ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

lunedì 30 marzo 2020

La voce squillante del Concilio

A tu per tu con la morte. Come dare la notizia che il mondo non vuole sentire


(s.m.) Ricevo e pubblico. Il professor Leonardo Lugaresi è uno studioso del Nuovo Testamento e dei Padri della Chiesa molto apprezzato dai lettori di Settimo Cielo, che in coda a questa sua lettera trovano i link a tutti i suoi precedenti interventi.

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Caro Magister,
la lettera del prete francese che si fa beffe dell'angoscia “medievale” da lui attribuita al professor Pietro De Marco e le contrappone la lezioncina del suo cristianesimo “moderno” (“la religion n'est pas le lieu de transfert de ses angoisses”) coglie suo malgrado, e temo del tutto all'insaputa dell'autore, il cuore del problema.
Il mondo oggi è effettivamente in preda a un'angoscia di morte. La pandemia di Covid-19 che sta terrorizzando tutti non è la prima causa di morte in assoluto e probabilmente non lo sarà neanche in futuro, nonostante il suo paventato sviluppo. Sul nostro pianeta gli uomini muoiono di più per un insieme di mille altre ragioni, ogni anno a decine e decine di milioni. Il che non ci angoscia perché si tratta, per così dire, della morte degli altri. [...]
La morte da coronavirus, invece, è la nostra morte. Quella che in qualunque momento e a dispetto di ogni cautela potrebbe toccare a me e a te. Il virus invisibile e ubiquo fa accadere, come possibilità universale, la costante imminenza della mia morte. Cioè precisamente quello che la modernità ha programmaticamente preteso di escludere dal proprio orizzonte.
Ciò che è insopportabile, per noi moderni, è infatti la condizione di sostanziale inermità nella quale ci siamo scoperti da un giorno all’altro. Il ricorso, istintivo e generale, alla metafora della guerra per rappresentare la presente condizione dell'umanità tradisce anche l'inconscio nostro bisogno di avere in mano delle armi. Che probabilmente avremo, magari in un futuro prossimo, ma non ora.
Tale condizione, tuttavia, per quanto aborrita dalla modernità, appartiene essenzialmente alla vita umana nel suo rapporto con la morte, e questo va pur detto.
Il punto, oggi come ieri e come sempre, è che l'uomo di fronte alla morte è inerme, anzitutto perché non è in grado di pensarla, la morte. La massima attribuita a La Rochefoucauld: “Il y a deux choses qu'on ne peut regarder fixement, le soleil et la mort”, corrisponde a un'evidenza così elementare che chiunque in qualsiasi epoca avrebbe potuto pronunciarla. La morte è, in se stessa, impensabile. Si possono naturalmente pensare infinite cose intorno ad essa (dall'idea che non ci riguardi affatto perché quando c'è lei non ci siamo noi e viceversa, a quella che il nostro essere-nel-mondo sia da comprendersi come un essere-per-la-morte, eccetera eccetera) ma non si può pensare la morte. E in questo collasso del pensiero umano, il soggetto moderno viene meno. Per questo ha assoluta necessità di ammetterla nel suo orizzonte solo come morte degli altri.
La Chiesa ce l'ha una parola da dire sulla morte? Sì che ce l'ha, ed è l'unica a detenerla perché l'ha ricevuta da Cristo, che è l'unico in grado di pronunciarla perché è l'unico che sa che cos'è la morte, per averla subita e vinta.
Però questa parola unica è anche una parola dura, che il mondo moderno non vuole sentire. Paolo la formula così: “Nessuno di noi vive per se stesso e nessuno muore per se stesso, perché se noi viviamo, viviamo per il Signore, se noi moriamo, moriamo per il Signore. Sia che viviamo, sia che moriamo, siamo dunque del Signore” (Romani 14, 7-8).
