maggiore. Nel 2015 fu Suleimani a convincere Putin a intervenire con gli aerei da bombardamento russi, mentre lui provvedeva alla battaglia sul terreno, mandando a combattere centinaia di mercenari sciiti reclutati in Afghanistan, in Pakistan, in Iraq e solo in misura ristretta in Iran. Per conquistare un quartiere cittadino o un villaggio Suleimani praticava una guerra al risparmio: non il rischioso combattimento casa per casa, ma l’assedio. Niente più acqua né viveri né medicine all’intera popolazione, senza distinguere tra militari e civili. Con centinaia di migliaia di vittime. I sopravvissuti non hanno pianto la sua uccisione, pochi giorni fa.
In Iran, nel mare di folla per i suoi funerali, non c’erano coloro che avevano manifestato nelle settimane precedenti proprio contro quella “esportazione della rivoluzione islamica”, che era l’obiettivo principe dell’azione di Suleimani.
Soprattutto non c’erano le famiglie degli “almeno 208 morti” che secondo il conteggio di Amnesty International riportato da “La Civiltà Cattolica” sono stati l’ultimo prezzo di quella domanda di libertà che Suleimani aveva tanto in odio.
Settimo Cielo
di Sandro Magister 09 gen
L’IMPERO DELLE BOMBE DEMOCRATICHE
di Roberto PECCHIOLI
L’impero delle bombe democratiche, l’America che, disse Jefferson, innaffia ad ogni generazione “l’albero della libertà con il sangue dei tiranni e dei martiri” (altrui), ha colpito ancora. Il generale iraniano Suleimani è caduto in Iraq nell’adempimento del dovere di soldato comandato in missione dalla sua Patria. Decliniamo lealmente le generalità: chi scrive è antiamericano fin dalla giovinezza. Figlio di chi contro gli “Alleati” aveva combattuto sul campo, detesta gli occupanti della sua terra e più ancora chi nasconde imperialismo, volontà di dominio, colonialismo militare e culturale sotto le mentite spoglie della democrazia e della libertà. Balle ad uso dei gonzi.
Distinguiamo naturalmente la maggioranza dei popoli che vivono negli Usa dalle loro classi dirigenti, le uniche a meritare il nostro disprezzo. Intanto, un altro morto è sulla coscienza dei “goodfellas” a stelle e strisce, nel silenzio imbarazzato del mondo politico e mediatico europeo. L’Italia, come al solito, brilla per assenza, tra ipocriti comunicati governativi, roboanti manifestazioni di entusiasmo del neo americano Salvini e pensosi pistolotti della stampa progressista allineata come sempre alla “Merica”, terra dei sogni e, concretamente, luogo di origine dei loro privilegi.
Il più serio è stato il vecchio democristiano Mastella; commentando la morte di Suleimani e il silenzio governativo, Clemente da Ceppaloni ha detto la verità scherzando: l’Italia non ha un ministro degli esteri in quanto quel ruolo è già occupato da Mike Pompeo, segretario di Stato dell’amministrazione Trump, abruzzese d’origine. Non è colpa di Giggino Di Maio se siamo una colonia di serie B, una periferia dell’impero nemmeno degna di essere avvertita in anticipo delle intenzioni delle loro maestà di Washington. Dobbiamo morire in conto terzi, occuparci del catering, montare qualche ospedale da campo nelle “missioni internazionali di pace “. Guerra è parola impronunciabile per opinioni pubbliche europee “incapaci di morire e di uccidere”, come scrisse Albert Camus sessant’anni fa. Importante è partecipare, al fianco degli amiconi d’oltreoceano e, ça va sans dire, pagare il conto a piè di lista, come per le spese delle oltre cento basi militari americane in Italia.
E allora, lasciateci sfogare, e dichiarare il nostro tenace, irriducibile dissenso dai signori americani. Non solo nella circostanza dell’assassinio del militare iraniano in un paese terzo, ma rispetto all’intera “american way of life” e alla politica imperiale a stelle e strisce. In Italia non risulta che alcun movimento politico ponga il problema della permanenza nella Nato e della pubblicazione dei protocolli riservati di pace che ci legano ai “liberatori”, quelli che ci hanno portato la cioccolata, le sigarette, la democrazia e ridotto a lustrascarpe.
