Il Cardinale Ciappi, il teologo di papi, da Pio XII a Giovanni Paolo II (all’inizio del suo pontificato): “Il Terzo Segreto dice che la grande apostasia nella Chiesa inizia dal suo vertice. La conferma ufficiale del segreto de La Salette (1846): “La Chiesa subirà una terribile crisi. Essa sarà eclissata. Roma (il Vaticano) perderà la fede e diventare la sede dell’Anticristo “.
ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...
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venerdì 3 aprile 2020
Custos quid de nocte?
E' MORTO MONS. ANTONIO LIVI
Un video consigliato di Marco Cosmo del Decimo Toro. Morto Monsignor Antonio Livi, custode della "Vera Dottrina" Cattolica. Era malato da tempo. Fino all'ultimo difese la Vera Dottrina Cattolica subendo le persecuzioni del falso papa Jorge Bergoglio
Mons. Antonio Livi è morto alle 13.30 del 2 aprile 2020. Lo stesso giorno della morte di Giovanni Paolo II, un papa che lui ha molto amato. Chi crede, del resto, sa che il “caso” non esiste.
Non fu un caso neanche per me la conoscenza che feci di lui. Cinque anni fa decisi di andare ad una sua conferenza.
Era stata da poco pubblicata l’Esortazione Apostolica “Amoris Laetitia” e Livi fu il primo a demolirla alla luce del Magistero perenne della Chiesa, con il rigore filosofico e teologico che ha sempre contraddistinto la sua opera.
Quella conferenza fu una “Lectio Magistralis”, come solo Livi sapeva fare, con quel suo incalzare di argomentazioni serrate e lucidissime, limpide e cristalline, inattacabili e coerenti rispetto agli insegnamenti di Gesù, alla Sacra Scrittura e alle più alte pagine dei Padri della Chiesa.
Alla fine della conferenza, lo andai a salutare. Non ci eravamo mai incontrati.
Da parte mia, per anni avevo letto tutti i suoi illuminanti interventi e scoprii che conosceva la mia storia. Mi chiese di fargli avere qualche mio libro, compreso quello che avevo scritto l’anno prima su Bergoglio per le Edizioni Radio Spada, che si intitolava “Ancilla hominis”.
Qualche settimana dopo, ricevetti una sua telefonata. “Ho bisogno di parlarti”, mi disse. Prendemmo appuntamento nella Facoltà di cui era decano di Filosofia, la Lateranense.
La sua idea era quella di affidarmi la scrittura di un libro per la sua casa editrice, la “Leonardo da Vinci”. Avrei dovuto occuparmi di Bergoglio e della sua Nuova Chiesa.
Trascorremmo un intero pomeriggio insieme. Di fronte a me avevo un vero Soldato di Cristo, addolorato di come gran parte della gerarchia e della teologia post-conciliare avevano ridotto la Sposa di Cristo, ma che esprimeva nel contempo la certezza granitica che solo nella Chiesa c’è salvezza.
Nacque così “Disorientamento pastorale – La fallacia umanistica al posto della Verità rivelata?”. Il lavoro fu durissimo e impegnativo: avrei dovuto consegnarlo a Mons. Livi! Lui ne fu entusiasta e il regalo più bello fu la sua Introduzione Teologica, che Vi proporrò alla fine di queste righe.
Molti furono coloro che si rifiutarono di scrivere le recensioni di quel libro, così come molti non ci invitarono a presentarlo. Altri, dopo averci invitati, cancellarono le presentazioni. Mi dispiacque molto per Livi, ma lui mi disse che era abituato a questo tipo di ostracismi nei suoi confronti. Potemmo presentare il libro solo a Perugia e a Firenze.
Negli anni successivi siamo rimasto sempre in contatto. Avevamo in progetto un altro libro, prima che si ammalasse.
Ho cercato di stargli vicino, con discrezione, nel lunghissimo periodo della sua sofferenza, sentendoci all’inizio telefonicamente e poi seguendo costantemente quello che stava soffrendo e offrendo per la salvezza di molti e per la Gloria di Dio.
Mi rammarico molto di non averlo potuto rivedere, ma so che da lassù custodirà e sarà accanto ai suoi amici ed io mi onoro di essere stato tra questi. Ti ho voluto bene, caro mons. Livi.
INTRODUZIONE TEOLOGICA DI MONS. ANTONIO LIVI A “DISORIENTAMENTO PASTORALE”
Che cosa succede con papa Francesco?
