Lo stato di emergenza non finirà con il coronavirus
Il blitz della polizia nella chiesa di Cerveteri e la totale assenza di reazioni da parte di Chiesa e istituzioni è un segnale allarmante su quella che ormai è la cultura dello "stato di emergenza". In nome della lotta al coronavirus si tollerano veri e propri abusi di potere. Senza voler minimizzare la gravità della pandemia in atto, si deve però riconoscere che ci stiamo abituando a vivere in stato di emergenza: appena finirà l'epidemia in corso, ritorneremo all'emergenza climatica, dichiarata già dal nostro parlamento e da quello europeo. Un'altra paura su cui si governerà spingendo i paesi occidentali verso una nuova forma di totalitarismo.
C’è qualcosa di inquietante in tutta la vicenda del blitz di Cerveteri, che va ben oltre il fatto locale ed è un drammatico campanello d’allarme su quanto sta accadendo in Italia e non solo. Il fatto è noto: causa ordinanze in materia di coronavirus, domenica due poliziotti hanno interrotto una messa in una chiesa vuota, perché alcuni fedeli la stavano seguendo dall’esterno della chiesa (che aveva le porte aperte), peraltro pochi e a distanza di sicurezza. Il fatto in sé, come dicevamo ieri, è di una gravità inaudita, una violazione palese della legge e della Costituzione, tanto più che nessuno stava violando alcuna disposizione in materia di contenimento del coronavirus.
Ma c’è qualcosa di ancora peggiore: la totale indifferenza – della Chiesa locale anzitutto – davanti a questa invasione di campo da parte dello Stato italiano, come se fosse un gesto normale o giustificato dalla emergenza. Sui social, poi, non potevano mancare accuse e insulti al povero don Mimmo, che qualcuno vorrebbe addirittura in galera per aver celebrato la messa: evidentemente non è un caso che lo stop alle “messe con popolo”, nella mentalità comune è passato come un divieto di messa puro e semplice. Peraltro quello di Cerveteri non è neanche un caso isolato, giorni fa abbiamo già documentato forme di pressione indebita da parte delle autorità civili nei confronti di alcuni parroci, ma non si era ancora arrivati a tanto.
Il fatto è che ormai in nome della lotta al coronavirus si tollerano, o addirittura si invocano, veri e propri abusi di potere. E se davanti all’irruzione della polizia che entra in chiesa e blocca una messa non si alza alcun tipo di protesta, in primis dal vescovo competente, si prepara la strada alla sua normalizzazione. E domani qualsiasi altro motivo, che le autorità potranno definire grave, giustificherà analoghi blitz o divieti di messa e incontri di cattolici. Come accade in qualsiasi dittatura.
Ancora una volta il panico diffuso, lo stato di paura (tanto per citare il titolo di un illuminante libro di Michael Crichton) è l’ingrediente base per l’affermarsi di un autoritarismo o, peggio, di un sistema totalitario.
Non si vuole qui minimizzare la gravità della situazione sanitaria legata alla diffusione del coronavirus, anche se – come abbiamo già avuto modo di scrivere – ci sarebbe da ragionare, numeri alla mano, su quanto il problema sia la letalità del virus e quanto l’inadeguatezza del sistema sanitario.
Non si vogliono neanche mettere in discussione alcune misure restrittive che si sintetizzano nello slogan “restate a casa”. In caso di necessità si deve essere anche pronti a qualche sacrificio per il bene di tutti. Ma allo stesso tempo non tutto può essere giustificato in nome dell’emergenza, soprattutto quando certe restrizioni e cambiamenti hanno tutta l’aria di non essere temporanei. Del resto alzi la mano chi crede davvero che tutto possa tornare alla normalità il 4 aprile. Credo che oggi nessuno scommetterebbe neanche sull’uscita dall’emergenza alla fine di aprile.
E nel frattempo ci si abitua, ad esempio, a un presidente del Consiglio che vara provvedimenti con lo strumento del Decreto del presidente del Consiglio dei ministri (DPCM), quello usato per stabilire la chiusura di luoghi pubblici ed esercizi commerciali. Si tratta di uno strumento di infimo rango normativo, una forzatura dal punto di vista costituzionale eppure sta diventando un normale strumento di governo. In questo modo, passo dopo passo, si sono bloccati gli spostamenti delle persone, anche da comune a comune, si sono bloccate le scuole e le università, i concorsi, si sono chiusi tutti i luoghi pubblici e sospese tutte le manifestazioni, chiusi negozi e attività varie, non parliamo poi della questione della sospensione delle messe con popolo (su cui abbiamo già detto molto in altri articoli). C’è da dire che alcuni governatori vorrebbero misure maggiormente restrittive, chiudere qualsiasi attività lavorativa, in una gara a chi vuole proibire di più.
