Il frutto amaro dell’accordo segreto Vaticano-Pechino
Perché la Cina gode di “un posto di privilegio con il Vaticano”, nonostante uno spaventoso record di oppressione anticattolica? Se lo chiede anche il giornalista e scrittore Phil Lawler nel suo editoriale pubblicato su Catholic Culture. Eccolo nella mia traduzione.
Come avrete già visto, La Civiltà Cattolica, la rivista del Vaticano diretta dai gesuiti (il cui direttore è padre Antonio Spadaro), è ora disponibile in Cina. Il segretario di Stato vaticano, il cardinale Pietro Parolin, ha accolto con favore l’uscita dell’edizione cinese come “frutto dell’incontro amichevole con la ricca tradizione del popolo cinese”.
Non sorprende che la Cina accolga la Civilta Cattolica. La rivista ha sostenuto con entusiasmo papa Francesco nel suo impegno a favore del regime di Pechino. Il suo direttore, padre Antonio Spadaro, si è recato a Pechino lo scorso giugno per organizzare un “Forum per il dialogo civile”. Il numero attuale presenta un editoriale dal titolo: “Fiducia nel cammino della Chiesa in Cina”.
Ma diamo un’occhiata più da vicino. Cos’è questo “incontro amichevole” tra Roma e Pechino? Quali altri frutti ha portato? E quando una rivista vaticana esprime “fiducia” nella Chiesa in Cina, non implica che ci si ponga una domanda: la ragione del perché alcuni non si sentono sicuri?
La domanda che ci si pone (anche se non dai docili redattori de La Civiltà Cattolica) è se l’accordo segreto tra il Vaticano e Pechino abbia aiutato o danneggiato la Chiesa cattolica in Cina. L’accordo, concluso nel settembre 2018, aveva lo scopo di risolvere le tensioni tra le ali “ufficiale” e “sotterranea” del cattolicesimo cinese – una fedele a Pechino, l’altra a Roma. In particolare, l’accordo permetteva la nomina di nuovi vescovi che sarebbero stati riconosciuti sia dalla Santa Sede che dall’Associazione patriottica controllata dal governo.
Per anni, per non aggravare i problemi dei prelati “clandestini”, le pubblicazioni ufficiali vaticane non avevano elencato informazioni sui vescovi in servizio in Cina. Ora è disponibile un elenco completo e approvato. È rivelatore.
Oggi ci sono 394 diocesi in Cina. Di queste, 74 non hanno un vescovo. Tra i vescovi attualmente a capo delle diocesi cinesi, molti sono ben oltre l’età pensionabile prevista dalla normativa: sei hanno più di 90 anni e altri quattro hanno più di 85 anni. Quindi, diciotto mesi dopo l’accordo che ha teoricamente posto fine a un’impasse sulla nomina dei vescovi, il problema delle nomine evidentemente non è stato risolto.
Eppure il Vaticano insiste sulle espressioni di “fiducia” sul futuro delle relazioni con la Cina. (Quando l’editoriale Civilta parlava di “viaggio”, avreste dovuto notare che è il futuro che ispira fiducia, non certo il presente). Ma mentre aspettiamo il futuro promesso di relazioni felici, le notizie dalla Cina rimangono tetre; i cattolici fedeli soffrono, mentre il regime comunista stringe la morsa sulle chiese.
Proprio dall’inizio di quest’anno:
un sacerdote è stato imprigionato, e ad un vescovo sono state tagliate le utenze nella sua residenza, perché si sono rifiutati di accettare l’autorità dell’Associazione patriottica (la chiesa cinese gestita dal Partito Comunista Cinese, mai riconosciuta dal Vaticano, ndr); le autorità hanno chiuso le chiese parrocchiali che si sono opposte al controllo del Partito; nuovi regolamenti hanno imposto a tutti gli enti religiosi di registrarsi presso i funzionari del Partito comunista; sono stati vietati i funerali pubblici; i giovani sono esclusi dalle chiese, i crocifissi nei santuari sostituiti da bandiere rosse, l’inno nazionale cantato a messa al posto degli inni.
Quel “frutto dell’incontro amichevole” che il cardinale Parolin ha citato può essere dolce per i funzionari del Partito comunista – e per i funzionari vaticani intenti a perseguire la stessa politica – ma per molte migliaia di cattolici è amaro. Un rapporto del Congresso degli Stati Uniti a gennaio ha rilevato che le restrizioni sulla Chiesa cattolica sono aumentate dopo la firma di quel patto segreto con il Vaticano, in quanto “le autorità locali cinesi hanno sottoposto i credenti cattolici in Cina a una crescente persecuzione demolendo le chiese, rimuovendo le croci e continuando a detenere il clero della Chiesa clandestina”.
