CONSEGUENZE DELL'EPIDEMIA
Coronavirus e fedeli senza Messa, spunto per meditare sull’Eucaristia
La sospensione delle celebrazioni liturgiche “con concorso di popolo” interroga i fedeli sul come vivere questo periodo. Non è una situazione nuova nella storia della Chiesa. Oggi è scontato poter fare la comunione ogni giorno, ma non sempre è stato così, e non solo in tempo di persecuzioni. Anche i venerdì aliturgici della Quaresima ambrosiana hanno il significato di far prendere coscienza «della perdita del Dio vivo» (san Paolo VI). Questo tempo di privazione diventi allora l’occasione per combattere distrazioni e superficialità verso il Santissimo, meditando sul dono infinito dell’Eucaristia.
L’emergenza Coronavirus sta incidendo sulla vita quotidiana di molte persone e, a causa della sospensione delle celebrazioni liturgiche decretata in alcuni luoghi, l’impatto si estende anche alla vita spirituale. Sono in molti a chiedersi come vivere questo periodo. Alcuni si sentono privati dei sacramenti e si ribellano, protestando contro decisioni che paiono loro contrarie alla vera pietà.
Per inciso, vale la pena ricordare che la sospensione delle celebrazioni riguarda solo quelle “con concorso di popolo” ma che il Santo Sacrificio continua ad essere offerto dai sacerdoti, in forma privata. Inoltre, la situazione che viviamo non è affatto nuova. Abbiamo secoli di storia e di testimonianze offerte da santi che ci possono aiutare a trarre spunti utili per profittare anche di questo momento per noi singolare.
LA COMUNIONE QUOTIDIANA, DIRITTO DEL FEDELE?
Per noi, oggi, è scontato poter fare la comunione ogni giorno, eppure non è sempre stato così. Nei duemila anni di storia della Chiesa le norme circa la comunione dei fedeli hanno visto grandi diversità per il contrapporsi di due correnti di pensiero: da un lato quella che sottolineava l’importanza e la necessità del nutrimento spirituale, dall’altro quella che faceva prevalere la consapevolezza dell’abisso tra la finitezza dell’uomo e la trascendenza di Dio.
Nonostante il Concilio di Trento, nel 1549, auspicasse che i fedeli si comunicassero ad ogni Messa alla quale partecipavano, per molto tempo la prassi fu che i fedeli si potessero comunicare solo con la frequenza concessa dal confessore, frequenza decisa in base al grado di perfezione da questi riscontrato nel penitente. Era rarissimo che si concedesse la comunione quotidiana e addirittura pochi ottenevano il permesso per quella settimanale. La ragione sottesa a tale rigore era il timore che si sminuisse la riverenza verso il Santissimo Sacramento concedendolo con troppa facilità.
Di questo uso si trova traccia in molti scritti o biografie di santi. Molte sante religiose furono oggetto di invidia da parte delle consorelle perché il confessore concedeva loro la comunione frequente, o addirittura quotidiana. Santa Teresa di Gesù Bambino, vissuta alla fine del 1800, soffriva moltissimo per non poter ricevere la comunione ogni giorno; il cappellano del convento di Lisieux le concesse la comunione quotidiana solo durante un periodo di malattia.
LA COMUNIONE QUOTIDIANA: NECESSARIA ALLA SANTIFICAZIONE?
Tutti i Santi e Dottori della Chiesa concordano nel dire che la frequenza ai sacramenti è necessaria per raggiungere la perfezione, ma occorre distinguere quando l’astensione dai sacramenti avvenga per negligenza, per mancanza di fede o fervore oppure quando sia resa necessaria dalle circostanze, cioè in maniera indipendente dalla volontà del fedele. Abbiamo visto sopra che, per molti secoli, non è stato possibile ai fedeli comunicarsi ogni giorno, eppure possiamo contare decine e decine di uomini e donne che in quei secoli si sono fatti santi.
Ancora più significativo è il caso di popolazioni che hanno custodito la fede cristiana per decenni, in assenza di sacerdoti, sopportando terribili persecuzioni e arrivando perfino al martirio.