Siamo del Signore: qui c'è tutto quello che è essenziale sapere per vivere e per morire, e il virus che ci fa tanta paura non smentisce affatto, anzi rende più stringente la verità letterale di questa affermazione, che è il perno di tutta la vita cristiana. Potremmo anche essere stremati dalla paura e non trovare alcun apparente conforto psicologico dalla fede, dalle pratiche di pietà, dalle parole e dai gesti della Chiesa, ma tutto ciò non scalfisce l’oggettività del fatto che “siamo del Signore”.
Forse, per rendere ancor più chiaro il senso di questa affermazione, potremmo tradurre “kyrios” con “padrone”: “siamo del Padrone”, cioè apparteniamo a un Altro, non siamo roba nostra. Nella misura in cui la nostra coscienza aderirà a questa realtà, anche la paura arretrerà, smetterà di essere determinante. Resterà, ma come istintiva reazione della carne che non vuole perire; resterà, per così dire, fuori dall’anima. Resterà la paura, non più l'angoscia.
In questo senso, credo di condividere la preoccupazione del professor De Marco per l'attuale carenza di una presenza pubblica “della Chiesa ‘mater et magistra’ che sia all'altezza della sua universale maternità e ammaestramento”. Ma ho anche l'impressione che in queste settimane, nonostante l'iniziale disfatta, quanto meno comunicativa, della Chiesa visibile, istituzionale, sia avvenuta per contrasto un'invisibile fioritura di doni della grazia nella misteriosa profondità di tanti cuori, che potrebbe sorprenderci se fossimo in grado di misurarla.
Questa è davvero la Grande Quaresima, e chissà quali “mirabilia Dei” vi si stanno compiendo, senza che noi ce ne avvediamo.
Ma c'è di più: l’inermità che è così intollerabile per l'uomo moderno costituisce, a ben vedere, la condizione normale del cristiano nel mondo e l’accettazione di tale condizione è la premessa per la testimonianza – cioè il martirio – che il cristiano rende al mondo. Per usare ancora le parole di Paolo: “Chi ci separerà dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada?” (Romani  8, 35). Il virus che ci spaventa tanto non fa altro che aggiungersi a questa lista, rendendola finalmente concreta per ciascuno di noi, stavolta nessuno escluso.
Nei giorni scorsi sono tornato su un libro che mi è molto caro e che, a distanza di mezzo secolo dalla sua pubblicazione, mi sembra più che mai attuale, “Cordula” di Hans Urs von Balthasar, da cui traggo queste frasi illuminanti:
“Subito dopo la carità viene la gioia, […] gioia nella inermità, un’inermità senza preoccupazione, nella quale diviene visibile una misteriosa superiorità. […] Non c’è nulla di negativo all’infuori del peccato, che però è portato nel cuore del Signore. Ogni sofferenza, anche la più oscura notte di croce, è sempre avvolta da una gioia, forse non sentita, ma affermata, conosciuta nella fede. […] La morte dà forma alla vita. Prima non lo si sapeva; ma dopo il buon ladrone lo si saprà fino alla fine del mondo. Il cristiano ha dunque l’inaudita possibilità di dare forma alla vita in base alla forma finale di essa? […] Ciò che importa è l’inermità, […] esposizione inerme della Chiesa al mondo”.
Per questo credo che sempre di più, nel mondo non cristiano di oggi, la forma della presenza della minoranza cristiana sarà di nuovo quella “martiriale” della sua esposizione inerme all'ostilità dei “nemici della croce di Cristo” (Filippesi 3, 18). E per questo aspetto temo di dissentire dal professor De Marco là dove sembra contrapporre “l’ideologia di una Chiesa come minoranza profetica” – che definisce non so perché “inevitabilmente utopizzante” – alla concezione di “una Chiesa ‘militans’”.
