Silvia convertita all'islam, Bux: "Il vero cristiano non teme il martirio"
La conversione di Silvia Romano all'islam fa discutere. Per Monsignor Nicola Bux il "vero cristiano non teme il martirio per Gesù Cristo"
La conversione di Silvia Romano all'islam fa discutere. Per Monsignor Nicola Bux il "vero cristiano non teme il martirio per Gesù Cristo"
Silvia Romano si è convertita all'islam. La questione suscita almeno una domanda.
Mons. Bux, possibile che Silvia Romano sia stata convertita o magari sia stata manipolata dagli islamici? La giovane sostiene che la sua adesione all'islam sia stata una scelta spontanea..
Il concilio ricorda che la libertà religiosa riguarda l'immunità dalla coercizione nella società civile. Ma anche che ciò lascia intatta la dottrina cattolica sul dovere morale dei singoli e delle società verso la vera religione e l'unica chiesa di Cristo. Una persona cosciente del suo battesimo conosce tutto questo.
Le risuta normale che una persona finita nelle mani di estremisti islamici finisca per convertirsi?
Dipende dal soggetto. Un cattolico dalla coscienza ben formata sa qual è la vera religione e, di conseguenza, che il suo abbandono, cioè l'apostasia è uno dei peccati più gravi. Si badi che l'islam punisce l'apostasia con la morte. Pertanto, il vero cristiano non teme il martirio per Gesù Cristo. Se invece la coscienza non fosse ben formata o facesse ciò per ignoranza, esiste l'attenuante davanti a Dio.
Quale messaggio per l'identità europea arriva dalla storia di Silvia Romano?
Ricordo un documentario prodotto dalla Rai dieci anni fa. L'indimenticabile Luca De Mata lo intitolò Dio: pace o dominio, perché dal reportage in giro per l'Europa aveva ricavato che l'islam stesse avanzando scaltramente, presentandosi come religione di pace, in realtà puntando al dominio del continente. Celebre l'avvertimento dell'allora vescovo di Izmir (Smirne, ndr) agli europei: i promotori islamici dell'immigrazione in Europa pensano: con le vostre leggi vi invaderemo, con la sharia vi sottometteremo. Che vi cooperino gli europei, è masochismo. La Rai dovrebbe riproporre quel documentario in cinque puntate.
Teme per i cattolici in giro per il mondo?
Dalle statistiche è noto che il cristianesimo cattolico è la religione più perseguitata al globo. Ma i cristiani non temono la persecuzione, perché è la condizione ordinaria del cristianesimo. Gesù Cristo ha detto: "Hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi". Perciò il cristianesimo vince sempre quando è sconfitto. Papa, cardinali, vescovi, sacerdoti e fedeli lo dovrebbero sapere a memoria, non solo, ma anche che alla fine solo la croce di Cristo vince. Lo ricorda Giovanni Paolo II nell'enciclica missionaria Redemptoris missio.
Quindi?
Quindi, i programmi di neo-umanesimo, di fratellanza universale, di dialogo interreligioso senza Cristo, sono destinati al fallimento. Meglio farebbero le chiese europee a spendere tutte le forze, anche finanziarie, anzi la loro vita, nell'unico compito che Cristo ha affidato loro: far conoscere il vangelo a tutte le genti e chiamarle a conversione. Solo l'estensione della fede cattolica può compattare il globo secondo i tempi di Dio. Questo passerà attraverso la persecuzione, la croce, la vera "teologia della liberazione".
Esistono fenomeni di proselitismo studiati ad hoc? Magari adatti pure per gli europei che fanno cooperazione all'estero?
Circa vent'anni fa, ho conosciuto ad Amman dei giovani sauditi che ogni tre mesi, muniti di visto, uscivano dall'Arabia per venire a catechizzarsi per diventare cristiani. Mi mostrarono il materiale propagandistico stampato in arabo, che dal loro paese veniva inviato fino a Londra, documentando il piano di dominio islamico in Europa. Per attuarlo è necessaria l'immigrazione ma anche il proselitismo tra gli europei, specialmente delle Ong, in cui l'identità cristiana o è inesistente o è annacquata. Oggi sappiamo che Londra è in gran parte musulmana, complice anche la pressoché totale sparizione degli anglicani. Ma c'è una pattuglia di cattolici che resiste e vincerà, a costo del martirio.
Silvia ha scelto di chiamarsi Aisha, come una delle mogli di Maometto...