Questa settimana il Vaticano ha compiuto un altro passo nel suo “viaggio” verso il riavvicinamento al regime di Pechino, inviando un messaggio di ringraziamento alla Cina per la donazione di attrezzature mediche per combattere l’epidemia di COVID-19. (Il Vaticano non ha ringraziato Taiwan per una donazione precedente, senza dubbio perché un cenno verso Taiwan avrebbe offeso i leader del Partito comunista sulla terraferma). Il cardinale Raymond Burke ha fatto bene a mettere in discussione quel messaggio di omaggio a Pechino, e a chiedersi perché la Cina gode di “un posto di privilegio con il Vaticano”, nonostante uno spaventoso record di oppressione anticattolica.
Di Sabino Paciolla
Un fronte mondiale contro la Cina: tutti tranne l’Italia
Il virus sta cambiando i rapporti e le alleanze internazionali. Ogni giorno che passa affiorano dalla Cina informazioni preoccupanti: laboratori dove ricerche pericolose sono condotte con standard di sicurezza insufficienti, avvisi sull’epidemia forniti con colpevole ritardo (soprattutto a gennaio, al momento dello scatenarsi), dati sui caratteri del virus occultati o rilasciati col contagocce, notizie sull’origine imprecise se non false, numeri sui contagiati manipolati al ribasso. Alcuni giornalisti e studiosi ipotizzano che a Wuhan fossero in corso esperimenti molto azzardati. In Florida è stata avviata una class action contro Pechino che ha “insabbiato i fatti allo scopo di tutelare il proprio interesse economico” e anche in altri Stati americani sono pronte a partire azioni per ottenere risarcimenti. L’India ha depositato all’Onu una richiesta di azione legale accusando la Cina di crimini contro l’umanità. Tutto ciò modifica la percezione politica riguardo alla Cina: da fabbrica del mondo utile per l’economia, anche se con ambizioni esagerate, a soggetto non responsabile, pericoloso per la sicurezza.
Gli Stati Uniti sono molto attivi, con spirito bipartisan (in prima fila i grandi media anti-Trump), nel diffondere rivelazioni sulla scorrettezza (eufemismo) di Pechino nella gestione dell’emergenza e sempre più ne fanno un tema politico con l’intento di compattare la diffidenza verso la Cina. Il Regno Unito, che pure ha notevoli interessi a Hong Kong, mette a capo del MI5 Ken McCallum, uno specialista molto attento ai pericoli dello spionaggio industriale cinese, e si ritrae dall’opzione Huawei per il 5G. Macron, che aveva costruito un solido rapporto con Xi, ha virato da qualche tempo verso Washington per rafforzarsi in Africa, dove la Cina è sempre più potente, e anche per avvantaggiarsi su Merkel che non riesce a superare il contrasto – ideale ancor prima che strategico – con Trump. Anche la Russia, a cui il virus arriva attraverso la lunga e porosa frontiera cinese, sembra tentare qualche mossa di avvicinamento verso gli Stati Uniti forse temendo di sbilanciarsi troppo verso un quasi-alleato aggressivo e molto spregiudicato.
I riflessi in Europa sono significativi. Nell’Unione, devastata dalla strage sanitaria e rattrappita dalla Brexit, si vede un rapido declino dei capisaldi strategici in stile tedesco: l’export non è più una guida sicura in epoca di recessione; si complica l’oscillazione opportunista tra la Cina, alleata sulle politiche economiche, e gli Stati Uniti che garantiscono sicurezza; non è più automatica la tradizionale linea dell’austerità. La Germania, come sempre, lascia andare in consunzione i problemi e prende tempo: mantiene il rapporto privilegiato con Pechino, cerca di puntellare gli Stati deboli Ue, mostra efficienza nel dare risposta al virus, spera che Trump perda le elezioni. Macron sfoggia attivismo, manovra per allineare dietro a sé gli Stati che più soffrono il peso del debito, sogna la leadership continentale per continuare a proiettare potenza nel mondo (anche se la Francia da tempo non ne ha più i mezzi). Tutto ciò produce stallo e pericoli: l’Europa si scopre fragile e ripiegata su sé stessa mentre la ripresa, che richiede visione comune e cooperazione, è immersa in problemi che rischiano di attizzare conflitti. L’alleanza con gli Stati Uniti si sta logorando, la sponda con la Cina – che pure gode del sostegno vaticano in vista di un epocale accordo – diventa ogni giorno più pericolosa.
In modo speciale è a repentaglio l’Italia paralizzata da decennali problemi di bilancio e inceppata dallo sfaldamento dell’ossatura istituzionale (pletora di organismi, contraddizioni interne, timori giudiziari e alla fine inerzia operativa): l’incertezza sulla scena europea, i flirt cinesi, una certa negligenza atlantica possono, in un contesto così difficile, rivelarsi drammatici. E’ l’ora di scelte chiare in continuità con la tradizione atlantica, è l’ora di una guida più sicura.