Probabilmente intendiamo due cose diverse col termine “minoranza profetica”. Io preferirei dire: minoranza critica, con riferimento alla “krisis”, cioè al giudizio cristiano che entra nelle cose del mondo, discerne il bene dal male e “trattiene ciò che vale”, insegnandone il giusto uso. Ma la sua affermazione che “una vera, biblica minoranza profetica è una realtà in dialettica col Popolo di Dio esteso all’ecumene” mi lascia perplesso per due aspetti.
Il primo si riferisce al fatto che sin dall'inizio (vedi il kerygma petrino di Atti 2, 14ss) la Chiesa si costituisce come compimento della promessa dell'effusione universale dello spirito profetico legata all'avvento del tempo messianico. Pietro afferma che la profezia di Gioele si compie nel giorno della Pentecoste e da quel momento tutti i cristiani sono chiamati ad essere profeti. Dunque non vedo come si possa istituire una dialettica tra una “ecclesiosfera cattolica” e una “minoranza profetica”. Se una minoranza profetica, o sedicente tale, si pensa come una “setta”, ipso facto si pone fuori della Chiesa, anche prima o senza che intervenga una condanna da parte dell'autorità. Che questo sia un rischio sempre incombente è purtroppo vero, e la triste parabola che tante nuove fondazioni e tanti nuovi carismi travolti dagli scandali hanno conosciuto o svelato in questi ultimi anni è lì a dimostrarcelo. Se De Marco intendeva additare questo pericolo, sono pienamente d'accordo. Ma resta il fatto che la Chiesa è, per definizione, tutta e sempre profetica.
L'altro aspetto su cui ho delle riserve è quella immagine di una “‘Catholica’ che è costituita potenzialmente dalla maggioranza degli uomini (in conformità alla ‘missio’), tenuti assieme nella comunione del Corpo mistico”, di cui parla De Marco. Immagine teologicamente sempre vera, intendiamoci, anche quando i cristiani erano 120 in tutto il mondo (tanti ne computa, con valenze biblico-simboliche ma probabilmente in un ordine di grandezza verosimile, Atti 1, 15) e anche quando tornassimo ad essere così pochi. Ma immagine storicamente e sociologicamente sempre meno plausibile nelle presenti circostanze.
Alle viste umane, i cristiani nel prossimo futuro saranno sempre di meno in un mondo sempre meno cristiano. Sapersi, e concepirsi come minoranza e “minoranza creativa”, secondo un'espressione felice usata anche da Benedetto XVI, è perciò a mio avviso essenziale perché possiamo fare, in un modo non velleitario, ciò che De Marco giustamente richiama alla fine del suo intervento: essere “corresponsabili della infinità degli uomini comuni, anzitutto dei battezzati”, e dire loro le parole che veramente ci vogliono, cioè “quelle della storia sacra, millenaria” e non quelle “dell’utopia, orgogliosamente fondate nel mito del futuro, nel non-ancora-esistente che solo dà senso, [che] si esauriscono presto e miseramente”.
Con cordialità e stima.
Leonardo Lugaresi
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I precedenti scritti – lettere e saggi – del professor Lugaresi in Settimo Cielo e in www.chiesa:
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POST SCRIPTUM – Provocato dalla punta polemica di Lugaresi nei suoi confronti, il “prete francese” Pierre Vignon ha prontamente inviato una replica, riprodotta in quest’altra pagina di Settimo Cielo:


UNA REPLICA AI PASDARAN (SEMIPROTESTANTI) DEL NOVUS ORDO.




Carissimi Stilumcuriali, siamo presi da vicende drammatiche, che ci fanno trascurare cose anche importanti. Per esempio qualche giorno fa la Congregazione per la Dottrina della Fede ha pubblicato due decreti che intervengono sul Messale tradizionale (quello del 1962, liberalizzato dal Motu Proprio Summorum Pontificum), inserendovi sette nuovi prefazi utilizzabili ad libitum, e disciplinando le modalità per celebrare i Santi canonizzati dopo il 1962 (per ulteriori informazioni, si può vedere qui). 


La cosa, in questi tempi di pandemia, è passata un po’ in secondo piano; ma ha ugualmente scatenato la solita reazione furibonda del prof. Andrea Grillo, un liturgista che ha addirittura promosso una specie di petizione per ottenere la revoca dei decreti. Andrea Grillo è un liturgista molto presente sui social, in particolare Facebook, dove ostenta spesso il suo livore nei confronti di Benedetto XVI e di qualunque cosa abbia anche un lontano odore di tradizione cattolica.. Al di là della caratura del personaggio,  si tratta comunque di una presa di posizione che merita qualche risposta.
Una prima risposta viene da Marco Sgroi.
“Dal mio punto di vista, mi pare che la lettera aperta del prof. Grillo, – unitamente ad ad un altro intervento sullo stesso tema, durissimo, pubblicato il 26 marzo sempre su Munera – dimostri almeno tre cose:
1) che Grillo stesso abbia la percezione, per lui estremamente irritante, della vitalità della liturgia tradizionale, la cui celebrazione è in costante espansione a partire dal 2007, tanto da non accettare che di tale vitalità si sia preso atto operando interventi “manutentivi” del Messale del ‘62. Se la liturgia antica fosse davvero cosa per «pochi reazionari con aderenze altolocate» (così il Grillo del 26 marzo; altri ci definiscono carinamente “pizzofili”) non se la filerebbe nessuno, non tanto nella Curia Romana, ma nelle diocesi e nelle parrocchie dove è sempre più frequentemente accolta;
2) che per Grillo – che è un esponente di una scuola di pensiero che si propone come autentica interprete dello spirito della riforma liturgica, sicché il suo parere è autorevole – il Messale del ‘69 e il Messale del ‘62 (rectius: la liturgia riformata e quella tradizionale) sono in aperta opposizione. Ne segue che per lui l’ermeneutica della rottura è l’ermeneutica “giusta”, secondo la quale vanno interpretate tutte le riforme derivanti dal CVII, e che la riforma liturgica è e deve essere la riforma della rottura. Constatare che essa si presta a questa lettura non può non far riflettere;
3) che per Grillo – soprattutto quello del 26 marzo – i cattolici del Summorum Pontificum, che sono comunque una porzione del Popolo di Dio…, sono un corpo estraneo nella Chiesa odierna («…un rito del 1962, che dal 1969 è “fuori uso”, se all’improvviso qualcuno vuole di nuovo utilizzarlo, si trova inevitabilmente ricacciato nel 1962… »), del quale non si può che attendere – e  auspicare – l’inevitabile progressiva estinzione. Infatti, dice Grillo, «il Messale del 1962 non si rianima, non può essere rianimato. E’ morto. Pensare di “rianimarlo” è il sofisma di Summorum Pontificum, che però è un documento piccolo piccolo, con una vocina esile esile, che  è contraria alla voce squillante del Concilio, della Riforma Liturgica e della esperienza del popolo di Dio di 50 anni, in 5 continenti diversi». Alla faccia, mi permetto di dire, di quanti accusano i “tradizionalisti” di essere divisivi! E di aggiungere che noi poveri zombi del Summorum Pontificum ci auguriamo di essere portatori se non della «esperienza del popolo di Dio di 50 anni, in 5 continenti diversi», di quella dei quasi 2000 (anni) precedenti – e, magari, anticipatori di quella dei 1000 futuri…”.

§§§

E inoltre è certamente interessante e puntuale quello che scrive don Mario Proietti:
Caro Dott. Tosatti,
in una lettera aperta pubblicata online su Munera del 27 marzo, il prof. Andrea Grillo finalmente si decide a dare testimonianza di ciò che è stata la riforma liturgica di Bugnini: un colpo di spugna alla cattolicità romana.
Infatti, a seguito della pubblicazione dei due decreti con cui si aggiorna il Messale Romano del 1962, il detto professore si fa promotore di una petizione nazional popolare tra i suoi simili al fine di far ritirare i due decreti. Tra le motivazioni spicca:
“Il massimo della distorsione delle intenzioni iniziali si nota oggi in quei seminari diocesani, dove si pretende di formare i futuri ministri contemporaneamente a due diversi riti: al rito conciliare e a quello che lo smentisce”.
Ma i due riti non erano in continuità?  Ora, se l’antico messale smentisce il nuovo, è segno che il nuovo innova e non rinnova la liturgia cattolica. Se innova e non rinnova, come la innova?
Il professore continua: “la Congregazione della Dottrina della Fede …. Sembra trascurare, pro-prio sul piano dogmatico, il grave conflitto che si crea tra lex orandi e lex credendi, poiché è inevitabile che una duplice forma rituale conflittuale induca una significativa divisione nella fede”.
Stando a Grillo, la riforma Bugnini ha operato una innovazione di tipo dottrinale. Visto che il vecchio e il nuovo ordo non hanno naturale continuità, cioè sono incompatibili,  il nuovo rito (lex orandi) produce una novità di fede (lex credendi).
Quale novità?
Quella di aver trasformato il cattolicesimo romano in un protestantesimo cattolico.
Questo svelamento della verità (finalmente) dovrebbe convincere i sacerdoti a usare la testa e verificare bene cosa sia rimasto di cattolico nell’arte del celebrare e porsi la legittima doman-da di Gesù: “Quando tornerò, troverò ancora la Fede sulla terra?”. A quale Fede si riferisce? A quella cristiana in generale o a quella Cattolica Romana? E se non si riferisce a quella cattolica romana, allora sei convinto che la Fede Cattolica Romana possa essere una tra le tante mani-festazioni della fede cristiana?
Le risposte sono importanti, perché se ci si salva per fede, essa non può essere generica.
Don Mario Proietti, C.PP.S.
Marco Tosatti
30 Marzo 2020 Pubblicato da  Lascia il tuo commento --

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