Molti discorsi e molte iniziative di papa Francesco sono visti dall’opinione pubblica come una radicale riforma, se non proprio una rivoluzione, della Chiesa cattolica, con l’apparente rifiuto del magistero precedente al Vaticano II, l’adozione sistematica del linguaggio proprio del progressismo teologico e la definitiva rinuncia all’annuncio del Vangelo in termini dogmatici (con la conseguente decisione di non pronunciare più alcun tipo di condanna, sia riguardo alle eresie che si possono diffondere all’interno della Chiesa, sia riguardo agli errori dottrinali delle comunità cristiane separate e delle false religioni). Ora, noi cattolici sappiamo che i discorsi occasionali o informali di un Papa non possono che avere di per sé un significato e un senso di autentico “magistero”, ossia di autorevole testimonianza resa alla verità rivelata, che la Chiesa ha il dovere di custodire e annunciare in ogni epoca e a ogni persona. Ma le parole di papa Bergoglio sono interpretate dai media di ispirazione anticattolica (cioè da quasi tutti i mediapurtroppo) come espressione della volontà di riformulare in modo radicale la dottrina cristiana. L’entusiasmo e l’apparente consenso che accompagnano e seguono i discorsi e i gesti di papa Francesco derivano proprio dall’immagine di “riformatore”, anzi di “rivoluzionario” che i media pretendono di imporre all’opinione pubblica. In questa epoca travagliata della storia della Chiesa, quando viene meno tra i cattolici la certezza della fede e la stessa conoscenza dell’autentica dottrina della Chiesa, questa immagine di un Papa di “rottura” sta provocando un sempre maggiore sconcerto tra quei fedeli, che, privi talvolta di altre fonti di informazione, inevitabilmente prendono per buone queste interpretazioni forzate e interessate e finiscono per credere (chi con rammarico, chi con soddisfazione) che davvero questo Papa stia mettendo da parte la tradizione dogmatica della Chiesa e stia dando ragione ai “teologi del dissenso” e ai “profeti” di una nuova Chiesa, non più gerarchica ma edificata “dal basso”. I fedeli vedono con grande sconcerto che, mentre quasi tutti i non cattolici (dagli ortodossi ai protestanti, dagli ebrei agli islamici, dai buddisti agli atei veri e propri) hanno sempre più unanimemente plaudito alle riforme di papa Bergoglio, che a loro avviso toglie alla Chiesa cattolica ogni presunzione di verità assoluta e di supremazia religiosa, molti osservatori cattolici (filosofi, teologi, vescovi, cardinali) hanno manifestato perplessità e allarme, proprio per quelle stesse intenzioni di riforma che agli altri sembrano preludere a un “nuovo ordine mondiale” e al tanto auspicato superamento dei conflitti religiosi. Questi critici della prassi pastorale di Francesco scorgono, nelle sue iniziative di “dialogo” con i non cattolici (dialogo ecumenico) e con i non cristiani (dialogo interreligioso), assieme alla “comprensione misericordiosa” nei confronti dei «peccati sociali» che contraddicono frontalmente la legge morale naturale (le leggi permissive e/o promotrici del divorzio, dell’aborto, dell’eutanasia, dell’omosessualità e delle tossicodipendenze), l’intento, più o meno esplicito, di rendere la Chiesa del tutto conforme alla cultura secolaristica e alla “religiosità” di stampo deistico (massonico), sempre più egemone in Occidente. Questi rilevamenti critici sono aumentati in misura allarmante in occasione dell’indizione dei due sinodi dei vescovi sulla famiglia e della pubblicazione dell’esortazione apostolica post-sinodale Amoris Laetitia, oggetto di severe critiche, prima da parte di alcuni laici e di ecclesiastici, tra i quali io stesso (1), preoccupati per i riflessi pastorali negativi del documento, e poi soprattutto da quattro autorevoli cardinali (Carlo Caffarra, Walter Brandmüller, Raymond Leo Burke e Joachim Meisner) che ne deprecavano la «voluta ambiguità» su temi delicatissimi riguardanti la dottrina dei Sacramenti (il Battesimo, il Matrimonio, la Penitenza, l’Eucaristia) e chiedevano rispettosamente al Papa dei chiarimenti in merito: chiarimenti che però papa Francesco non ha voluto fornire. Anche questa chiusura del Papa al dialogo con i cardinali (che sono istituzionalmente i suoi più stretti collaboratori nel governo della Chiesa universale) ha diviso visibilmente l’opinione pubblica cattolica: mentre, da una parte, non sono mancati il plauso e il sostegno al Papa da parte di quei cardinali che lo hanno sempre spinto in questa direzione (a cominciare da Walter Kasper, per finire con Christoph Schönborn), dall’altra parte si sono moltiplicati gli appelli al Papa perché ascolti finalmente il fraterno e filiale suggerimento di chi gli chiede di dissipare gli equivoci del documento e di evitare una prassi pastorale sconcertante per i cattolici, sia Pastori che semplici fedeli (si segnalano tra gli altri, per la profondità filosofico-teologica del discorso, gli appelli di due illustri pensatori laici cattolici, il tedesco Robert Spaemann e il polacco Stanislaw Grygiel). Ma la situazione non è poi affatto cambiata, e il risultato di tutto ciò è stato quello di un inevitabile “disorientamento pastorale”, termine che ho suggerito a Danilo Quinto come titolo del libro che ha scritto per la mia collana di saggi “Ermeneutica pastorale”. Il disorientamento di cui parlo consiste nella sensazione che l’episcopato mondiale e il Papa stesso siano ormai divisi sulle questioni più importanti riguardanti il dogma e la morale della Chiesa, e anche sull’autorità stessa del Papa. Di conseguenza, i fedeli non si sentono guidati in modo fermo e unanime, nella pratica della fede, dai loro Pastori (conferenze episcopali, singoli vescovi, parroci, cappellani). Il disorientamento di cui parlo, però, non è stato provocato tanto dalle discussioni tra i vescovi nel corso delle due sessioni del Sinodo, e nemmeno dalla Amoris Laetitia, quanto piuttosto dal modo con cui l’opinione pubblica cattolica è stata informata. Purtroppo, i media hanno presentato il dibattito sinodale come una battaglia (ideologica o di potere ecclesiastico) tra conservatori e progressisti, con la vittoria finale dei progressisti e il tentativo dei conservatori di frenare la “riforma”. Questo non corrisponde affatto a ciò che in realtà è avvenuto, perché si è trattato in realtà di quella dialettica delle opinioni e degli orientamenti pratici che inevitabilmente accompagna l’esercizio collegiale del governo della Chiesa. Ma lo scopo, il valore e i risultati dei lavori sinodali – ivi compresa l’esortazione post-sinodale scritta dal Papa – non sono stati apprezzati sufficientemente dai fedeli, frastornati dalle interpretazioni politiche che ne hanno dato i giornalisti, e purtroppo anche dalle interpretazioni faziose che spesso ne hanno dato i vescovi, sia progressisti che conservatori.
Che cosa fare di fronte al disorientamento pastorale?
Come credente, e soprattutto come sacerdote in cura d’anime, mi sono sentito impegnato in coscienza a intervenire in tutti i modi possibili – avvalendomi della mia specifica competenza scientifica, che è quella della logica epistemica e quindi della teologia fondamentale -, non per fare pressioni sul Papa (non è compito di nessuno nella Chiesa, tanto meno lo è per me) e nemmeno per partecipare alla discussione tra conservatori e progressisti, prendendo posizione a favore degli uni o degli altri, ma solo per contribuire a ri-orientare l’opinione pubblica cattolica. Tra i miei interventi più recenti in questa direzione segnalo la pubblicazione di due volumi collettanei: uno, intitolato Dogma e pastorale. L’ermeneutica del Magistero dal Vaticano II al Sinodo sulla famiglia (2), e l’altro intitolato Inscindibili. Giustizia, verità e misericordia: se mancano le prime due, l’ultima non è tale (3). In precedenza ero intervenuto con le presentazioni che ho scritto per libri pubblicati da altri studiosi di buon criterio dottrinale, a cominciare da Enrico Maria Radaelli (4).