In zone remote del Tibet, raggiungibili solo a piedi, la fede cattolica si è conservata tra i laici che hanno continuato a pregare e tramandarsi le verità della fede per oltre cinquant’anni, da quando il Partito Comunista giunse al potere nel 1949 e cacciò o uccise i missionari stranieri. La loro fede in condizioni estreme è stata testimone di veri e propri miracoli: uno degli ultimi missionari, padre Zaccaria, “aveva depositato in ogni chiesa dei dintorni acqua benedetta di Lourdes diluita in acqua pura”, hanno raccontato gli abitanti del villaggio. “Se qualcuno si ammalava, gli si dava una goccia. Tre giorni dopo, si era ristabilito”.[1]
Anche in Giappone i “Kakure kirishitan” (cristiani nascosti), si tramandarono la fede per 250 anni, battezzandosi clandestinamente di padre in figlio, dopo che l’impero aveva espulso oppure ucciso tutti i missionari. I primi sacerdoti francesi che poterono ritornare nel secolo XIX in territorio giapponese rimasero stupiti di trovare migliaia di fedeli che avevano conservato la fede, in assenza di sacerdoti, per oltre due secoli.[2]
Ancor più eclatante il caso della Chiesa coreana, unico nella storia: furono i coreani stessi a prendere contatto con un gruppo di cattolici di Pechino per farsi istruire nella fede. Per quasi 60 anni questi laici diffusero il Vangelo in Corea fino all’arrivo dei missionari francesi nel 1836, tra pericoli e persecuzioni.[3]
Quindi, come vivere questo tempo?
I VENERDÌ DELLA QUARESIMA AMBROSIANA
Il Rito Ambrosiano,[4] ancora oggi in vigore nell’Arcidiocesi di Milano, prevede che tutti i venerdì di Quaresima, non solo il Venerdì Santo, siano aliturgici, cioè privi della Celebrazione Eucaristica. Nel giorno di venerdì non si celebra la Messa né si distribuisce la Comunione Eucaristica. I fedeli si ritrovano invece per celebrare la Via Crucis.
Gli studiosi non sono concordi sulle origini storiche di questa antichissima tradizione. Essa è coerente con il carattere fortemente penitenziale della Quaresima Ambrosiana rispetto a quella del Rito Romano.
Ecco la spiegazione che ne diede San Paolo VI, allora arcivescovo di Milano: “La proibizione di celebrare la santa Messa e di distribuire la santa Comunione nei venerdì di Quaresima fa parte dell’estrema accentuazione del carattere penitenziale della Quaresima: si arriva alla coscienza dolorosa della propria indegnità e all’esperienza, che sa di morte, della perdita del Dio vivo. La devozione di chi comprende il mistero del peccato e della croce deve arrivare a questa tremenda avvertenza, che rasenta il confine dello spavento e della disperazione”.
Anche noi in questo tempo possiamo cogliere l’occasione per meditare sull’infinito valore del dono dell’Eucarestia, alla luce della Passione di Cristo. Possiamo immaginarci cosa sarebbero le nostre vite “se” Gesù non ci avesse lasciato il Suo Corpo da adorare e col quale nutrirci.
Spesso, purtroppo, siamo troppo distratti o superficiali da dare per scontati i doni che abbiamo fino a quando essi non ci vengono tolti. La mancanza della S. Messa quotidiana e della possibilità di accostarci alla Comunione Sacramentale possono farci riflettere sulla grazia di cui disponiamo di essere cristiani, di vivere in un Paese nel quale vige la libertà religiosa, di avere a disposizione sacerdoti e chiese. Possiamo comprendere in minima parte la sofferenza dei milioni di cristiani che vivono in luoghi nei quali i cattolici sono pochissimi, o addirittura perseguitati. Da questa esperienza ci auguriamo di imparare a rendere maggiormente grazie a Dio per i suoi doni e ad essere più uniti in preghiera con e per i fratelli perseguitati.
(1. continua)
[1] “I cattolici nascosti del Tibet” di Marco Tosatti per La Stampa, 6 agosto 2015.
[2] "Giappone. A Nagasaki un museo racconterà le storie dei 'cristiani nascosti', che tramandarono la fede di padre in figlio", Tempi, 17 maggio 2014; “I cristiani nascosti del Giappone”, La Nuova Bussola, 22 marzo 2015.