Sciuscià, ecco quello che vogliono dagli altri popoli di là dell’Oceano. Ricordate il film neorealista di Vittorio De Sica sul bimbo napoletano lustrascarpe dei soldati Usa al tempo della guerra? Repelle già il nome: l’adattamento italiano di shoe shine, poiché lorsignori non si disturbano a capire, tanto meno imparare l’idioma altrui. L’America è perfetta, non si può desiderare nulla di diverso dal suo modo di vita, dalla sua organizzazione sociale ed economica, di conseguenza dobbiamo anche parlare come vogliono loro.
Saremo gli unici, ma non ci stiamo oggi come ieri e come per tanto tempo non ci stettero molti italiani di diverse ideologie. Restiamo quindi nella Nato- sorta per combattere un nemico scomparso 30 anni fa! – e continuiamo a inchinarci alla volontà imperiale di chi (forse) ci ha liberati 75 anni fa, ma che resta in casa nostra, come in quella di tanti altri popoli, a nostre spese, per comandarci senza che neppure si possa alzare il dito.
Altri saranno in grado di imbastire un coerente discorso geopolitico legato all’attuale presenza Usa in Medio Oriente, noi ci limitiamo a un’osservazione da bar dello sport: sarebbero interessati, gli Old Boys, all’Iraq e a combattere l’Iran se non ci fossero di mezzo colossali interessi di politica energetica e se non avessero imposto nel Mediterraneo orientale, insieme con gli inglesi, ex titolari dell’Impero, lo Stato d’Israele? Alcuni amici che si dichiarano di destra con la mano sul cuore, esultano per la nuova impresa americana, accusando noi di essere “talebani” e di non capire che la battaglia è “tra Oriente e Occidente”.
Premesso che non siamo interessati a trascorrere la vita tra mullah, ayatollah e pasdaran, ma non abbiamo dubbi sul fatto che ogni popolo abbia il diritto, anzi il dovere, di vivere in base ai principi della cultura che si è dato. Di passaggio, rileviamo che i feroci talebani non hanno invaso territori altrui e stroncarono con la forza il traffico di oppio in Afghanistan. Quanto al conflitto Oriente –Occidente, gran parte della destra italiana è in ritardo di 30 anni. Sarebbe il caso di avvertire della fine del comunismo e dell’avvento del globalismo a trazione americana. Parlano di sovranismo senza arrossire, ma è la pesca delle occasioni, come denunciava inascoltato negli anni 80 del secolo passato Beppe Niccolai. Altri ci accusano di parteggiare per regimi dispotici e antifemminili; dimenticano che gli amici loro sono non solo alleati, ma soci in affari (vadano su Wikipedia e cerchino Aramco) dell’Arabia Saudita e degli emirati del golfo persico, noti paradisi di tolleranza, democrazia e femminismo.
Giusto per infrescare la memoria selettiva dei servi sciocchi e felici, ricordiamo che i sauditi hanno ucciso e addirittura smembrato un loro connazionale giornalista, Kashoggi, direttamente all’interno dell’ambasciata in Turchia, che conducono una guerra sanguinosa e dimenticata contro lo Yemen, che stanno ricevendo sofisticati, costosissimi armamenti da Washington, finanziano l’islamismo più estremista in giro per l’Europa e, tanto per gradire, sono alleati di fatto di quelli che dovrebbero essere i loro più irriducibili nemici, gli israeliani. A proposito: il Davide ebraico alleato e mosca cocchiera del Golia a stelle e strisce possiede almeno 200 testate nucleari in grado di raggiungere anche Roma.
Lo storico militare israeliano Martin Levi Van Creveld ha ammesso in un libro del 2003 (The Gun and the Olive Branch) che la cosiddetta “Operazione Sansone”, ovvero il lancio di missili nucleari come ultima risorsa, fa parte delle opzioni di Tel Aviv. Dimenticavamo: da 70 a 90 testate nucleari sono dispiegate in territorio italiano. Ci correggiamo: sono all’interno di basi americane, enclavi extraterritoriali in Italia. Non le controlliamo, non abbiamo potere alcuno su di esse, ma se, Dio non voglia, in uno scenario di guerra quelle basi fossero colpite, le conseguenze, tragiche, sarebbero a carico della nostra popolazione.