Che significato e che valore hanno le cose che qui scrive Danilo Quinto.
Quello che si legge in questo libro di Danilo Quinto, come negli altri che ho prima citato, non pretende di essere una verità assoluta. Sono opinioni ben argomentate e certamente fondate sulla fede della Chiesa, ma di per sé restano mere opinioni personali, rispondenti a determinati punti di vista, e per questo sono proposte convintamente, ma senza la presunzione di poter esigere, da parte di tutti, quel consenso che, in materia di fede, può essere richiesto solo dagli enunciati che ripropongono, sine glossa, quanto è contenuto nella rivelazione cristiana e ha la garanzia ecclesiale delle definizioni dogmatiche. Dunque, le tesi di Danilo Quinto (e anche le mie, come dopo dirò) sono incontrovertibili solo quando si rifanno direttamente ai dogmi della dottrina cristiana (per deprecare giustamente che siano troppo spesso contraddetti o dimenticati); invece, in tutti gli altri casi esprimono soltanto delle valutazioni opinabili sull’opportunità di talune iniziative pastorali o anche sul comportamento di taluni personaggi del clero e del laicato cattolico che innegabilmente suscitano scandalo e seminano confusione in mezzo al Popolo di Dio. Si tratta, ripeto, di mere opinioni, ma di opinioni che io – anche quando non le condivido del tutto – ritengo assolutamente legittime, e per questo le presento qui in questo libro come negli altri che ho citato più sopra. Anzi, sono certo che queste opinioni, vista la dialettica dottrinale in corso, siano utili per contrastare le opinioni illegittime. Insisto a precisare (perché non è un discorso usuale ai nostri giorni, visto il clima di fanatismo settario che regna in ogni ambito della cultura) che hanno il valore di mere opinioni anche le tesi espresse con convinzione e passione: infatti, la “forma” di ogni giudizio è necessariamente la certezza, ma la “materia” può essere tale da non consentire un’affermazione apodittica (5). E qui la “materia” delle valutazioni fatte da Quinto è quasi sempre la pastorale, ossi la prassi messa in atto pubblicamente dagli esponenti della gerarchia ecclesiastica (a partire dal Papa stesso) nell’esercizio delle loro funzioni di magistero, di legislazione canonica, di disciplina del popolo di Dio (clero, religiosi e laicato). Ora, la prassi, per sua natura, non è il dogma, pertanto non è assistita dal carisma dell’infallibilità. È fatta di atti prudenziali, che possono essere o doverosi o liberi, efficaci o inutili, giovevoli o dannosi. Criticare un atto prudenziale è lecito a un fedele della Chiesa cattolica: a patto che costui sia consapevole di esprimere – lui, un semplice fedele - un giudizio di opportunità o di convenienza sui giudizi di opportunità o di convenienza espressi dall’autorità ecclesiastica, che sappiamo non godere in queste materie del carisma dell’infallibilità ma sappiamo anche di essere forniti dalla Provvidenza della adeguata “grazia di stato”. Come in precedenza presentai alcuni scritti di Enrico Maria Radaelli dove si denunciano gli equivoci della attuale prassi pastorale, guidata dalla rinuncia al magistero dogmatico, così adesso presento il saggio di Danilo Quinto che mette in luce, con abbondante documentazione, le premesse ideologiche (l’umanesimo ateo) che ispirano questa prassi pastorale. In entrambi i casi, anche se si citano atti e discorsi di papa Francesco e di alcuni vescovi e cardinali, queste non vogliono essere critiche irrispettose e di resistenza al governo pastorale della Chiesa ma criteri di valutazione che possono servire ai fedeli cattolici per ri-orientarsi in questi momenti di confusione, sapendo discernere, alla luce dell’autentico magistero dogmatico e morale della Chiesa, quella che è indubbiamente la verità da credere – in quanto rivelata da Cristo stesso – e quelle che invece sono le scelte di carattere pastorale operate negli ultimi tempi dai Pastori della Chiesa Cattolica, scelte che sono di per sé opinabili, ossia non garantite dal carisma divino dell’infallibilità, e non impegnano perciò i fedeli a un consenso che implichi l’abbandono (teorico o pratico) del dogma.
