GLI UNTORI DEL CORPO E QUELLI DELL’ANIMA - UN PARALLELO TRA LA PANDEMIA PRESENTE E LA PESTE MORALE
Sana quod est saucium.
Vi sono concetti che sono più comprensibili quando sono espressi per mezzo di una similitudine. E ad una similitudine, anzi ad un parallelo, voglio ricorrere per proporre una breve riflessione.
Il virus viene considerato come un male, una malattia, ossia qualcosa che colpisce la vittima in modo più o meno grave, provocando danni fisici cui può anche seguire la morte.
Il contagiato del morbo è una persona in condizioni di maggiore o minore salute, che contrae la malattia esponendosi al virus in modo più o meno consapevole; essa è allo stesso tempo anche il vettore del contagio, perché quando ne è affetto - anche in forma asintomatica - può trasmetterlo ad altri. E quante più persone contagerà, tanto maggiore sarà la diffusione dell’epidemia, perché ciascuna a sua volta si troverà a contatto con famigliari, amici, conoscenti.
La cura può essere preventiva, come nel caso del vaccino, o di rimedio, quando il virus è stato contratto e il paziente viene sottoposto ad una terapia che combatta il virus e al tempo stesso rafforzi le difese immunitarie del malato. Il vaccino consiste nell’inoculare al paziente sano il virus in modo che il corpo sia in grado di sviluppare una difesa che, in caso di contagio, gli permetta di sconfiggere la malattia.
Le cronache delle epidemie del passato e gli stessi fatti cui assistiamo ci confermano che ai primi segni di contagio è sempre opportuno, anzi necessario e doveroso, isolare i contagiati, impedendo loro di diffondere il virus. Chi viene messo in quarantena è sottoposto ad un isolamento proporzionato alle modalità di contagio e alla gravità della malattia: a chi ha un’influenza viene consigliato di rimanere a casa alcuni giorni e di curarsi, perché anche laddove egli dovesse contagiare altre persone la gravità del virus influenzale comune è relativa; ma l’anziano dovrà esser più prudente perché il suo fisico risponde in modo più debole e rischia di rimanerne gravemente debilitato o anche di morire. Parimenti, chi vive con persone anziane o malate farà attenzione ad evitare di contagiarle, proprio per la debolezza del loro sistema immunitario. Chi invece è colpito da un virus pericoloso - come ad esempio il vaiolo o l’ebola - dev’essere ricoverato in ospedale, in zone cui può accedere solo il personale debitamente protetto. In certi casi tutti gli oggetti che il malato ha usato e toccato devono essere disinfettati o distrutti, e le persone che dovessero esser state a contatto con lui vengono sottoposte ad una verifica del loro stato di salute ed eventualmente curate.
La gravità del virus e la facilità del contagio, avendo una ripercussione sociale, sono oggetto di specifiche norme da parte dell’Autorità civile, che legifera per obbligare i malati alla quarantena - anche forzata - e punisce chi, per colpa o per dolo, diffonde l’epidemia. Lo Stato predispone inoltre cure preventive e vaccini volontari o obbligatori ai suoi cittadini, così come allestisce ospedali specializzati, finanzia lo studio delle malattie e la somministrazione dei farmaci.
Vediamo quindi che, come fenomeno sociale, è unanimemente riconosciuta tanto dalla comunità scientifica quanto dalle persone comuni la pericolosità del virus, la contagiosità del malato, la necessità del contenimento e della cura, la punizione di chi diffonde l’epidemia.
In questi giorni abbiamo assistito al riproporsi di fenomeni ricorrenti ogniqualvolta ci si sia trovati in presenza di un’epidemia: l’iniziale negazione della pericolosità del virus o addirittura della sua stessa esistenza; la tendenza a sottovalutare la necessità dell’isolamento dei malati e a voler mantenere gli stili di vita ordinari; la complessità da parte dell’Autorità di imporre misure drastiche per fronteggiare l’epidemia, date le ripercussioni immediate e a lungo termine sull’economia, la stabilità della Nazione, l’ordine pubblico. Ma quando il virus inizia a diffondersi, di norma la maggioranza della popolazione riconosce che è necessario correre ai ripari, e spesso si pente di non aver preso provvedimenti più tempestivi. Per questo motivo, la severità dell’intervento immediato viene giudicata necessaria e doverosa. E chi dissente, chi reclama un presunto diritto di uscire di casa in nome della libertà, è considerato un criminale.
