Papa Francesco ha rilasciato una lunga intervista al suo biografo di fiducia, Austen Ivereigh, pubblicata oggi su Commonwealmagazine.
Riprendo alcuni brani dell’intervista rimandando per il resto alla rivista.
Eccoli nella mia traduzione.
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Come sto vivendo spiritualmente? Prego di più, perché sento che dovrei. E penso alle persone. È questo che mi preoccupa: le persone. Pensare alle persone mi tocca, mi fa bene, mi fa uscire dalla mia auto-preoccupazione. Naturalmente ho le mie aree di egoismo. Il martedì viene il mio confessore e lì mi occupo delle cose.
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La mia principale preoccupazione – almeno ciò che viene attraverso la mia preghiera – è come accompagnare ed essere più vicini al popolo di Dio. Da ciò la Messa delle 7 del mattino trasmessa in streaming [che celebro ogni mattina] che molte persone seguono e apprezzano, così come i discorsi che ho fatto, e l’evento del 27 marzo in Piazza San Pietro. Da qui, anche l’intensificarsi delle attività dell’ufficio degli enti di beneficenza pontifici, che si occupano degli ammalati e degli affamati.
Sto vivendo questo momento di grande incertezza. È un tempo per inventare, per la creatività.
Nella mia seconda domanda mi sono riferito a un romanzo ottocentesco molto caro a papa Francesco, di cui ha parlato recentemente: I promessi sposi di Alessandro Manzoni. Il dramma del romanzo è incentrato sulla peste milanese del 1630. Ci sono vari personaggi sacerdotali: il vile curato don Abbondio, il santo cardinale arcivescovo Borromeo, e i frati cappuccini che servono il lazzaretto, una sorta di ospedale da campo dove gli infetti sono rigorosamente separati dai sani. Alla luce del romanzo, come vedeva papa Francesco la missione della Chiesa nel contesto di COVID-19?
Papa Francesco: Il cardinale Federigo [Borromeo] è davvero un eroe della peste milanese. Eppure in uno dei capitoli va a salutare un villaggio ma con la finestra della sua carrozza chiusa per proteggersi. Questo non è andato giù bene alla gente. Il popolo di Dio ha bisogno che il suo pastore gli stia vicino, che non si protegga troppo. Il popolo di Dio ha bisogno che i suoi pastori siano altruisti, come i cappuccini, che sono rimasti vicini.
La creatività del cristiano ha bisogno di mostrarsi nell’aprire nuovi orizzonti, aprire finestre, aprire la trascendenza verso Dio e verso le persone, e nel creare nuovi modi di stare a casa. Non è facile essere confinati a casa propria. Quello che mi viene in mente è un versetto dell’Eneide in mezzo alla sconfitta: il consiglio è di non arrendersi, ma di salvarsi per tempi migliori, perché in quei tempi ricordare ciò che è accaduto ci aiuterà. Abbiate cura di voi stessi per un futuro che verrà. E ricordare in quel futuro ciò che è successo vi farà bene.
Abbiate cura dell’ora, per il bene del domani. Sempre in modo creativo, con una creatività semplice, capace di inventare ogni giorno qualcosa di nuovo. Dentro la casa che non è difficile da scoprire, ma non scappare, non rifugiarti nella fuga, che in questo tempo non ti serve a niente.
La mia terza domanda ha riguardato le politiche governative in risposta alla crisi. Mentre la messa in quarantena della popolazione è un segno che alcuni governi sono disposti a sacrificare il benessere economico per il bene delle persone vulnerabili, ho suggerito che essa stesse mostrando anche livelli di esclusione che prima d’ora erano considerati normali e accettabili.
Papa Francesco: È vero, alcuni governi hanno adottato misure esemplari per difendere la popolazione sulla base di chiare priorità. Ma ci stiamo rendendo conto che tutto il nostro pensiero, che ci piaccia o no, è stato plasmato intorno all’economia. Nel mondo della finanza è sembrato normale sacrificare [persone], praticare una politica della cultura dello scarto, dall’inizio alla fine della vita. Penso, per esempio, alla selezione prenatale. È molto insolito di questi tempi incontrare per strada persone con la sindrome di Down; quando il tomografo [scansioni] le rileva, vengono buttate nel cestino. È una cultura dell’eutanasia, legale o occulta, in cui agli anziani vengono somministrati dei farmaci, ma solo fino a un certo punto.