Perché la Cina gode di “un posto di privilegio con il Vaticano”, nonostante uno spaventoso record di oppressione anticattolica? Se lo chiede anche il giornalista e scrittore Phil Lawler nel suo editoriale pubblicato su Catholic Culture. Eccolo nella mia traduzione.
Come avrete già visto, La Civiltà Cattolica, la rivista del Vaticano diretta dai gesuiti (il cui direttore è padre Antonio Spadaro), è ora disponibile in Cina. Il segretario di Stato vaticano, il cardinale Pietro Parolin, ha accolto con favore l’uscita dell’edizione cinese come “frutto dell’incontro amichevole con la ricca tradizione del popolo cinese”.
Non sorprende che la Cina accolga la Civilta Cattolica. La rivista ha sostenuto con entusiasmo papa Francesco nel suo impegno a favore del regime di Pechino. Il suo direttore, padre Antonio Spadaro, si è recato a Pechino lo scorso giugno per organizzare un “Forum per il dialogo civile”. Il numero attuale presenta un editoriale dal titolo: “Fiducia nel cammino della Chiesa in Cina”.
Ma diamo un’occhiata più da vicino. Cos’è questo “incontro amichevole” tra Roma e Pechino? Quali altri frutti ha portato? E quando una rivista vaticana esprime “fiducia” nella Chiesa in Cina, non implica che ci si ponga una domanda: la ragione del perché alcuni non si sentono sicuri?
La domanda che ci si pone (anche se non dai docili redattori de La Civiltà Cattolica) è se l’accordo segreto tra il Vaticano e Pechino abbia aiutato o danneggiato la Chiesa cattolica in Cina. L’accordo, concluso nel settembre 2018, aveva lo scopo di risolvere le tensioni tra le ali “ufficiale” e “sotterranea” del cattolicesimo cinese – una fedele a Pechino, l’altra a Roma. In particolare, l’accordo permetteva la nomina di nuovi vescovi che sarebbero stati riconosciuti sia dalla Santa Sede che dall’Associazione patriottica controllata dal governo.
Per anni, per non aggravare i problemi dei prelati “clandestini”, le pubblicazioni ufficiali vaticane non avevano elencato informazioni sui vescovi in servizio in Cina. Ora è disponibile un elenco completo e approvato. È rivelatore.
Oggi ci sono 394 diocesi in Cina. Di queste, 74 non hanno un vescovo. Tra i vescovi attualmente a capo delle diocesi cinesi, molti sono ben oltre l’età pensionabile prevista dalla normativa: sei hanno più di 90 anni e altri quattro hanno più di 85 anni. Quindi, diciotto mesi dopo l’accordo che ha teoricamente posto fine a un’impasse sulla nomina dei vescovi, il problema delle nomine evidentemente non è stato risolto.
Eppure il Vaticano insiste sulle espressioni di “fiducia” sul futuro delle relazioni con la Cina. (Quando l’editoriale Civilta parlava di “viaggio”, avreste dovuto notare che è il futuro che ispira fiducia, non certo il presente). Ma mentre aspettiamo il futuro promesso di relazioni felici, le notizie dalla Cina rimangono tetre; i cattolici fedeli soffrono, mentre il regime comunista stringe la morsa sulle chiese.
Proprio dall’inizio di quest’anno:
un sacerdote è stato imprigionato, e ad un vescovo sono state tagliate le utenze nella sua residenza, perché si sono rifiutati di accettare l’autorità dell’Associazione patriottica (la chiesa cinese gestita dal Partito Comunista Cinese, mai riconosciuta dal Vaticano, ndr); le autorità hanno chiuso le chiese parrocchiali che si sono opposte al controllo del Partito; nuovi regolamenti hanno imposto a tutti gli enti religiosi di registrarsi presso i funzionari del Partito comunista; sono stati vietati i funerali pubblici; i giovani sono esclusi dalle chiese, i crocifissi nei santuari sostituiti da bandiere rosse, l’inno nazionale cantato a messa al posto degli inni.
Quel “frutto dell’incontro amichevole” che il cardinale Parolin ha citato può essere dolce per i funzionari del Partito comunista – e per i funzionari vaticani intenti a perseguire la stessa politica – ma per molte migliaia di cattolici è amaro. Un rapporto del Congresso degli Stati Uniti a gennaio ha rilevato che le restrizioni sulla Chiesa cattolica sono aumentate dopo la firma di quel patto segreto con il Vaticano, in quanto “le autorità locali cinesi hanno sottoposto i credenti cattolici in Cina a una crescente persecuzione demolendo le chiese, rimuovendo le croci e continuando a detenere il clero della Chiesa clandestina”.