Gli americani hanno confidenza con le bombe. Sul Giappone ne hanno lanciate due atomiche, Little Boy e Fat man. Carine, democratiche e giocherellone le bombe dai simpatici nomignoli, nickname Ragazzino e Grassone. Vien voglia di provarne gli effetti. Grida vendetta soprattutto la seconda, quella che ha distrutto Nagasaki, poiché si conoscevano le conseguenze che stava già sperimentando la povera Hiroshima. Se i ricordi storici non ci ingannano, una giustificazione di Truman è esattamente uguale al discorso di Donald Trump: abbiamo evitato perdite di vite umane americane. Non possiamo accusarli di razzismo, per la composizione multietnica degli States, ma almeno di xenofobia ossessiva e di sociopatia. Del resto, gli americani già negli anni 20 del XIX secolo- duecento anni fa – elaborarono l’ineccepibile dottrina Monroe: l’America agli americani. Il problema è che al colonialismo spagnolo, francese e britannico sostituirono il loro attraverso una lunga serie di guerre, che debordarono in Asia (la guerra contro la Spagna per le Filippine) e poi in Europa, a partire dell’intervento nella Prima Guerra Mondiale.
Tutelarono i loro interessi in funzione filo britannica e, già che c’erano, misero i loro piedoni nel nostro continente. Secondo molti, fu soprattutto la galassia Rothschild, noti banchieri “patrioti” che prestavano denaro a tutte le parti in causa, a convincerli a sbarcare dalle nostre parti. Non se ne sono ancora andati: segno che si trovano bene qui, in Medio Oriente e dovunque nel mondo. Lo fanno per noi. Ci portano la democrazia, la libertà, il Mercato, la finanza e intanto ci colonizzano attraverso il cinema, lo spettacolo, la lingua, la musica.
Agli amerikani destri di casa nostra un piccolo consiglio: andate a vedere da dove sono partite tutte le idee che non vi piacciono, femminismo esacerbato, multiculturalismo, mondialismo, politicamente corretto, cultura della droga, omosessualismo, erotizzazione della vita, abortismo, libertarismo sfrenato, materialismo pratico e tanto altro. No, non è l’Unione Sovietica e neppure il pianeta Plutone. Il male ha un’incubatrice, l’America e un vettore, il denaro della finanza, apolide ma con sede laggiù, le università private legate al sistema e l’immenso apparato di potere riservato che chiamano “deep State”, Stato profondo.
Intanto lanciano bombe, esportano democrazia. Una fulminate vignetta di questi giorni – bisogna conservare un minimo di buonumore nonostante tutto- mostra Trump davanti a un doganiere iraniano che gli pone la fatidica domanda rivolta a decine di milioni di immigrati negli Usa: che cosa sei venuto a fare? Trump, che custodisce un piccolo missile nella mano destra, risponde: esporto democrazia. Bene, cerchiamo di fare a meno del prodotto, tanto più che è tutto a nostro carico. Ne sanno qualcosa i cittadini dei paesi interessati dalla cosiddette “primavere arabe” organizzate da lorsignori, dai loro terminali informatici e riservati, dai loro uomini di paglia, svelati da Assange e Wikileaks. Morti, rivolte, nuova instabilità: il caos organizzato per dominare meglio.
E che dire delle guerre balcaniche degli anni 90, la nascita di paesi fantoccio in mano a mafie alle porte di casa nostra, l’Ucraina destabilizzata, spinta alla guerra con la secessione della sua parte orientale, utilizzando gruppi nazisti locali, derubricati da “male assoluto” ad affidabili alleati, o meglio utili idioti? Non amiamo il Venezuela e il suo presidente Maduro, ma ci piace ancor meno l’amicone Guaidò, e comunque la nazione di Bolìvar deve decidere da sola di se stessa. Di Caracas e dintorni, peraltro, si disinteresserebbero sovranamente, a nord del Rio Grande, se non ci fossero il petrolio e l’oro.
Di invasioni e colpi di Stato se ne intendono. Il più suggestivo fu contro il panamense Noriega, un criminale trafficante di tutto che, ohibò, avevano mandato al potere loro stessi anni prima. L’elenco potrebbe continuare a lungo, magari ricordando le minacce di morte di Kissinger a Moro, poi ucciso dalle Brigate Rosse (mah…) e la fine di Craxi che aveva osato ricordare al potente alleato che Sigonella è in Italia. Craxi aveva torto. Le basi americane sono sul nostro territorio, ma non sotto la nostra sovranità.
Qualcuno ricorderà la tragedia del Cermis, quando aerei militari Usa in volo d’addestramento abbatterono la funivia di Cavalese provocando una catastrofe. Quei top gun girano liberi, poiché non possiamo processarli in Italia. La costituzione, pallido foglio di carta brandito come una bandiera di cui non si ammette l’inservibilità, afferma che “nessuno può essere distolto dal giudice naturale precostituito per legge”. Perfetto, il giudice dei militari americani sta negli Usa anche se distruggono un’infrastruttura italiana e decine di vite in un’azione non di guerra.