Che cosa penso io
Una volta chiarito perché ho accolto nella collana “Ermeneutica teologica” le critiche che in questo volume Danilo Quinto rivolge a taluni aspetti dell’azione pastorale di papa Francesco, passo a esporre qual è il mio personale punto di vista sull’attuale momento della vita pastorale della Chiesa. Trattandosi di un punto di vista teologico, ed essendo la teologia l’elaborazione razionale di ipotesi di interpretazione del dogma – è questa la tesi che convintamente sostengo nel mio trattato su Vera e falsa teologia (6) - riconosco volentieri che anch’esso rientra nel novero delle opinioni, motivo per cui nemmeno intendo certamente assumere toni dogmatici. È quello, peraltro, che già ebbi modo di chiarire in un altro mio lavoro su questo medesimo argomento (7). Ma in un altro mio trattato (8), ho spiegato esaurientemente la norma di logica epistemica che prima ho enunciato sinteticamente, ossia che l’esternazione di un parere personale può essere fatto con asserzioni chiare e decise (questa è necessariamente la “forma” interiore della certezza che motiva un qualsiasi giudizio), pur nella piena consapevolezza che la “materia” di ciò che si asserisce è relativa, parziale, non definitiva, e dunque aperta a completamenti o anche a rettifiche. Ciò vale innanzitutto per il rilevamento della situazione di fatto che ispira il titolo di questo volume: Disorientamento pastorale. A me sembra assolutamente evidente, in un’ottica di sociologia religiosa e di esperienza pastorale, sulla base di dati largamente condivisi negli ambienti nei quali opero, che il Popolo di Dio sia attualmente disorientato da tante diverse e contrastanti interpretazioni dell’azione pastorale dell’attuale pontefice, a cominciare dagli ambigui pronunciamenti nei riguardi degli omosessuali e dall’apparente consenso nei confronti di esponenti della politica anticristiana (comunisti e massoni), per finire con la convocazione e la direzione dei due sinodi dei vescovi sulla famiglia e la successiva esortazione apostolica Amoris laetitia, volutamente aperta ad applicazioni pastorali in contrasto l’una con l’altra, sia dal punto di vista dei criteri dottrinali che dal punto di vista della prassi consigliata dai vescovi nelle diversi diocesi o da intere conferenze episcopali. Il fatto che molti, nella Chiesa (oltre naturalmente agli interessati applausi di chi alla Chiesa non crede e la Chiesa da sempre combatte) siano contenti, anzi addirittura entusiasti dell’azione “riformistica” di papa Francesco non è un motivo per negare che il Popolo di Dio sia attualmente molto disorientato: anzi, il prevalente o pressoché egemonico consenso dell’opinione pubblica alle azioni e ai discorsi di papa Francesco fa risaltare ancora di più la sostanziale discontinuità degli indirizzi pastorali del papa attualmente regnante rispetto a quelli dei suoi predecessori (da Paolo VI a Giovanni Paolo II e a Benedetto XVI), oggetto di aspre contestazioni da parte di Pastori e di teologi e oggetto anche di continue campagne denigratorie da parte dei mass media mondiali. I fedeli cattolici, indipendentemente dal fatto di approvare o di disapprovare certe iniziative di papa Francesco, avvertono tutti, certamente, il disaccordo, anzi la profonda divisione pastorale tra gli stessi Pastori. Gli elementi di fatto per un giudizio circa lo stato di disorientamento della coscienza cattolica ci sono tutti: ma sono dati di fatto rilevati – in modo parziale e contingente – da osservatori sempre molto limitati nelle possibilità di effettuare seri sondaggi di opinione e degli accurati calcoli statistici. Si tratta insomma dell’incertezza, della relatività e della soggettività connaturate alla sociologia della cultura e alla sociologia religiosa, che sono saperi la cui affidabilità scientifica è, nel migliore dei casi, assolutamente scarsa, e nel peggiore dei casi è addirittura nulla. Ben consapevole di questo limite cognitivo, io parlo dell’attuale problema del “disorientamento pastorale” – delle sue apparenti cause e dei suoi possibili rimedi – con la convinzione di dire cose certamente vere e di fare valutazioni certamente giuste, proponendole, per gli opportuni interventi, a tutti coloro che nella Chiesa sono e si sentono responsabili: ma senza la presunzione di dire le sole cose vere e di fare le sole valutazioni giuste, perché altri punti di vista e altri criteri di valutazione sono altrettanto legittimi. Lungi da me ogni atteggiamento assolutistico, che è tipico della polemica ideologica, che in ambito ecclesiale isterilisce il dibattito tra le persone che hanno a cuore le sorti dell’evangelizzazione, rinchiudendole negli schemi dialettici del progressismo e della conservazione.
Ben altro è il discorso riguardante il contesto storico-dottrinale. Qui non si tratta più di incerti rilevamenti mutuati dalla sociologia ma di certissimi dati derivanti dalla teologia fondamentale. Si tratta del grande mutamento del paradigma pastorale per cui già il concilio ecumenico Vaticano II, dopo il celebre discorso inaugurale di papa Giovanni XXIII (9), ha deciso di privilegiare il linguaggio parenetico su quello dogmatico, il tono conciliante su quello polemico, il ricorso alle categorie filosofiche dell’esistenzialismo e dello storicismo piuttosto che a quelle della metafisica. Il risultato è stato che in alcuni documenti del Concilio (non in tutti, e nemmeno nella maggior parte di essi) il nuovo linguaggio del Magistero è risultato oggettivamente ambiguo, provocando quella ridda di opposte interpretazioni che tanto ha diviso la Chiesa cattolica negli ultimi cinquant’anni. Alcuni esponenti dell’episcopato, sotto la pressione della pubblicistica prodotta in quegli anni dalla maggior parte dei teologi (a cominciare a quelli che al Concilio avevano partecipato come “periti”), sostennero l’interpretazione “progressistica” (irenistica, storicistica, antimetafisica) dei testi conciliari, soprattutto per quanto riguarda, da una parte, la libertà religiosa, l’ecumenismo e il dialogo interreligioso, e dall’altra la collegialità e la sinodalità nel governo della Chiesa universale. Altri esponenti dell’episcopato, anch’essi ispirati da una minoranza di teologi anti-modernisti (convinti di dover resistere all’abbandono delle direttive dottrinali di san Pio X e di Pio XII), interpretarono in blocco i documenti conciliari come espressione di tendenze neo-modernistiche e finirono per non riconoscerne l’autorità