Il tutto bisogna aggiungere con una buona approvazione da parte dei cittadini, ormai presi letteralmente dal panico, al punto che molti si sono trasformati in delatori ai danni di vicini che escono di casa o si intrattengono a parlare con altri. Il tutto accompagnato da una crescente esaltazione sui media e tra gli opinionisti del “modello cinese”, che ha avuto il plauso anche dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, ovvero dell’uso indiscriminato della forza e di ogni arma tipica di una dittatura spietata (compresa la menzogna) per isolare città e regioni.
È un altro elemento questo che ci fa interpretare l’attuale periodo di emergenza non già come una parentesi temporale destinata ad essere superata a virus vinto, quanto a un passaggio in un processo che vede rafforzarsi la tendenza a superare la democrazia e restringere le libertà personali. Ne è un elemento fondamentale anche il ruolo della scienza, che assurge a ispiratrice e giudice ultimo delle scelte. Gli scienziati in realtà hanno idee diverse, ma ben presto viene tappata la bocca a coloro che non si allineano alla narrazione ufficiale.
È un film già visto, il problema è che ci stiamo abituando a vivere in stato di emergenza, una situazione in cui diventano accettabili misure e provvedimenti a cui un uomo libero non darebbe mai il suo consenso. Forse lo abbiamo dimenticato, ma appena si allenterà l’emergenza coronavirus, ritornerà prepotente l’emergenza climatica nella quale stiamo vivendo ormai da anni e in virtù della quale stiamo accettando la distruzione delle nostre società industrializzate.
Ricordiamo che appena prima dell’epidemia di coronavirus, nel dicembre 2019, la Camera dei deputati ha approvato la dichiarazione di emergenza climatica; l’Europarlamento lo aveva già fatto poche settimane prima, e in Italia lo hanno fatto anche sei regioni e un centinaio di comuni. Anche qui c’è sempre la scienza che dice cosa fare, e gli scienziati non allineati messi a tacere con le buone o con le cattive. E un flusso enorme di fondi viene distolto dai servizi essenziali per finanziare un fallimentare business verde, ovviamente a spese dei contribuenti che, in stato di emergenza, sono ormai disposti a subire di tutto.
Non si tratta neanche di un fenomeno recente. Già nel 1991 il Club di Roma – che tanto ha influenzato la politica dagli anni ’70 in poi diffondendo la paura della sovrappopolazione e dell’esaurimento delle risorse – pubblicò un rapporto sulla “Prima rivoluzione globale”, in cui si afferma: «La democrazia non è una panacea. (…) Per quanto possa suonare sacrilego, la democrazia non è più appropriata per gli obiettivi che abbiamo davanti. La complessità e la natura tecnica di molti dei problemi di oggi non sempre permettono a rappresentanti eletti di prendere decisioni corrette al momento giusto».
L’episodio di Cerveteri e tante altre cose che stanno avvenendo in questo periodo ci fanno capire che c’è già ormai la base culturale per una svolta illiberale delle nostre società.
Riccardo Cascioli
https://lanuovabq.it/it/lo-stato-di-emergenza-non-finira-con-il-coronavirus
COINCIDENZE
La purificazione al tempo del virus (e della Pachamama)
Ci stanno ripetendo in continuazione che dobbiamo cambiare vita e modificare la nostra quotidianità. Il rischio contagio sembra essere un valido motivo per mettere in discussione le nostre abitudini sociali. Se questo sia giusto o sbagliato lo diranno i numeri quando tutto questo sarà finito.
Però siamo più propensi a convertirci ai protocolli sanitari di questi giorni che a convertirci così come la Chiesa ci chiede quando calamità di questo tipo arrivano a sconvolgere la nostra esistenza. Anche perché difficilmente in questo periodo ci viene ricordato che anche in conseguenza di questa pandemia ci è chiesto di convertirci. Salvo rare eccezioni.