Vogliamo continuare? Donald Trump minaccia l’Europa di ritorsioni commerciali se oserà tassare al 3, dicesi 3 per cento i giganti tecnologici con sede in Usa: Google, Amazon, Facebook, Apple. Strano che il gioco non gli riesca con la Cina, a cui ha dovuto cedere in parte. La tecnologia 5G è essenzialmente cinese, ma cinesi sono innanzitutto le “terre rare”, i minerali senza i quali non funzionano computer, telefoni cellulari e gli altri appartati di uso comune.
Ultima obiezione, dopo la quale tacciamo per non incavolarci troppo, è alla cosiddetta democrazia americana. Qualunque presidente venga eletto, per la scarsa partecipazione popolare alle elezioni – significherà pur qualcosa sulle convinzioni di tanti americani che non contano nulla- è frutto della volontà (manipolata) di un quarto degli elettori. Per concorrere occorrono miliardi di dollari. Quella è la loro democrazia, in cui si scontrano due partiti espressione di gruppi di potere, interessi, idee che sono d’accordo sull’essenziale. Alternanza senza alternativa: l’hanno esportata brillantemente in Europa.
Non piace sentirselo dire, ma cari europei e italiani, non sapete di essere un continente occupato? Che fareste, se foste ancora vivi come gli altri popoli, anziché spettri in gita nei centri commerciali, se vedeste soldati stranieri, carri armati stranieri nelle vostre strade? Da uomini, insorgereste: è quello che fanno in giro per il mondo, testardi zoticoni che non gradiscono l’importazione del “sogno” americano. Ricordate Moriconi Nando, il geniale personaggio di Alberto Sordi innamorato dell’America? Dopo aver assaggiato il loro cibo spazzatura, torna agli spaghetti, esclamando il mitico: “Rigatone, m’hai provocato, me te magno! “. Altri tempi. Adesso ragazzi italiani in bicicletta girano le città per consegnare spazzatura commestibile nel nome di multinazionali americane. Pochi spiccioli, la distruzione della civiltà materiale nostra, rischio a carico dei nostri giovani. Qualcuno è già morto, travolto dalle automobili nel traffico, magari per la fretta e la stanchezza.
Eccola l’american way of life, quello è il sogno americano illuminato dalla fiaccola della statua della libertà. Un amico, riflettendo sul mondo contemporaneo, in gran parte una costruzione americana, ci ha detto: non so se Dio esiste, ma Satana esiste certamente ed è al lavoro. Reagan chiamava l’URSS impero del male. Non aveva torto, ma sembra più una chiamata di correo che una rivendicazione del bene. Da parte sciita, chiamano l’America il Grande Satana. Neanche loro sono dei santi, ma hanno buona parte di ragione.
Lo ammettiamo: siamo di parte, ma non potremo avere rispetto dell’America – e di noi stessi- finché non avrà ripreso la strada di casa. L’America agli americani: perfetto. L’Iraq agli iracheni, l’Afghanistan agli afgani e così via. Chi nasceva nel 1945, quando i carri armati Sherman vincevano la guerra e gli aerei alleati bombardavano le nostre città (vi dice niente, cari “destri” filo americani, la scuola milanese di Gorla?) ha ormai 75 anni. E’ nella fase discendente nella vita, ma ha conosciuto un unico scenario: quello delle basi americane a due passi da casa, pagate con le tasse sue e delle generazioni precedenti. Se abita in Sicilia, ha il privilegio di ospitare il MUOS, il centro radar che controlla l’Africa e il Medio Oriente per conto di Washington e le cui radiazioni rovinano la salute di sgradevoli italianuzzi; se vive in Lombardia, Veneto e Friuli ha le bombe atomiche all’angolo. Che sarà mai un morto in più, oltretutto un generale pasdaran, per la coscienza a forma di dollaro degli old boys?
Popolo di sciuscià, smettila di lustrare scarpe e riprendi la tua dignità. Impara dai cavernicoli afgani, dai siriani, dai sudamericani, dai russi del Donbass. Al di là del caso Suleimani, esigi dal tuo parlamento che voti la stessa risoluzione di quello iracheno che ha chiesto la partenza degli eserciti stranieri. Davanti all’esercizio della loro democrazia, esportata con tanta grazia, gli americani non potranno che commuoversi e fare fagotto. O no?