propriamente magisteriale. Si tratta di quella opposta “ermeneutica del Concilio” che papa Benedetto XVI denominò «ermeneutica della rottura» in opposizione all’«ermeneutica della riforma nella continuità dell’unico soggetto-Chiesa», chiedendo a tutti (inutilmente) di adottare questa e di respingere quella. La Chiesa post-conciliare soffre ancora di questa divisione nell’interpretazione del messaggio fondamentale del Concilio, e invano i papi che si sono succeduti sul soglio pontificio dopo la chiusura della grande assemblea nell’anno 1965 (da Paolo VI a Giovanni Paolo II, e poi da questi a Benedetto XVI) hanno tentato di sanare la frattura con insegnamenti e provvedimenti autorevoli (ricordiamo in particolare, di Paolo VI, l’enciclica Humane vitae; di Giovanni Paolo II la promulgazione del nuovo Codice di diritto canonico e del Catechismo della Chiesa Cattolica, nonché le encicliche Veritatis splendor e Fides et ratio), senza peraltro riprendere la prassi magisteriale interrotta con il Vaticano II, ossia la rinuncia a ogni formale condanna degli errori dottrinali (le eresie) e a quei severi provvedimenti disciplinari che avrebbero potuto evitare che questi divenissero praticamente l’insegnamento ufficiale della dottrina cattolica nei seminari e nelle università pontificie. Dopo la rinuncia all’«esercizio attivo» del pontificato da parte di Benedetto XVI e l’elezione di papa Francesco, la deriva anti-dogmatica del magistero ecclesiastico ha assunto proporzioni tali da giustificare ampiamente, purtroppo, la diagnosi di “disorientamento pastorale” che molti lamentano e che anch’io riconosco, non tanto – come dicevo prima – su basi sociologiche quanto su basi teologico-fondamentali. Perché, dopo la definitiva rinuncia del magistero ecclesiastico alla sua naturale funzione dogmatica (con la connessa condanna degli errori che si oppongono alla verità della fede) e dopo la pratica legittimazione dell’«ermeneutica della rottura» da parte di papa Francesco con il suo programma di riforme “pastorali” (che contraddicono sostanzialmente i dogmi del concilio di Trento e gli insegnamenti irreformabili del magistero ordinario anche recente, come quello di Giovanni Paolo II), ciò che obiettivamente è in crisi è l’autorevolezza stessa del magistero ecclesiastico. In effetti, se ai motivi di fedeautentica (il papa deve essere creduto e obbedito, non perché sia il leader di una comunità religiosa ma perché è assistito dal carisma dell’infallibilità per essere il testimone e l’annunciatore della verità rivelata, secondo la tradizione apostolica) si sostituiscono motivi di simpatia umana o di condivisione ideologica, l’unità nella fede del popolo di Dio non si ricostituisce ma è anzi sempre più deteriorata. Così come non si ricostituisce ma è anzi sempre più deteriorata l’«oboedientia fidei», ossia l’adesione convinta ed effettiva dei fedeli alle norme morali proposte dal Magistero attraverso i documenti tuttora in vigore. Nel corso dei dibattiti all’interno dei due Sinodi dei vescovi sulla famiglia, molti padri sinodali (appartenenti soprattutto all’episcopato centro-europeo) hanno chiesto insistentemente la definitiva rinuncia a rigide norme morali e canoniche sulla sessualità al di fuori e all’interno del matrimonio, e a questo scopo si sono serviti di loro rilevamenti socio-pastorali in base ai quali risulterebbe la crescente disobbedienza di massa dei cattolici, anche praticanti, alle norme morali contenute nell’Humanae vitae e in generale alla morale cattolica in materia di sessualità. Ebbene, la voluta ambiguità con cui papa Francesco ha fatto riferimento a tali norme nella Amoris laetitia , dando a intendere di accogliere implicitamente la proposta dei padri sinodali vescovi “lassisti” e di respingere esplicitamente quella dei padri sinodali “rigoristi” (tacciati di «legalismo», o peggio di «fariseismo») non sortirà certamente l’effetto di una maggiore «oboedientia fidei» in mezzo al Popolo di Dio: quelli che non hanno mai obbedito si sentiranno in coscienza ancora più giustificati; quelli che invece finora hanno obbedito si sentiranno, psicologicamente, come strumentalizzati da una Chiesa oppressiva, e troveranno adesso tra i vescovi e i confessori molti più incoraggiati a “liberarsi” dalle leggi. Antonio Livi
NOTE DELLA PREFAZIONE
(1) Cfr Antonio Livi, La gioia dell’amore va inquadrata in un ordine, oppure è anarchica come vuole il trascendentalismo post-kantiano?, Sacra Fraternitas Aurigarum, Roma 2016.
(2) Cfr Dogma e pastorale. L’ermeneutica del Magistero dal Vaticano II al sinodo sulla famiglia, a cura di Antonio Livi, Casa Editrice Leonardo da Vinci, Roma 2016.
(3) Cfr Inscindibili. Giustizia, verità e misericordia: se mancano le prime due, l’ultima non è tale, a cura di Giuseppe Possedoni, Casa Editrice Leonardo da Vinci, Roma 2016.
(4) Cfr Antonio Livi, Introduzione, in Enrico Maria Radaelli, Il mistero della Sinagoga bendata, Effedieffe Edizioni, Milano 2002, pp. I-IX; Idem, Introduzione, in Enrico Maria Radaelli, Romano Amerio. Della verità e dell’amore, Marco Editore, Lungro di Cosenza 2005, pp. VII-XXVIII; Idem, Prefazione, in Enrico Maria Radaelli, La bellezza che ci salva, Aurea Domus, Milano 2011; Idem, Introduzione, in Enrico Maria Radaelli, La Chiesa ribaltata. Indagine estetica sulla teologia, sulla forma e sul linguaggio del magistero di Papa Francesco, Gondolin Edizioni, Verona 2014, pp. I-XX.
(5) Cfr Antonio Livi, Le leggi del pensiero. Come la verità viene al soggetto, Editrice Leonardo da Vinci, Roma 2016.
(6) Cfr Antonio Livi, Vera e falsa teologia. Come distinguere l’autentica “scienza della fede” da un’equivoca “filosofia religiosa”, Casa Editrice Leonardo da Vinci, Roma 2012.
(7) Cfr Antonio Livi, La verità rivelata, tra interpretazione del Magistero e interpretazione dei teologi, in Dogma e pastorale, Casa Editrice Leonardo da Vinci, Roma 2016, pp. 27-40.
(8) Cfr Antonio Livi, Le leggi del pensiero, cit..
(9) Cfr Giovanni XXIII, allocuzione in occasione della solenne inaugurazione del concilio ecumenico Vaticano II, Gaudet Mater Ecclesia, 11 ottobre 1962.
Cari amici di Duc in altum, è morto ieri, dopo molti mesi di malattia, monsignor Antonio Livi, il grande teologo cattolico. Era nato a Prato il 25 agosto 1938 e il Signore lo ha chiamato a sé nel giorno del quindicesimo anniversario della morte di san Giovanni Paolo II, il cui insegnamento fu studiato e apprezzato da don Antonio con tanta passione.