Ora, se queste considerazioni sono accolte come indiscutibili da qualsiasi persona di buon senso, non altrettanto si può dire quando lo stesso discorso, le stesse argomentazioni sono applicate ad un virus che non colpisce il corpo, ma l’intelletto e l’anima. Quello che è evidente per un male fisico, non vale per il male spirituale. O meglio: non vale più, a partire dalla Rivoluzione francese e dal cosiddetto secolo dei Lumi. Fino ad allora, la censura dei libri, delle pubblicazioni e degli spettacoli era considerata un necessario presidio al diffondersi di idee contrarie alla Fede o alla Morale, o sediziose nei confronti dell’Autorità costituita, tanto civile quanto ecclesiastica. Impedire la diffusione di libelli eretici, di romanzi immorali, di composizioni blasfeme, di opere teatrali inneggianti alla ribellione, di scritti rivoluzionari era un compito grave dei Governanti, tanto quanto lo era impedire la propagazione della peste. Poiché di peste dell’anima si tratta, e la salvezza eterna è incomparabilmente più importante di quella del corpo. Il Sovrano si considerava moralmente responsabile dei propri sudditi, e non poteva consentire che uno di essi, corrotto nell’anima, potesse diffondere il morbo dell’eresia o il virus della ribellione. O anche solo l’errore e l’ignoranza, in qualsiasi ambito della vita sociale.
Tra le cosiddette conquiste del libero pensiero vi fu la libertà di stampa e di opinione, grazie alle quali ogni persona è ritenuta autorizzata non solo a coltivare privatamente le proprie idee a prescindere dalla loro pericolosità, ma anche a diffonderle ad altri. La Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, monumento ideologico massonico, ha cancellato l’aspetto soprannaturale del vivere civile, ha bandito Dio dallo Stato proclamando l’indipendenza dei singoli e delle società dal loro Creatore, e ha così consentito la diffusione della peste dell’anima, una peste di cui ancor oggi subiamo le nefastissime conseguenze.
Ma gli Stati moderni, pur così solleciti nel consentire l’arbitrio più sfrenato dei propri cittadini, hanno dovuto ricorrere alla censura, che pur deplorano, applicandola a quelle ideologie che di volta in volta riteneva contrarie ai propri interessi: le persecuzioni cruentissime degli scorsi due secoli contro la Chiesa Cattolica sono state perseguite anche impedendo la predicazione del Clero, obbligando i Vescovi a sottoporre all’approvazione dell’Autorità civile le Lettere Pastorali, vietando la pubblicazione delle Encicliche e dei Documenti papali, proibendo ai chierici di vestire l’abito ecclesiastico e interdicendo l’insegnamento cattolico e le scuole religiose. L’abbiamo visto in Francia, in Italia, in Ispagna, in Messico ed in tutte le occasioni in cui la Massoneria o il Comunismo sono riusciti ad impadronirsi del potere. Ed oggi la censura, pur dichiarata proibita, vige per Mein Kampf o per i Protocolli dei Savi di Sion, ma non per altre opere non meno ideologicamente pericolose. Senza ricordare che in molti Stati moderni la dottrina cattolica - ad esempio in materia di morale - è pubblicamente avversata ed ufficialmente condannata in nome di una libertà pervertita in licenza. A breve anche in Italia, nel silenzio della Gerarchia, entrerà in vigore una legge contro l’omotransfobia che considererà reato affermare che il matrimonio legittimo e naturale è solo tra un uomo e una donna, ed infliggerà pene severissime ai trasgressori, impedendo de facto la predicazione integrale delle Verità cattoliche. Vi sono Nazioni in cui alcuni passi della Sacra Scrittura sono considerati discriminatori nei confronti dei sodomiti, e per ciò stesso meritevoli di esser censurati. In Canada gli enti e le aziende che vogliono beneficiare di fondi pubblici devono sottoscrivere - e far sottoscrivere ai propri dipendenti - una dichiarazione in cui accettano la liceità dell’aborto e dell’omosessualità, vietando qualsiasi forma di obiezione di coscienza.