Papa Francesco nel discorso agli ambasciatori tace sulla Cina e la Turchia: e sulle donne clamorosa gaffe
Città del Vaticano - Silenzio sulla repressione religiosa in Cina; silenzio sugli attacchi militari della Turchia in Siria, contro l'etnia curda e adesso silenzio sulla Libia, dove il presidente Erdogan si è alleato con il generale Serraj inviando in loco le prime truppe. Una specie di tabù. Nel lunghissimo discorso al corpo diplomatico di Papa Francesco - che tradizionalmente viene rivolto agli inizi dell'anno agli ambasciatori accreditati- emergono più i vuoti che non le menzioni specifiche. In questi giorni nel mondo diplomatico c'era molta attesa di capire fino a che punto il Papa volesse spingersi a definire la posizione della Santa Sede in ambito internazionale.
A proposito dei bombardamenti americani e iraniani, il Papa mette in guardia dal rischio che la situazione possa sfuggire di mano e invita a ricorrere alla legalità internazionale e a non indebolire l'Onu. «Particolarmente preoccupanti sono i segnali che giungono dall’intera regione, in seguito all’innalzarsi della tensione fra l’Iran e gli Stati Uniti e che rischiano anzitutto di mettere a dura prova il lento processo di ricostruzione dell’Iraq, nonché di creare le basi di un conflitto di più vasta scala che tutti vorremmo poter scongiurare. Rinnovo dunque il mio appello perché tutte le parti interessate evitino un innalzamento dello scontro e mantengano «accesa la fiamma del dialogo e dell’autocontrollo» nel pieno rispetto della legalità internazionale.
Stavolta però l'allocuzione pontificia si caratterizza per alcune sviste internazionali macroscopiche. Mentre elenca con dovizia di particolari i principali focolai di guerra e tutta l'attività umanitaria della Chiesa in diverse aree del mondo dove sono in corso sanguinosi conflitti, su altri fronti ha preferito sorvolare. A proposito dell'espansionismo militare della Turchia il Papa era stato zitto anche quando Ankara aveva dato il via alla brutta operazione contro i curdi. Solo in un Angelus, il 13 ottobre, aveva inserito un passaggio generico sul Medio Oriente, rammaricandosi che tante persone in quei giorni dovevano lasciare le proprie case, ma senza mai citare le parole: Turchia e curdi.
Nel discorso al Corpo diplomatico analizza con cura il 2019 anche alla luce dei suoi viaggi internazionali, parlando del bisogno di dialogare con le nuove generazioni, di arrivare ad un accordo sul clima, del dolore per la guerra nello Yemen o nella Repubblica Democratica del Congo, ed elencando i paesi in cui si sono verificati episodi orrendi di persecuzioni contro i cristiani (Burkina Faso, Mali, Niger e Nigeria).
Non manca l'appello di Papa Francesco per la crisi migratoria in corso: «Molti rischiano la vita in viaggi pericolosi per terra e soprattutto per mare. È con dolore che si continua a constatare come il Mare Mediterraneo rimanga un grande cimitero . È sempre più urgente, dunque, che tutti gli Stati si facciano carico della responsabilità
di trovare soluzioni durature».
di trovare soluzioni durature».
A proposito del rischio di un conflitto atomico, il Papa ricorda che quest'anno si svolgerà a New York la X Conferenza d’Esame del Trattato di non proliferazione delle armi nucleari. «Auspico vivamente che in quella occasione la Comunità internazionale riesca a trovare un consenso finale e proattivo sulle modalità di attuazione di questo strumento giuridico internazionale, che si rileva essere ancora più importante in un momento come quello attuale».
Infine un brutto scivolone sulla questione femminile. Al termine del discorso Papa Francesco ha citato la IV Conferenza mondiale delle Nazioni Unite sulla donna, svoltasi a Pechino nel 1995, con la speranza che possa terminare ogni forma di ingiustizia nei confronti delle donne. «Esercitare violenza contro una donna o sfruttarla non è un semplice reato, è un crimine che distrugge l’armonia» ha detto. Peccato che la Santa Sede sia l'unico paese in Europa a non aver voluto mai nè firmare nè ratificare la Convenzione del Consiglio d'Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica. Una specie di bibbia internazionale alla quale gli stati civili sono chiamati ad ispirarsi per un nuovo cammino basato sul rispetto tra i sessi e per contrastare la discriminazione femminile.
di Franca Giansoldati
DIGNITA’ E CORAGGIO DI ABDUL MAHDI
Il primo ministro iracheno – che, ricordiamolo, ha accusato pubblicamente Trump di aver attirato Suleimani in una trappola, facendo di lui, il primo ministro, complice del delitto.