Quello che mi viene in mente è l’enciclica Humanae vitae di Papa Paolo VI. La grande polemica dell’epoca era sulla pillola [contraccettiva], ma ciò di cui la gente non si rendeva conto era la forza profetica dell’enciclica, che prevedeva il neomalthusianesimo che allora si stava diffondendo in tutto il mondo. Paolo VI lanciò l’allarme su quell’ondata di neomaltusianesimo. Lo vediamo nel modo in cui le persone vengono selezionate in base alla loro utilità o produttività: la cultura dell’usa e getta.
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Ero curioso di sapere se il papa veda la crisi e la devastazione economica che si sta scatenando come un’opportunità per una conversione ecologica, per rivalutare le priorità e gli stili di vita. Gli ho chiesto concretamente se sia possibile che in futuro si possa vedere un’economia che, per usare le sue parole, sia più “umana” e meno “liquida”.
Papa Francesco: C’è un’espressione in spagnolo: “Dio perdona sempre, noi a volte perdoniamo, ma la natura non perdona mai”. Non abbiamo risposto alle catastrofi parziali. Chi parla ora degli incendi in Australia, o ricorda che diciotto mesi fa una barca poteva attraversare il Polo Nord perché i ghiacciai si erano tutti sciolti? Chi parla ora delle inondazioni? Non so se queste sono la vendetta della natura, ma sono certamente le risposte della natura.
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In questo momento in Europa, in cui si cominciano a sentire discorsi populisti e si assiste a decisioni politiche così selettive, è fin troppo facile ricordare i discorsi di Hitler del 1933, che non erano poi così diversi da alcuni dei discorsi di alcuni politici europei di oggi.
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Questa crisi colpisce tutti noi, ricchi e poveri, e mette sotto i riflettori l’ipocrisia. Mi preoccupa l’ipocrisia di certe personalità politiche che parlano di affrontare la crisi, del problema della fame nel mondo, ma che nel frattempo producono armi. Questo è un momento per convertirsi da questo tipo di ipocrisia funzionale. È un momento di integrità. O siamo coerenti con le nostre convinzioni o perdiamo tutto.
Mi chiede della conversione. Ogni crisi contiene sia il pericolo che l’opportunità: l’opportunità di uscire dal pericolo. Oggi credo che dobbiamo rallentare il nostro ritmo di produzione e di consumo (Laudato si’, 191) e imparare a capire e a contemplare il mondo naturale. Dobbiamo riconnetterci con il nostro ambiente reale. Questa è l’occasione per la conversione.
Sì, vedo i primi segni di un’economia meno liquida, più umana. Ma non perdiamo la memoria una volta che tutto questo sarà passato, non archiviamolo e tornando al punto in cui eravamo. Questo è il momento di fare il passo decisivo, di passare dall’uso e abuso della natura alla contemplazione. Abbiamo perso la dimensione contemplativa, dobbiamo recuperarla in questo momento.
E a proposito di contemplazione, vorrei soffermarmi su un punto. Questo è il momento di vedere i poveri. Gesù dice che avremo sempre con noi i poveri, ed è vero. Sono una realtà che non possiamo negare. Ma i poveri sono nascosti, perché la povertà è timida. A Roma recentemente, nel bel mezzo della quarantena, un poliziotto ha detto a un uomo: “Non puoi stare per strada, vai a casa”. La risposta è stata: “Non ho una casa. Vivo per strada”. Scoprire un così gran numero di persone che sono ai margini….. E noi non le vediamo, perché la povertà è timida. Ci sono, ma non li vediamo: sono diventati parte del paesaggio, sono cose.
Santa Teresa di Calcutta li ha visti e ha avuto il coraggio di intraprendere un viaggio di conversione. “Vedere” i poveri significa restituire loro l’umanità. Non sono cose, non spazzatura, sono persone. Non possiamo accontentarci di una politica di benessere come abbiamo fatto per gli animali salvati. Spesso trattiamo i poveri come animali salvati. Non possiamo accontentarci di una politica di benessere parziale.
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Noi disincentiviamo i poveri. Non gli diamo il diritto di sognare le loro madri. Non sanno cosa sia l’affetto; molti vivono di droga. E vederli può aiutarci a scoprire la pietà, la pietas, che punta verso Dio e verso il prossimo.
Scendere nel sottosuolo, e passare dal mondo iper-virtuoso e senza carne alla carne sofferente dei poveri. Questa è la conversione che dobbiamo subire. E se non partiamo da lì, non ci sarà conversione.