Anche la setta conciliare, pur con il ritardo che contraddistingue la sua cortigianeria nei confronti dell’ideologia dominante, si è assoggettata al pensiero rivoluzionario, ed ha iniziato proprio al Concilio, annunciando che la Chiesa avrebbe rinunciato alla condanna degli errori, e si sarebbe posta in un atteggiamento di dialogo con la società moderna. Paolo VI abolì l’Index Librorum Prohibitorum, che costituiva un importante freno alla curiosità dei semplici ed un riferimento per gli studiosi, poiché segnalava i libri considerati pericolosi e ne indicava i punti in contrasto con la Fede o la Morale. E lo fece proprio nel momento in cui maggiore era la diffusione degli errori modernisti, rendendosi complice di quanti fino a pochi decenni prima erano considerati nemici della Chiesa. I teologi progressisti, già condannati dal Sant’Uffizio per le loro tesi ereticali, furono accolti come consultori nelle Commissioni del Vaticano II sia da Giovanni XXIII sia dal suo tristo Successore. Veri e propri untori, hanno seminato l’errore tra il Clero e il popolo, e l’epidemia si è propagata ovunque: nella Curia Romana, negli Atenei Pontifici, nei Seminari, nei Conventi e giù giù fino alle parrocchie, alle associazioni cattoliche, contagiando praticamente l’intero corpo ecclesiale, i singoli fedeli, e coloro che nella cosa pubblica si sarebbero poi trovati ad assumere decisioni e a votare leggi nelle quali avrebbero dovuto mostrare la propria coerenza con la Fede professata.
Ma se lo Stato ribelle a Dio può in qualche modo esser coerente nel consentire la propagazione degli errori e dell’immoralità tra i suoi cittadini, è inaudito che altrettanto avvenga in seno alla Chiesa di Cristo, i cui Sacri Pastori - e il Sommo Pontefice in primis - hanno come loro sacro dovere non solo la diffusione della Verità, ma anche la condanna dell’errore, poiché “non opporsi all’errore equivale ad approvarlo; non difendere la Verità significa conculcarla; e invero non redarguire il malvagio quando si può farlo non è un peccato minore dell’incoraggiarlo” (San Felice III, Papa).
Si comprende la perfetta coerenza dell’insegnamento cattolico, che segue il parallelismo tra l’epidemia del corpo e quella dell’anima: non opporsi alla malattia equivale ad approvarla; non difendere la salute significa conculcarla; e invero non denunciare chi diffonde il contagio quando è possibile non è una colpa minore dell’incoraggiare la propagazione della pestilenza.
E sappiamo bene che, come non esiste il virus se non nel momento in cui esso è attivo in un corpo vivente che ha reso contagioso, così non esiste il peccato se non in chi lo commette. Ma se si nega la malattia, non occorre cura; e se si nega la colpa morale, l’errore dottrinale, non serve nemmeno la cura spirituale. Ecco allora cancellata la profilassi del Catechismo, il vaccino dell’istruzione religiosa, la medicina della penitenza e del sacrificio, la cura miracolosa della Confessione e dell’assiduità ai Sacramenti. Ecco spazzati via la predicazione, l’apostolato, le missioni, la formazione dottrinale e morale del Clero.
Se in presenza del Coronavirus è indispensabile evitare il contatto con chi ne è contagiato e chiedere al Cielo di risparmiarci, non è forse più indispensabile tenersi lontani dagli untori dell’anima e invocare la protezione di Dio? E se è considerato indegno un medico che neghi l’epidemia ed anzi la propaghi, cosa si dovrà pensare del medico dell’anima che tace dinanzi alla peste morale, si adopra per diffonderla tra quanti ricorrono a lui e che chiude non uno, ma tutti gli ospedali?
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