Riportiamo ancora una volta: “Abdul-Mahdi ha rivelato che Soleimani era andato a Baghdad per recapitare un messaggio dall’Iran all’Arabia Saudita in merito a una proposta per ridurre le tensioni nella regione, che Soleimani avrebbe incontrato il Primo Ministro la mattina stessa in cui era stato assassinato e – più cruciale – che giorni prima Trump aveva chiesto al primo ministro iracheno di “prestarsi per il ruolo del mediatore” tra la USA e l’Iran”.
La cosa notevole è che, nonostante abbia il paese sotto occupazione americana, non ha alcuna intenzione di passare oltre quest’atto di gangsterismo statunitense: perché se Trump può venir meno alla sua parola data e gettarla nel fango, è la sua parola data che Abdul Mahdi sta tenendo alta dal fango. La parte della ragione e della civiltà sta dalla sua parte.
Nella sessione parlamentare in cui Abdul Mahdi ha accusato Trump, egli, palesemente indignato da mesi di comportamenti gangsteristici, ha raccontato altri episodi rivelatori.
Bisogna sapere che una delegazione di 50 persone da lui guidata è andata in visita in Cina l’autunno scorso. Ne torna con un importante accordo per grandi investimenti infrastrutturali – l’Irak ne ha i fondi, dovuti all’introito petrolifero – di cui, pare, l’America non ha mai concesso l’autorizzazione.
Il premier ha detto che Washington (forse personalmente Trump: sarebbe nel suo stile) per dare i permessi, esigeva la cessione del 50% degli introiti petroliferi iracheni. Concessione che lui ha rifiutato.
Ma al ritorno dalla Cina, “ Trump mi ha chiamato e mi ha chiesto di annullare l’accordo, così anch’io ho rifiutato, e mi ha minacciato con dimostrazioni di massa che mi avrebbero rovesciato”.
Ma al ritorno dalla Cina, “ Trump mi ha chiamato e mi ha chiesto di annullare l’accordo, così anch’io ho rifiutato, e mi ha minacciato con dimostrazioni di massa che mi avrebbero rovesciato”.
Effettivamente, si ricorderà, ci sono state grandi e gravissime manifestazioni contro il governo, andate avanti per settimane nel mese di ottobre. Manifestazioni per i caro vita e la disoccupazione…
Il metodo Piazza Maidan
Dopo, “Trump di nuovo mi ha chiamato e minacciato di far piazzare cecchini Marines negli edifici più alti, che avrebbero ucciso sia i manifestanti sia le forze di polizia….”.
Lo riconosciamo? E’ il metodo “Piazza Maidan” usato in Ucraina e replicato anche in Siria, per invelenire la frattura fra regime e manifestanti “pro democrazia”.
Abdul Mahdi non solo ha resistito. Il suo ministro della difesa ha fatto una dichiarazione pubblica, in cui ha detto che c’era “una terza parte” che stava prendendo di mira sa i manifestanti sia i poliziotti.
Terza telefonata di Trump: “Mi ha chiamato immediatamente, minacciando me e il ministro se continuavamo a parlare della terza parte”.
Il premier ha semplicemente offerto le sue dimissioni, non di cancellare il trattato con la Cina.
Poi è sbottato:
“Gli americani sono quelli che hanno distrutto il paese e provocato il caos su di esso. Sono quelli che si rifiutano di completare la costruzione del sistema elettrico e dei progetti infrastrutturali. Per consentire la ricostruzione dell’Iraq, chiedono in cambio di rinunciare al 50% delle importazioni di petrolio iracheno, così ho rifiutato e ho deciso di andare in Cina e ho concluso un accordo importante e strategico con esso, e oggi Trump sta cercando di annullare questo importante accordo. ”
Queste cose, il premier le ha dette a voce altissima, dopo che il responsabile del parlamento, Al-Halbousi, l’ ha bloccato (forse chiudendo i microfoni cercandogli di impedire cose troppo compromettenti) e poi sedendosi al suo fianco, in segno evidentemente di vicinanza.