Chissà se prima di cambiar nome e credo, sapeva che santa Silvia è la madre di san Gregorio Magno. E chissà se conosce quanto conclude uno studioso di prima grandezza, dell'islam e della tradizione araba cristiana, della cui amicizia mi onoro, il gesuita egiziano Samir Khalil Samir - citando il Corano al versetto 228 della sura della Vacca e al 34 di quella delle Donne: "Mentre nella concezione cristiana l'uomo e la donna sono messi su un piano di sostanziale parità,in quella musulmana si stabilisce una differenza a livello ontologico, come affermano ancora oggi gli autori musulmani, che presentano il ruolo della donna nell'Islam spiegando che essa, essendo per sua natura più debole fisicamente, più fragile psichicamente e più emotiva che razionale, è inferiore all'uomo e deve sottostare a lui".
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POCO DA FESTEGGIARE
Immorale quel riscatto: i soldi faranno morti e sequestri
E' stato moralmente lecito pagare il riscatto per Silvia Romano? La risposta è negativa, dato che gli effetti negativi sopravanzano quelli positivi: quei soldi serviranno per uccidere più di una persona e per sequestrare molte altre persone.
Quattro milioni di euro. Tale è stato forse il riscatto pagato per liberare la cooperante Silvia Romano. Da qui un quesito: è stato moralmente lecito pagare questo riscatto? La risposta è negativa. Cerchiamo di comprenderne i motivi.
Il caso, dal punto di vista etico, si inquadra nella cooperazione materiale al male. Nella cooperazione formale, colui che coopera condivide l’intenzione dell’agente principale: Tizio vende un’arma a Caio sia per guadagnarci sia per aiutare Caio a compiere un assassinio. Nella cooperazione materiale, invece colui che coopera non condivide l’intenzione dell’agente principale: è il caso del riscatto per la liberazione della Romano. Coloro che hanno sborsato i quattro milioni di euro non lo hanno fatto con l’intenzione di agevolare i progetti terroristici dei sequestratori, ma lo hanno fatto per vedere libera la Romano.
La cooperazione materiale può essere, a seconda dei casi, lecita o illecita. Per comprendere se è moralmente lecita o illecita occorre applicare il principio del duplice effetto, principio che viene chiamato in causa quando un atto produce un effetto positivo (o più di un effetto positivo) e un effetto negativo (o più di un effetto negativo). Il principio del duplice effetto consta di alcune condizioni che occorre soddisfare affinchè l’azione, che produce questi effetti contrastanti, sia moralmente lecita. La prima condizione esige che la natura dell’atto sia buona. È una condizione implicita alla fattispecie interessata dal principio del duplice effetto: si compie l’atto per ottenere l’effetto positivo. In questo caso si paga una somma di denaro per vedere liberata la persona sequestrata. L’atto è in sé moralmente lecito.
La seconda condizione prevede che l’effetto negativo non sia voluto direttamente ma meramente tollerato. Come già accennato, l’agevolazione di future attività terroristiche, tramite il pagamento del riscatto, è effetto tollerato, non ricercato direttamente. La terza condizione chiede che l’effetto negativo non sia causa dell’effetto positivo: l’agevolazione di future azioni terroristiche non ha prodotto la liberazione dell’ostaggio. È dunque effetto negativo che non ha un nesso causale con l’effetto positivo. Un’altra condizione prevede che si versi in stato di necessità: la soluzione di pagare il riscatto era la soluzione ottimale, ossia l’unica soluzione che prometteva i maggiori benefici rispetto agli effetti negativi prodotti. Facciamo dunque il caso che, ad esempio, un intervento militare avrebbe causato più danni che benefici rispetto alla soluzione del pagamento del riscatto.
Veniamo infine ad una quinta condizione che nel caso di specie è quella che fa la differenza: gli effetti positivi devono essere di pari importanza degli effetti negativi o di maggior importanza tenendo altresì in conto la probabilità che si verifichino sia gli effetti negativi che quelli positivi. Nella vicenda del riscatto della Romano gli effetti negativi, assai probabili, sopravanzano per importanza quelli positivi, quindi l’atto risulta essere inefficace, più in particolare risulta essere dannoso. Infatti su un piatto della bilancia abbiamo un duplice effetto buono: la salvezza e la liberazione di una donna. Sull’altro piatto della bilancia abbiamo molti più effetti negativi della medesima natura: quei soldi serviranno per uccidere più di una persona e per sequestrare molte altre persone. Insomma il gioco non vale la candela.
Dunque nella ipotesi del riscatto della cooperante milanese il criterio che non è stato soddisfatto è quello relativo al principio di efficacia o di proporzione. Tommaso d’Aquino spiega che alcune condizioni in cui è calato un atto possono mutarne la natura: da astrattamente buona a concretamente malvagia. L’Aquinate scrive: «un atto che parte da una buona intenzione può diventare illecito, se è sproporzionato al fine» (Summa Theologiae, II-II, q. 64, a. 7 c.). Traduciamo: paghiamo il riscatto con l’intenzione buona di liberare la donna, ma le modalità dell’atto fanno sì che esista una sproporzione tra effetti negativi a danno di quelli positivi, proprio perché i soldi versati avranno salvato e liberato una persona a fronte della morte e incarcerazione di molti più innocenti. Dato che l’atto è alla fine dannoso (o globalmente inteso come dannoso), l’intelletto lo giudica irragionevole e quindi malvagio.