[3] Omelia di Giovanni Paolo II in occasione della Concelebrazione per i martiri della Corea, Basilica Vaticana, domenica 14 ottobre 1984.
[4] Il rito è chiamato “ambrosiano” dal nome del vescovo Sant' Ambrogio ma alcuni elementi del rito sono addirittura a lui anteriori.
Giorgio Maria Faré*
* Sacerdote e Carmelitano Scalzo
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PARALLELI STORICI
Le epidemie e l’opera dei santi, quella fede da recuperare
Mentre il Coronavirus porta alla sospensione di molte Messe pubbliche, quali esempi ci vengono da uomini di Chiesa del passato? Da san Gregorio Magno alla peste milanese del 1576-77 (quando san Carlo moltiplicò processioni e Messe all’aperto), fino al colera che seminò morte nella Torino di san Giovanni Bosco: i santi hanno affrontato e placato le epidemie accrescendo le preghiere e confidando nell’aiuto di Dio.
Una delle misure fin qui prese per limitare la diffusione del Coronavirus è la sospensione, in diverse diocesi del Nord Italia, delle Messe “con concorso di popolo”. Se è vero, com’è vero, che questo fatto deve diventare l’occasione di combattere freddezze, distrazioni e accrescere la riverenza per il dono infinito del Santissimo Sacramento, è altrettanto vero che la facilità con cui sono state sospese le Messe pubbliche, a seguito delle ordinanze delle autorità civili, lascia storditi. Tanto più perché, al netto di alcune buone eccezioni, diversi comunicati vescovili hanno lasciato a desiderare anche sul piano del richiamo alla preghiera e alla necessità di affidarsi alla divina Provvidenza. Un problema di fede, dunque.
Poiché le epidemie non sono certo una novità nella storia, ci si può chiedere: quali esempi ci vengono da santi e uomini di Chiesa del passato? Ne ricordiamo alcuni.
Biennio 589-590. L’Italia era interessata da gravi disastri naturali nonché dalle violenze dei Longobardi, eventi che non pochi fedeli interpretavano come castighi divini per il dilagare dei peccati. A Roma il Tevere era esondato, causando danni ingenti, e si era diffusa una micidiale epidemia di peste che aveva avuto tra le sue vittime anche papa Pelagio II, morto il 7 febbraio 590. A succedergli sul soglio pontificio era stato chiamato colui che sarebbe passato alla storia come san Gregorio Magno, il quale cercò pure di resistere all’elezione, desiderando rimanere in monastero. Sta di fatto che il 29 agosto di quell’anno, prima ancora di iniziare il ministero petrino, il futuro Gregorio I tenne un’omelia in cui esortò i fedeli alla penitenza.
Sempre il santo, chiedendo l’aiuto di Dio, organizzò per tre giorni consecutivi solenni processioni verso la basilica di Santa Maria Maggiore. Ordinò la recita della «litania settiforme», così chiamata perché Gregorio fece dividere il popolo in sette cori (clero, monaci e abati, monache e badesse, bambini, uomini adulti, vedove, donne sposate). Ottanta persone, nel giro di un’ora, morirono durante la preghiera, ma Gregorio invitò i fedeli a continuare la loro supplica. Alla fine, mentre attraversava l’odierno Ponte Sant’Angelo, il santo vide l’Arcangelo Michele, in cima all’allora Mole Adriana, nell’atto di rimettere la spada nel fodero, segno dell’imminente fine della peste.
A san Michele Arcangelo è legato anche il ricordo della peste bubbonica del 1656 che nel solo Regno di Napoli causò, secondo le fonti, dai 240 mila ai 400 mila morti. Quando l’epidemia arrivò nella zona del Gargano, l’arcivescovo di Manfredonia, Giovanni Alfonso Puccinelli, iniziò a chiedere fervidamente l’intercessione dell’Arcangelo. Il quale gli apparve dicendo che chi avesse adoperato con devozione pietre del suo santuario sul Gargano sarebbe stato liberato dalla pestilenza. Puccinelli fece allora dividere in schegge alcune pietre del famoso santuario: vi scolpì una Croce e le iniziali di san Michele, raccomandando agli abitanti di esporre il segno presso le porte di case e palazzi. Il territorio di Manfredonia rimase immune dal morbo e l’evento, scrive la Treccani, «ebbe vasta eco anche a livello internazionale». A memoria dei fatti il vescovo fece erigere un obelisco in onore di san Michele, tuttora presente a Monte Sant’Angelo, con una scritta in latino: «Al Principe degli Arcangeli, vincitore della peste, patrono e tutelare, monumento di eterna gratitudine».