Tutto è istruttivo e conferma quello che si è sempre saputo del popolo iracheno:
Come mi disse Edward Luttwak al tempo della prima Guerra del Golfo, “noi riportiamo l‘Irak all’età della pietra a suon di bombe, perché Saddam vuole usare gli introiti petroliferi per costruire centrali elettriche, infrastrutture, che renderebbero il paese una media potenza moderna, ciò che Israele non può sopportare”. Mi parlò anche della Guardia Repubblicana, il nerbo iracheno degli 8 anni di guerra contro l’Iran, e che Saddam “ha fretta di smobilitare”: sono i giovani diplomati tecnici e ingegneri, ha fretta di impiegare nella vita civile”.
L’infatti l’aviazione Usa dedicò una cura speciale – genocida – a incenerire questi poveri giovani nei loro carri armati
Ne parlò persino Repubblica:
Dopotutto, la “politica” americana verso l’Irak occupato non è cambiata: non autorizzare la ricostruzione della rete elettrice e le centrali, e le infrastrutture che ha distrutto accuratamente nella guerra contro Saddam, corrisponde allo stesso scopo: mantenere all’età della pietra fra le macerie e disoccupata una gioventù moderna, di un popolo con energie intellettuali e morali di cui ha dato prove anche il loro premier. Qualità in qualche modo poco “medio orientali”.
Di fronte a questa tempra, che dire della tempra di Donald? Pretenderebbe che il governo iracheno cedesse agli Usa il 50% del suo introito petrolifero (è sempre la stessa paura alla Luttwack, che abbia “troppi” mezzi per la sua modernizzazione ) ma unito ai metodi e allo stile del palazzinaro di New York, che prede per il collo gli inquilini “paga altrimenti ti mando i picchiatori”: fa parte di questo stile la richiesta di essere disposto a ritirare le truppe dal paese se l’Irak paga per le basi e installazioni che gli Usa hanno costruito nel paese. Ignorando che gli Stati Uniti hanno già accordi giuridici vincolanti con l’Iraq che stabiliscono che le basi e tutte le installazioni fisse che gli Stati Uniti hanno costruito lì sono di proprietà dell’Iraq. E’ proprio il palazzinaro di New York che prova in qualunque modo a recuperare le spese di un investimento sbagliato…
L’assassinio del generale, e il modo criminale in cui è avvenuto, sta palesemente indurendo la decisione di Irak e Iran di liberarsi in qualche modo dell’energumeno incivile che occupa la casa o il cortile di casa.
Scrive Escobar: “Nell’Asse of Resistance c’è consenso sul fatto che la Cina abbia un ruolo importante da svolgere, in particolare nel Levante, in cui Pechino è vista in alcuni quartieri come un possibile partner futuro che in ultima analisi sostituirà l’egemonia degli Stati Uniti”. Il “successo” americano costerà molto caro.
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https://www.maurizioblondet.it/dignita-e-coraggio-di-abdul-mahdi/
Iran vs Stati Uniti d’America: la posta in gioco
Lo strisciante conflitto tra Teheran e Washington ha conosciuto un salto di qualità il 3 gennaio, quando il generale Qasem Soleimani, capo delle forze d’élite iraniane e responsabile delle operazioni contro l’ISIS in Iraq e Siria, è stato eliminato con un attacco mirato all’aeroporto di Baghdad. A distanza di cinque giorni, Teheran ha vendicato la morte del carismatico generale col lancio di diversi missili balistici contro le basi statunitensi in Iraq, vero e proprio oggetto del contendere tra iraniani e angloamericani. L’obiettivo iraniano è espellere gli USA dall’Iraq ed inglobare la Mesopotamia nella propria sfera d’influenza; gli americani possono oggettivamente fermare l’Iran solo al costo di una guerra convenzionale, geopoliticamente però costosissima, data la natura geografica dell’Iran e la rete d’appoggio di cui gode Tehran, estesa non solo a Russia e Cina, ma anche alla Turchia.