Conobbi don Antonio alla fine degli anni Settanta del secolo scorso, quando, giovanissimo, lavoravo alle edizioni Ares di Milano e don Antonio, che ne era un collaboratore, passava di tanto in tanto a salutarci. Ricordo la sua arguzia da toscano, la cura per l’esattezza dei termini, la difesa della metafisica, l’avversione per un certo pensiero di matrice rahneriana che già allora imperversava in campo teologico. Io ero solo un “ragazzo di bottega”, se così si può dire, e don Antonio certamente non si impegnava con me in discussioni di argomento filosofico e teologico. Però ricordo il suo stile, il gusto per la battuta mordace. E ricordo che, quando passava per una visita, non mancava di benedire i locali della redazione.
L’eterno riposo dona a lui, o Signore, e splenda a lui la luce perpetua. Riposi in pace. Amen.
Incontrai per la prima volta monsignor Antonio Livi durante un convegno a Foligno sul tema La metafisica della mistica. La prima impressione è stata quella di ascoltare non solo un professore di filosofia e di teologia, ma un uomo e un sacerdote innamorato della sapienza. Parlava sempre del gusto della sapienza.
Questa prima impressione è stata poi confermata nel corso degli anni: da quel momento, infatti, ho avuto modo di conoscere sempre più Antonio Livi e ho avuto la fortuna – e ringrazio Dio per questo – di essere stato uno dei suoi collaboratori (con l’editore Leonardo da Vinci, ma non solo).
Ho trovato – come dicevo – una persona con cui parlare e parlare di qualsiasi argomento: ricordo, con piacere, non solo le nostre chiacchierate filosofiche, ma anche le nostre dispute calcistiche (era un tifoso appassionato della Fiorentina).
La sua produzione filosofica e teologica è vastissima. Qui vorrei ricordare solo due argomenti, a mio giudizio, fondamentali.
Ha sviluppato, raccogliendo la ricca eredità del passato, la nozione di senso comune – inteso come insieme organico di certezze che nessuna “conoscenza seconda” può escludere – e lo ha posto alla base del suo sistema di logica aletica;
Ha riflettuto sempre sul tema del rapporto cristianesimo-filosofia, approfondendo le intuizioni del suo maestro Étienne Gilson (ma anche di altri filosofi come Jacques Maritain), mostrando la non-contraddittorietà della nozione di “filosofia cristiana” e, di conseguenza, la razionalità della fede cristiana.
Ho tantissimi ricordi di Antonio Livi, e custodirò i numerosissimi insegnamenti.
Ora, vorrei concludere condividendo una delle sue ultime riflessioni, un pensiero scritto e inviatomi poco dopo aver scoperto la terribile malattia che lo ha costretto a letto e contro cui ha lottato poco più di un anno. Mi sembra questo il modo migliore per ricordare il gusto della sapienza, quel gusto di cui sempre parlava.
Scriveva: «Molta della sofferenza che ci infliggiamo è legata al fatto che non vogliamo vivere il momento presente. Preferiamo tormentarci nel passato oppure avere timore per il futuro, ma sfuggiamo in questo modo l’unico momento vero che ci è dato vivere, legato al nostro oggi, al qui ed ora. Recentemente ho vissuto un momento delicato legato a delle ragioni di salute. La grande ansia che ho provato mi ha fatto riflettere su un qualcosa che ha valenza metafisica: molta della sofferenza che ci infliggiamo è legata al fatto che non vogliamo vivere il momento presente. Ieri non esiste più, è passato e non torna; domani, chi lo può prevedere veramente? Certo dobbiamo fare tesoro del passato ed essere previdenti per il futuro, per quello che è possibile: ma angosciarci per essi? Il libro del Qoelet ci mette in una giusta prospettiva: “Per ogni cosa c’è il suo momento, il suo tempo per ogni faccenda sotto il cielo”».
Antonio Livi, Ludovico Antonio Muratori, Stefano Fontana e il “senso comune”
La mente umana è capace di giungere a certezza. Questa verità, perla del pensiero umano da Platone alla Scolastica, è stata eliminata dalla filosofia e, spesso, dalla teologia moderna. Al suo posto si è intronizzato lo scetticismo, la pseudo-filosofia del dubbio, il pensiero debole. L’Osservatorio Internazionale Cardinale Van Thuân sulla Dottrina Sociale della Chiesa è per il recupero del pensiero forte – che è l’unico approccio sensato alla Rivelazione – il quale parte da San Tommaso, passa per Muratori e approda ad Antonio Livi. Articolo di Silvio Brachetta pubblicatosul sito dell’Osservatorio.
di Silvio Brachetta
Ludovico Antonio Muratori [1] è autore di uno degli scritti più appassionati in difesa della capacità umana di conoscere con «certezza»: Trattato delle forze dell’intendimento umano, o sia Il Pirronismo confutato [2]. Più che un lavoro generico, si tratta della critica mirata a un testo di mons. Pierre-Daniel Huet, dal titolo Trattato filosofico della debolezza dello spirito humano [3]. Muratori dimostra estesamente l’inconsistenza del pensiero di Huet, di Montaigne e dei pirronisti (o scettici) di tutti i tempi. C’è un’«evidenza» – scrive Muratori – che è il «criterio della Verità» [4]. Non è vero che non è possibile conoscere con certezza e non è vero che resta il dubbio su ogni questione. Al contrario, questa evidenza del vero «risulta dalla Chiarezza della Cosa e dell’Idea» e «per tale è ravvisata dall’intelletto nostro dopo la dovuta attenzione […]» [5].
C’è un’infinità di cose e di proposizioni su cui tutti concordano – spiega Muratori – del tutto evidenti e, per questo, certe: il cinque è maggiore di tre, il tutto è maggiore della parte, il cavallo è diverso dalla capra, quell’uomo è giovane o vecchio, esiste il movimento, ecc… Al netto, dunque, del peccato d’origine e dei limiti umani, la «Ragione per lo più non s’inganna, né inganna» [6]. È piuttosto la posizione scettica «il più assurdo ed insolente dogma, che mai possa immaginarsi» [7]. Da ciò – osserva Muratori – procedono tutti i sofismi, i mali e i disordini del mondo.