Questa settimana il Vaticano ha compiuto un altro passo nel suo “viaggio” verso il riavvicinamento al regime di Pechino, inviando un messaggio di ringraziamento alla Cina per la donazione di attrezzature mediche per combattere l’epidemia di COVID-19. (Il Vaticano non ha ringraziato Taiwan per una donazione precedente, senza dubbio perché un cenno verso Taiwan avrebbe offeso i leader del Partito comunista sulla terraferma). Il cardinale Raymond Burke ha fatto bene a mettere in discussione quel messaggio di omaggio a Pechino, e a chiedersi perché la Cina gode di “un posto di privilegio con il Vaticano”, nonostante uno spaventoso record di oppressione anticattolica.
Di Sabino Paciolla
Il virus sta cambiando i rapporti e le alleanze internazionali. Ogni giorno che passa affiorano dalla Cina informazioni preoccupanti: laboratori dove ricerche pericolose sono condotte con standard di sicurezza insufficienti, avvisi sull’epidemia forniti con colpevole ritardo (soprattutto a gennaio, al momento dello scatenarsi), dati sui caratteri del virus occultati o rilasciati col contagocce, notizie sull’origine imprecise se non false, numeri sui contagiati manipolati al ribasso. Alcuni giornalisti e studiosi ipotizzano che a Wuhan fossero in corso esperimenti molto azzardati. In Florida è stata avviata una class action contro Pechino che ha “insabbiato i fatti allo scopo di tutelare il proprio interesse economico” e anche in altri Stati americani sono pronte a partire azioni per ottenere risarcimenti. L’India ha depositato all’Onu una richiesta di azione legale accusando la Cina di crimini contro l’umanità. Tutto ciò modifica la percezione politica riguardo alla Cina: da fabbrica del mondo utile per l’economia, anche se con ambizioni esagerate, a soggetto non responsabile, pericoloso per la sicurezza.
Gli Stati Uniti sono molto attivi, con spirito bipartisan (in prima fila i grandi media anti-Trump), nel diffondere rivelazioni sulla scorrettezza (eufemismo) di Pechino nella gestione dell’emergenza e sempre più ne fanno un tema politico con l’intento di compattare la diffidenza verso la Cina. Il Regno Unito, che pure ha notevoli interessi a Hong Kong, mette a capo del MI5 Ken McCallum, uno specialista molto attento ai pericoli dello spionaggio industriale cinese, e si ritrae dall’opzione Huawei per il 5G. Macron, che aveva costruito un solido rapporto con Xi, ha virato da qualche tempo verso Washington per rafforzarsi in Africa, dove la Cina è sempre più potente, e anche per avvantaggiarsi su Merkel che non riesce a superare il contrasto – ideale ancor prima che strategico – con Trump. Anche la Russia, a cui il virus arriva attraverso la lunga e porosa frontiera cinese, sembra tentare qualche mossa di avvicinamento verso gli Stati Uniti forse temendo di sbilanciarsi troppo verso un quasi-alleato aggressivo e molto spregiudicato.
I riflessi in Europa sono significativi. Nell’Unione, devastata dalla strage sanitaria e rattrappita dalla Brexit, si vede un rapido declino dei capisaldi strategici in stile tedesco: l’export non è più una guida sicura in epoca di recessione; si complica l’oscillazione opportunista tra la Cina, alleata sulle politiche economiche, e gli Stati Uniti che garantiscono sicurezza; non è più automatica la tradizionale linea dell’austerità. La Germania, come sempre, lascia andare in consunzione i problemi e prende tempo: mantiene il rapporto privilegiato con Pechino, cerca di puntellare gli Stati deboli Ue, mostra efficienza nel dare risposta al virus, spera che Trump perda le elezioni. Macron sfoggia attivismo, manovra per allineare dietro a sé gli Stati che più soffrono il peso del debito, sogna la leadership continentale per continuare a proiettare potenza nel mondo (anche se la Francia da tempo non ne ha più i mezzi). Tutto ciò produce stallo e pericoli: l’Europa si scopre fragile e ripiegata su sé stessa mentre la ripresa, che richiede visione comune e cooperazione, è immersa in problemi che rischiano di attizzare conflitti. L’alleanza con gli Stati Uniti si sta logorando, la sponda con la Cina – che pure gode del sostegno vaticano in vista di un epocale accordo – diventa ogni giorno più pericolosa.
In modo speciale è a repentaglio l’Italia paralizzata da decennali problemi di bilancio e inceppata dallo sfaldamento dell’ossatura istituzionale (pletora di organismi, contraddizioni interne, timori giudiziari e alla fine inerzia operativa): l’incertezza sulla scena europea, i flirt cinesi, una certa negligenza atlantica possono, in un contesto così difficile, rivelarsi drammatici. E’ l’ora di scelte chiare in continuità con la tradizione atlantica, è l’ora di una guida più sicura.
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