Impossibile non accennare poi alla cosiddetta «Peste di San Carlo», in cui la carità dell’arcivescovo di Milano raggiunse vette altissime. Era scoppiata nel 1576, quando il santo si trovava fuori Milano. Mentre la città veniva abbandonata dal governatore spagnolo e da altri maggiorenti, san Carlo si precipitò a rientrarvi, mettendo a disposizione tutti i suoi beni per gli ammalati e i bisognosi. Lui stesso andava nelle case e nel lazzaretto a portare conforto. Alla raccomandazione di osservare le necessarie norme igieniche, san Carlo univa la consapevolezza che solo Dio potesse liberare la città.
Così, chiamò sacerdoti dai paesi vicini, raccomandò di non far mancare al popolo il conforto dei sacramenti, promosse un gran numero di preghiere e Messe all’aperto. A tale scopo, il santo fece erigere in mezzo alle strade una ventina di croci - qualcuna ancora esistente (molte, comprese quelle volute poi dall’arcivescovo e cugino Federico Borromeo, vennero demolite per ordine dell’imperatore Giuseppe II) - presso le quali veniva celebrata l’Eucaristia. Gli abitanti, magari in quarantena, potevano parteciparvi anche affacciandosi dai balconi. Notissimo è infine l’episodio della processione che san Carlo guidò, a piedi nudi, portando una croce lignea in cui era stata posta la reliquia del Santo Chiodo, per impetrare la fine della peste. Che effettivamente regredì.
In questi giorni, nel tentativo di giustificare la già accennata facilità alla sospensione delle Messe pubbliche, è stata richiamata anche l’esperienza del venerabile Angelo Ramazzotti, vescovo di Pavia durante l’epidemia di colera del 1854. Eppure si tratta di una situazione piuttosto diversa dall’attuale, sia per la mortalità del colera a quei tempi sia per le misure adottate. Come già il suo predecessore in diocesi (Luigi Tosi), il venerabile vietò sì processioni e Rosari pubblici e, in determinate circostanze, di amministrare l’Eucaristia ai colerosi: ma quest’ultima misura fu presa principalmente - visti i frequenti conati di vomito legati alla malattia - per riverenza verso il Santissimo Sacramento. Inoltre, né Tosi né Ramazzotti sospesero le Messe pubbliche. Anzi. Il venerabile suggerì pure di moltiplicarle «onde non ci sia così il pericolo di un soverchio affollamento». Alla prudenza, insomma, si accompagnava la certezza che nulla c’è di più potente e salvifico della Santa Messa.
Quella stessa epidemia di colera colpì seriamente, nel 1854, anche Torino. Accanto alle precauzioni sanitarie, san Giovanni Bosco si preoccupò innanzitutto dell’anima dei fanciulli dell’oratorio e assicurò che se si fossero messi «in grazia di Dio», senza commettere «nessun peccato mortale», nessuno di loro avrebbe contratto il morbo. Inoltre, il santo chiese loro la disponibilità a offrirsi come volontari nell’assistenza ai malati. In 44 si fecero avanti. Tra essi il giovanissimo san Domenico Savio. Nessuno dei 44 fu contagiato.
È questa fede nella Provvidenza che andrebbe recuperata.
Ermes Dovico
https://lanuovabq.it/it/coronavirus-e-fedeli-senza-messa-spunto-per-meditare-sulleucaristia
Con il rispetto dovuto a un sacerdote, vorrei porre una domanda a Giorgio Maria Fare' titolare dell'articolo: tutto quel pò di spiegazione che ha fatto è per dire che i cattolici non hanno alcun diritto alla Comunione? Certo, diritto no, ma Bisogno, sì. E allora i sacerdoti facciano il loro "dovere" e non trovino scuse di tante parole che lasciano il tempo che trovano....
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