Il «senso comune»
Muratori non dà un giudizio isolato, ma incarna la migliore tradizione della filosofia. Il perseguire il ‘vero’ e il ‘certo’, anzi, sono il senso e il significato dell’esistenza di una filosofia. Tutta la teologia medievale, che attinse ampiamente alla metafisica classica, fu impregnata dall’ananke stenai [8] di Aristotele che, seppure espresso a proposito delle cause e degli effetti, è figura generale dell’intelletto, il quale ha la necessità di pervenire a conclusione ferma. Da qui la sentenza di San Tommaso d’Aquino: «Infinitum non est pertransire» – [quanto alle cause] «non è possibile attraversare l’infinito» [9]. Che esista una verità oggettiva lo insegnava lo stesso Sant’Agostino: «Se noi due vediamo che è vero quello che dici tu, ed entrambi vediamo che è vero quello che dico io, dove, io mi domando, dove lo vediamo? Certo né io lo vedo in te, né tu in me: ma entrambi lo vediamo in quella stessa incommutabile verità, che è al di sopra delle nostre menti» [10].
Antonio Livi utilizza il concetto moderno di «senso comune» [11] per esprimere qualcosa di simile alla certezza condivisa di Muratori. Il senso comune, in generale, si oppone allo scetticismo, al razionalismo e all’idealismo, perché presuppone che la conoscenza poggi su principi fondativi. Livi, in particolare, precisa d’intendere il senso comune pressappoco come l’intesero Lorenzo Valla e Giambattista Vico e, cioè, come «l’insieme delle certezze primarie universali dalle quali procede ogni conoscenza umana, sia ordinaria che scientifica» [12]. Il tutto – specifica – «s’inquadra nella logica aletica, che è quella che studia le regole in base alle quali un discorso può essere ritenuto vero […]» e la quale consiste in un «ristretto numero di giudizi che sono di fatto condivisi da tutti come veri […]» [13]. C’è però da verificare – scrive Livi – che effettivamente il senso comune sia tale e non sia negato «come verità»: in tal caso «il senso comune non può più avere coerenza logica» nell’ambito della logica aletica [14]. Questa funzione di controllo è appannaggio della «logica epistemica», il «cui oggetto sono le scienze o la scienza in generale, intendendo sempre per “scienza” la ricerca di qualcosa di razionale che viene dopo il senso comune».
In altre parole, a parere di Livi, non si ha scienza in mancanza di un certo «sostrato incomunicabile di ogni comunità di pensiero» [15], che sta a fondamento e precede ogni ricerca speculativa: altrimenti verrebbe meno il principio di coerenza logica suddetto. E, dunque, la logica epistemica «esamina la filosofia e conclude con lo stabilire», in essa, «il principio di coerenza», secondo il quale «non può avere consistenza scientifica (valore epistemico) un sistema “autoreferenziale”» [16]. Tale sistema è «chiuso», ovvero «costituito con l’esplicito intento di non accettare come vere le certezze del senso comune, rifiutandole quindi come la base epistemica del discorso» [17].
Fede e metafisica
Stefano Fontana, nel suo saggio [18], rileva come la Dottrina sociale della Chiesa, in quanto compresa nella teologia morale, non possa prescindere dalla «logica epistemica della teologia cattolica», che «dal punto di vista filosofico, si avvale della logica epistemica della filosofia naturale». Questa è la «“recta ratio”, intesa come “filosofia cristiana”, ossia come un “filosofare nella fede”». Se c’è infatti qualcosa di cui la teologia morale – e la Dottrina sociale in particolare – può fare a meno è il “pensiero debole” contemporaneo. Non può fare invece a meno di un “pensiero forte”, che è sempre scaturito dalla metafisica. Per questo Fontana cita Del Noce: «La fede suppone inclusa in essa una metafisica, e non si esce dalla fede nel renderla esplicita» [19]. Senza un fondamento metafisico o uscendo dalla fede – scrive Fontana – la ragione «si trasforma in positivismo, ossia nella rinuncia non solo alla ragione teologica ma ad ogni ragione». E allo stesso modo, quando la teologia vuole rompere il suo vincolo naturale con «la logica epistemica della filosofia naturale, cessa di essere un autentico sapere e si trasforma in letteratura».
La Dottrina sociale della Chiesa, dunque, non può tenersi sopra un «pluralismo della verità», che scaturisce da un «pluralismo filosofico e teologico». La stessa enciclica Rerum novarum di Leone XIII non nasce dal nulla, spiega l’autore: il pontefice aveva già all’attivo diversi pronunciamenti, tra i quali l’enciclica Aeterni Patris, che «faceva da fondamento del quadro secondo una chiara epistemologia fondata sul realismo metafisico». Per questo motivo la Dottrina sociale della Chiesa non ha nulla a che fare (o non dovrebbe avere nulla a che fare) con un elenco di proposte sociologiche. Leone XIII non intese scrivere un manuale di sociologia, ma volle fondare la Dottrina sociale «su un quadro di pensiero espressione della recta ratio».
Le «variazioni» magisteriali
È soprattutto il XX secolo che vede mortificata la metafisica della teologia, specialmente con le suggestioni del modernismo, della Nouvelle theologie, e di un certo personalismo, compromesso dalla «svolta antropologica». S’inverte – spiega Fontana – il «rapporto tra essenza ed esistenza». Svanita così l’affezione per la verità, una e ferma, è svilita l’essenza, appunto, intesa come la verità delle cose. Lasciato cadere, poi, l’entusiasmo per la verità, si preferisce affrontare il reale (Dio e il cosmo) attraverso l’«interpretazione» di esso, che si concretizza in un interminabile discutere, senza mai approdare a conclusione. In questo senso, Fontana preferisce parlare di uno slittamento dal «paradigma metafisico», della grande tradizione filosofica e teologica, al «paradigma ermeneutico» della mentalità esistenzialista. Persino il Magistero della Chiesa – sostiene Fontana – ha subito le conseguenze di questo cambio di paradigma, per cui in esso sono sorte alcune evidenti «variazioni».