Lo scoglio è sempre il solito: il Covid -19 è un castigo di Dio o no? La materia è complessa, ma se da un lato non si può rispondere su due piedi, è pur vero che la Dottrina definisce i contorni di questo castigo, che altri non è che un renderci casti, cioè puri, come dice etimologicamente la parola dal greco kathairo. Uguale per il verbo correggere che altri non è che il latino corrigere, mettere sulla strada diritta. Diverso sarebbe per flagello, che è invece uno strumento di tortura. Dio invece non vuole il male, ma lo permette per convertirci a Lui. Lo permette perché il nostro sguardo ritorni a lui purificato. Questo è vero ed è incontestabile.
Va da sé allora che se dobbiamo tornare a lui, significa che da qualche parte dovremmo trovare lo spazio per riflettere quando questo sguardo si è distolto da lui. Ognuno dovrà fare questo nel suo esame di coscienza personale, ma è innegabile che anche la Chiesa oggi potrebbe intelligentemente fare lo stesso percorso interrogandosi non tanto sulla punizione divina, quanto piuttosto su che cosa significhi quanto ci viene oggi tolto in relazione a quello che è stato fatto.
Il sacerdote don Alfredo Morselli si è chiesto se non sia un caso che si sia data “la Comunione a tutti, in stato di peccato e agli evangelici in Germania, e oggi nessuno può fare la S. Comunione”. E’ una provocazione che andrebbe presa in considerazione e non liquidata come una boutade perché a pensarci bene, in questa emergenza ci sono tanti elementi che ci portano a quanto è accaduto in questi ultimi mesi nella vita della Chiesa.
Allo stesso modo, è curioso constatare come la Basilica di San Pietro non avrà i riti della Settimana santa (è stata la prima chiesa ad annunciarlo), ma stiamo parlando della stessa chiesa – centro del cattolicesimo – che non più tardi di tre mesi fa ha ospitato un culto idolatrico agli idoli amazzonici della Pachamama. Ora la stessa chiesa sarà chiusa per il momento centrale della vita cristiana, la Pasqua. Non abbiamo le competenze per delineare un rapporto di causa effetto tra le due cose - nessuno le avrebbe -, ma non si può fare altro che constatare questa coincidenza.
Visto che si parla di chiese chiuse, giova ricordare che oggi molte chiese – in Italia lo abbiamo raccontato tante volte – sono state utilizzate per gli usi più disparati, sempre in chiave profana. Sono diventate sedi di catering, mostre, abbiamo visto Cattedrali trasformate in pizzerie e sedi di comizi politici. E ancora: dormitori per richiedenti asilo e senzatetto e persino teatro di kermesse della rivendicazione omosessualista. Oggi le chiese sono state chiuse alla Messa pubblica dei fedeli e aperte solo a una condizione: la preghiera personale senza assembramenti dove non si possono mettere in campo profanazioni né kermesse aliene e degradanti la sacralità del luogo.
Si potrebbe proseguire a lungo: “È stata tradita e venduta al regime la Chiesa cinese, e dalla Cina è arrivato il virus”, fa notare Morselli. E possiamo aggiungere che è curioso che proprio ora che la natura è stata glorificata col Sinodo sull’Amazzonia “fino a diventare un luogo teologico, ora sta mostrando che - a causa del peccato originale - non è una tigre facilmente cavalcabile”. Se qualcuno ci tiene, ora che il virus sta inchiodando il mondo intero, provi a invocare la Pachamama e vediamo che succede.
E ancora: si è discusso a gran voce di dare ai preti la moglie, attraverso l’istituto dei cosiddetti viri probati. La proposta non si è eclissata definitivamente neanche dopo l’esortazione post sinodale del Papa Querida Amazonia dato che al Sinodo tedesco ancora tiene banco. Ebbene: è curioso notare come i preti siano privati della loro sposa: la parrocchia.
Don Morselli commenta con un eloquente "…perché capissero che con le cose con cui uno pecca, con quelle viene punito" (Sap 11,16).
Ma senza stare ad aprire infinite dissertazioni teologiche è evidente che il peccato porti con se una certa punizione, ma non si tratta di un karma meccanico. E nemmeno di una dantesca legge del contrappasso. Per il cristiano nella punizione c’è anche il mezzo di santificazione, la via d’uscita diciamo, che è la redenzione operata da Cristo crocifisso. Insomma: se stangata deve essere, se ne carica ancora una volta Lui sulle sue spalle. Non è vendetta, ma redenzione. Ci hanno fatto una testa così che bisogna cogliere i segni dei tempi. Cogliamoli subito, allora.
Andrea Zambrano
https://lanuovabq.it/it/la-purificazione-al-tempo-del-virus-e-della-pachamama
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