Espellere gli USA dalla Mesopotamia
Più gli angloamericani entrano in crisi, più moltiplicano i gesti inconsulti: l’omicidio dell’ambasciatore russo Andrei Karlov ad Ankara, nel dicembre 2016, coincideva col progressivo sganciamento della Turchia dall’orbita occidentale ed il suo ingresso in quella russa/cinese. L’omicidio del generale iraniano Qasem Soleimani, il 3 gennaio 2020, è per certi versi simile: un assassinio politico eclatante, che nasconde l’impotenza degli angloamericani nell’arrestare le dinamiche in atto in Medio Oriente. Il teatro dell’escalation in atto tra Iran e Stati Uniti è altamente significativo: l’Iraq, un Paese a maggioranza sciita che, occupando il cuore della Mesopotamia, separa l’Heartland iraniano dal Mar Mediterraneo. È all’aeroporto internazionale di Baghdad, infatti, che il generale Soleimani è stato assassinato da un drone statunitense, su ordine del presidente Donald Trump stesso: si ritiene che il generale fosse impegnato in negoziati iraniani-sauditi per smorzare la tensione tra i due Paesi. E, sempre in Iraq, gli iraniani hanno compiuto a distanza di cinque giorni la loro rappresaglia, lanciando diversi missili balistici contro due basi americane. È chiaro che gli USA siano ormai a corto di strumenti per impedire lo scivolamento dell’Iraq nell’orbita del potente vicino e siano ricorsi all’assassinio di Qasem Soleimani, convinto di godere di una sorta di “immunità” grazie al suo prestigio internazionale, come extrema ratio per tentare di fermare gli iraniani.
Non si può comprendere l’assassinio di Soleimani senza, infatti, ricostruire le vicende irachene degli ultimi due anni. Alle elezioni parlamentari del maggio 2018, il blocco sciita, sebbene guidato da un’ambigua e opaca figura come Moqtada al-Sadr, capo di una sedicente fazione anti-americana, è emerso vincitore, in virtù della composizione demografica del Paese: sono seguiti tormenti tentativi di formare un esecutivo, alla cui testa è stato infine appuntato il premier sciita Adil Abdul-Mahdi, ex-comunista, simpatizzante per l’Iran. La dinamica di fondo tende dunque ineluttabilmente a spingere Baghdad, per quasi un trentennio tenuta sotto il pugno di ferro da Saddam Hussein, ben inserito negli ambienti CIA, verso il potente vicino. Sono seguite le proteste di piazza dell’ottobre 2019, formalmente innescate dalle misere condizioni economiche in cui versa il Paese, senza pace dal 2003, ma portate avanti da Moqtada al-Sadr e dagli ambienti ostili all’Iran: ne è seguita una crisi di governo e la caduta di Adil Abdul-Mahdi, che però è rimasto in carica, data la difficoltà a formare una nuova maggioranza parlamentare. Nell’Iraq sopravissuto all’ISIS, gli americani dispongono dunque solo delle proteste di piazza, dei torbidi politici e delle rappresaglie militari per evitare che l’Iran rafforzi inesorabilmente la sua influenza: il 29 dicembre 2019, Washington lancia un primo raid aereo contro le milizie sciite filo-iraniane, Kataeeb Hezbollah, innescando l’immediata protesta del governo iracheno di Abdul-Mahdi, che grida alla violazione della sovranità irachena. Segue l’assedio all’ambasciata americana a Baghdad del 31 dicembre, assedio che risveglia l’incubo degli ostaggi di Teheran del 1979 e, infine, l’assassinio del generale Qasem Soleimani, presentato dagli americani come il regista di tutte le operazioni contro gli americani in Iraq. L’eclatante gesto americano, la cui portata può essere compresa appieno solo considerando la fama e la stima di cui godeva Soleimani tra l’Iran e la Siria, ha alimentato la frustrazione del parlamento iracheno, fino a indurlo alle estreme conseguenze: approvare, il 5 gennaio, una risoluzione per porre fine alla presenza di soldati americani sul suolo iracheno.
Gli USA sono quindi ora dinnanzi al difficile dilemma sul da farsi, dilemma che è causa del recente caos ai vertici dell’amministrazione americana: accettare il verdetto del Parlamento iracheno e lasciare il Paese significherebbe cedere sostanzialmente il campo all’Iran ed essere espulsi da tutta la Mesopotamia, rifiutare la richiesta irachena e tentare di rimanere militarmente nel Paese, esacerbando magari al massimo le tensioni interetniche e interreligiose, si rivelerebbe nel medio periodo sempre più oneroso, dal punto di vista politico e militare. Sul tavolo c’è però sempre la terza opzione, sicuramente accarezzata dall’ala dura dentro l’establishment angloamericano: risolvere alla radice il problema, non tentando di arginare gli iraniani in Iraq, ma portando loro guerra direttamente in patria. Una guerra convenzionale con l’Iran, l’unico modo per rovesciare la Repubblica Islamica ed impedire alla nazione iraniana di proiettarsi sino al Mediterraneo: possibile?
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