È variato, ad esempio, il concetto di «bene comune», sempre a proposito di Dottrina sociale. Non che si neghi esplicitamente che la promozione del bene comune va primariamente riferita al fine teleologico, cioè a Dio, ma l’espressione equivoca di alcuni pronunciamenti non rendono esplicita tale verità. Leggendo la definizione di bene comune [20] della Gaudium et spes, non è chiaro se la perfezione da raggiungere da parte dei corpi sociali sia di tipo «naturale» o «soprannaturale». Di tenore diverso e più chiaro sono, invece, i pronunciamenti di Leone XIII – nota Fontana – dove il principio di autorità è riferito a Dio, secondo l’ordine ontologico stabilito: il bene comune è qui descritto in «senso metafisico e verticale», di modo che la politica non si dimentichi di tutelare la religione e l’ordine naturale del creato. Stesso problema si ha nella Caritas in veritate di Benedetto XVI, dove manca un riferimento chiaro al «carattere» metafisico e religioso del senso comune, seppure in alcuni passi dell’enciclica appaia sottinteso [21].
Confusione dottrinale
L’autore esamina altri due principi della Dottrina sociale che fanno problema, se trattati con il «paradigma ermeneutico»: la sussidiarietà e la libertà religiosa. La sussidiarietà, in primo luogo, «ha un aspetto ontologico ed uno operativo», di cui il primo aspetto è prioritario sul secondo. È, difatti, la dottrina che informa l’azione, non viceversa. La prassi odierna, anche in ambito ecclesiastico, è però squilibrata sull’azione, ai danni della dottrina (che si regge sulla “recta ratio”). Così come nel caso del bene comune – precisa Fontana – il principio della sussidiarietà risponde a verità solo se poggia su di un «ordine finalistico», nel senso di avere ben chiaro che i fini soprannaturali precedono quelli naturali.
Secondo il pensiero di Marcel de Corte «la società è anteriore e superiore agli individui che la compongono e il bene comune che ne unisce i membri è per essi qualcosa di divino e di trascendente. Non vi è società senza il legame della trascendenza e senza religione» [22]. Le variazioni del Magistero attorno alla sussidiarietà si riscontrano nei documenti dell’ultimo mezzo secolo, dove il principio viene spesso ridotto a una denuncia formale dell’assistenzialismo statale o, comunque, ad una richiesta di «diritti», senza specificare che il diritto va rivendicato «per esercitare un dovere in vista di un fine».
Evidenti sono pure le variazioni sul tema della libertà religiosa. Non è stato ribadito a sufficienza – scrive Fontana – l’esistenza del principio secondo cui «l’autorità viene da Dio e, quindi, del dovere che l’autorità politica ha nei confronti della religione vera». Quando si parla di libertà religiosa, quindi, ci si limita a riproporre il noto orizzonte orizzontale della questione: è quasi sempre rimosso il discorso sull’autorità e sul dovere politico di promuovere la verità (la creazione ha senso solo in relazione al Creatore). La religione vera (il cattolicesimo) ha un’«esigenza» di cui il mondo politico dovrebbe tenere conto. In questo caso, sono soprattutto i documenti del Concilio Vaticano II a generare il malinteso, per l’uso eccessivo di un linguaggio volutamente oscuro. Tutto questo ha dato ampia apertura, diretta o indiretta ai principi del laicismo e dell’indifferentismo religioso.
Fontana ammette che una certa «confusione» dottrinale è oramai dilagante e sembra avere il culmine nel pontificato di papa Francesco. L’insegnamento magisteriale è oggettivamente «diventato lacunoso e impreciso»: si era sempre espresso con chiarezza, ma ora viene «detto al massimo per allusione indiretta quando addirittura non più detto».
***
Note
[1] 1672-1750, presbitero italiano, scrittore e storico.
[2] Giambattista Pasquali Editore, 1745.
[3] Esce in lingua italiana nel 1724. Muratori, però, non pensa sia stato scritto da mons. Huet, che stima.
[4] Muratori, Trattato delle forze… cit.
[5] Ivi.
[6] Ivi.
[7] Ivi.
[8] «Ανάγκη στήναι», «bisogna fermarsi», «è necessario concludere», Aristotele, Metaph., XII 3, 1070 a 4, Phis., VIII 5, 256 a 1.
[9] San Tommaso d’Aquino, In libros Aristotelis De caelo et de mundo expositio, I, lectio 9.
[11] Con «Filosofia (o scuola) del senso comune» s’intende «la dottrina elaborata dalla Scuola scozzese, che postula l’esistenza di una speciale facoltà, il senso comune appunto, istinto originario con cui la mente umana riconoscerebbe in maniera intuitiva e immediata i principî fondamentali della conoscenza (in partic., la nozione della realtà esterna), della morale (per es. il principio della libertà dell’agire) e della religione (per es. l’idea dell’essere divino), che sarebbero così sottratti tanto alla dimostrazione quanto alla critica della ragione». Voce «senso comune», in Il Vocabolario Treccani, Istituto dell’Enciclopedia Italiana.
[12] Antonio Livi, Il principio di coerenza. Senso comune e logica epistemica, Armando Editore, 1997, pp. 15-16.
[13] Ibidem. p. 46.
[14] Ivi.
[15] Ibidem. p. 156.
[16] Ibidem. p. 46.
[17] Ivi.
[18] Stefano Fontana, “Paradigma metafisico e paradigma ermeneutico: le variazioni nel Magistero sociale postconciliare”, in Fides Catholica, XIII (2018) 2, pp. 389-403. Tutte le citazioni a seguire di Fontana sono relative a questo testo.
[19] Augusto del Noce, Fede e filosofia secondo Étienne Gilson, in Id., Pensiero della Chiesa e filosofia contemporanea. Leone XIII, Paolo VI, Giovanni Paolo II, Studium, Roma 2005, p. 81. Dalla nota di Fontana.
[20] «Il bene comune comprende l’insieme di quelle condizioni della vita sociale con le quali gli uomini, le famiglie e le associazioni possono raggiungere più pienamente e più rapidamente la loro perfezione.», Concilio ecumenico Vaticano II, Costituzione Gaudium et spes, n. 74.
[21] Cf. Benedetto XVI, Lett. Enciclica Caritas in veritate.
[22] Marcel de Corte, La grande eresia – Ovvero la caricatura eretica del cristianesimo, Effedieffe, Viterbo 2015, p. 51. Citazione e nota di Fontana.
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