Penso, in questo momento, ai santi che vivono alla porta accanto. Sono eroi: medici, volontari, suore religiose, religiosi, sacerdoti, commercianti, tutti che fanno il loro dovere affinché la società possa continuare a funzionare. Quanti medici e infermieri sono morti! Quante sorelle religiose sono morte! Tutti in servizio….. Quello che mi viene in mente è qualcosa detto dal sarto, a mio avviso uno dei personaggi più integri de I Promessi Sposi. Dice: “Il Signore non lascia i suoi miracoli a metà”. Se prendiamo coscienza di questo miracolo dei santi della porta accanto, se riusciamo a seguire le loro tracce, il miracolo finirà bene, per il bene di tutti. Dio non lascia le cose a metà. Siamo noi che lo facciamo.
Quello che stiamo vivendo ora è un luogo di metanoia (conversione), e abbiamo la possibilità di cominciare. Quindi non lasciamocela sfuggire e andiamo avanti.
La mia quinta domanda ha riguardato gli effetti della crisi sulla Chiesa e la necessità di ripensare il nostro modo di operare. Vede emergere da questo una Chiesa più missionaria, più creativa, meno attaccata alle istituzioni? Stiamo vedendo un nuovo tipo di “chiesa domestica”?
Papa Francesco: Meno attaccata alle istituzioni? Direi meno attaccata a certi modi di pensare. Perché la Chiesa è un’istituzione. La tentazione è quella di sognare una Chiesa deistituzionalizzata, una Chiesa gnostica senza istituzioni, o soggetta a istituzioni fisse, che sarebbe una Chiesa pelagiana. Chi fa la Chiesa è lo Spirito Santo, che non è né gnostico né pelagiano. È lo Spirito Santo che istituzionalizza la Chiesa, in modo alternativo, complementare, perché lo Spirito Santo provoca il disordine attraverso i carismi, ma poi da quel disordine crea armonia.
Una Chiesa che è libera non è una Chiesa anarchica, perché la libertà è un dono di Dio. Una Chiesa istituzionale è una Chiesa istituzionalizzata dallo Spirito Santo.
Una tensione tra disordine e armonia: questa è la Chiesa che deve uscire dalla crisi. Dobbiamo imparare a vivere in una Chiesa che esiste nella tensione tra armonia e disordine provocata dallo Spirito Santo. Se mi chiede quale libro di teologia può aiutarla meglio a capire questo, direi gli Atti degli Apostoli. Lì vedrà come lo Spirito Santo deistituzionalizza ciò che non serve più e istituzionalizza il futuro della Chiesa. Questa è la Chiesa che deve uscire dalla crisi.
Circa una settimana fa un vescovo italiano, un po’ agitato, mi ha chiamato. Andava in giro per gli ospedali volendo dare l’assoluzione a chi si trovava all’interno dei reparti dal corridoio dell’ospedale. Ma aveva parlato con gli avvocati canonici che gli avevano detto che non poteva, che l’assoluzione poteva essere data solo in contatto diretto. “Cosa ne pensa, padre?” mi aveva chiesto. Gli dissi: “Vescovo, adempia al suo dovere sacerdotale”. E il vescovo disse: “Grazie, ho capito” (“Grazie, ho capito”). Ho scoperto più tardi che stava dando l’assoluzione a tutti.
Questa è la libertà dello Spirito nel bel mezzo di una crisi, non una Chiesa chiusa nelle istituzioni. Questo non significa che il diritto canonico non sia importante: lo è, aiuta, e per favore facciamone buon uso, è per il nostro bene. Ma il canone finale dice che tutto il diritto canonico è per la salvezza delle anime, ed è questo che ci apre la porta ad uscire nei momenti di difficoltà per portare la consolazione di Dio.
Mi chiedete di una “chiesa domestica”. Dobbiamo rispondere alla nostra reclusione con tutta la nostra creatività. Possiamo essere depressi e alienati – attraverso i media che possono portarci fuori dalla nostra realtà – oppure possiamo diventare creativi. A casa abbiamo bisogno di una creatività apostolica, una creatività spogliata di tante cose inutili, ma con il desiderio di esprimere la nostra fede nella comunità, come popolo di Dio. Quindi: essere in isolamento, ma con quel ricordo che anela e genera speranza – questo è ciò che ci aiuterà a uscire dalla nostra prigionia.
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Di Sabino Paciolla
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