Tommaso Scandroglio
https://lanuovabq.it/it/immorale-quel-riscatto-i-soldi-faranno-morti-e-sequestri
I cinque dubbi su Silvia Romano
I cinque dubbi su Silvia Romano
Coperta da un velo verde, Silvia Romano, la cooperante italiana rapita in Kenya a fine 2018, è finalmente tornata a casa dopo 18 mesi di prigionia. Un anno e mezzo segnato da un silenzio che pesava come un macigno e dove la speranza ha spesso ceduto il passo alla disperazione. Sparita, data in sposa a un jihadista e infine morta: sono queste le tante voci che sono circolate in questi mesi. Tutte smentite. O quasi.
Ripercorrere i 18 mesi di prigionia di Silvia, infatti, non è per niente facile. Ancora più difficile è comprendere i motivi che l’hanno portata a convertirsi e, soprattutto, vale la pena interrogarsi su quale islam abbia incontrato la cooperante. Gli Al Shabaab non sono infatti un gruppo mistico o sufi dell’islam, ma un movimento jihadista affiliato ad Al Qaeda che ha compiuto stragi terribili, come ricorda anche Maryan Ismail, antropologa di origini somale a cui i jihadisti hanno strappato un fratello: “Quale islam ha conosciuto Silvia? Quello pseudo religioso che viene utilizzato per tagliarci la testa? Quello dell’attentato di Mogadiscio che ha provocato 600 morti innocenti? Quello che violenta le nostre donne e bambine? Che obbliga i giovani ad arruolarsi con i jihadisti? Quello che ha provocato a Garissa 148 morti di giovani studenti kenioti solo perché cristiani? Quello che provoca da anni esodi di un’intera generazione che preferisce morire nel deserto, nelle carceri libiche o nel Mediterraneo pur di sfuggire a quell’orrore? Quello che ha decimato politici, intellettuali, dirigenti, diplomatici e giornalisti?”.
Già perché Silvia è innanzitutto un’autodidatta e non si capisce quale possa essere la sua idea di islam. Sono infatti cinque i punti che non tornano in questa conversione.
- Ad oggi, non sappiamo se la lettura del Corano le sia stata in qualche modo suggerita (“Ho chiesto dei libri e mi hanno portato il Corano. Ho cominciato a leggere per curiosità e poi è stato normale: la mia è stata una conversione spontanea”) o se sia nata da un suo intimo desiderio di conoscenza (“Ho chiesto dei libri e poi ho chiesto di avere anche il Corano”).
- La conversione di Silvia è davvero sincera oppure è stata causata dalla drammatica situazione in cui si è trovata suo malgrado? Afferma a tal proposito Paolo Branca, docente dell’università Cattolica intervistato da ilGiornale.it: “Mi pare evidente che se i rapitori fossero stati di un’altra religione o atei, sarebbe stata meno probabile la richiesta di una copia del Corano, seguita addirittura da una conversione”. La giovane, quindi, potrebbe aver inizialmente chiesto il libro sacro dell’islam per cercare un po’ di consolazione e si sarebbe infine convertita.
- Qual è l’islam in cui crede Silvia? Quello più tollerante oppure quello più severo e repressivo praticato per esempio in Arabia Saudita?
- Perché Silvia ha deciso di tornare in Italia indossando un ampio vestito verde tipico della tradizione somala e coprendosi il volto con il velo? Secondo Branca, la risposta non sarebbe solamente da cercare nell’islam ma anche nel fatto che chi “esce da una simile esperienza può anche sentirsi ‘protetto’ dal velo dai molti sguardi che si vedrà puntati addosso”.
- Infine, il quinto dubbio. Quello più drammatico: le violenze. Silvia ha detto di esser stata trattata bene dai suoi rapitori, ma questa versione è difficile da credere. Certamente, la giovane rappresentava un’ottima moneta di scambio per Al Shabaab e, quindi, il gruppo terroristico aveva tutto l’interesse a trattarla bene. Ma basta conoscere la storia di questo gruppo per sapere di quali crimini è capace.
Questi cinque quesiti sono fondamentali per comprendere il percorso di Silvia, il cui volto pallido sembra nascondere un segreto che solo lei (e la Somalia) conoscono.
Rapimenti e riscatti, mille anni di storia da riscoprire
La vicenda di Silvia Romano è occasione per gettare luce su un fenomeno storico plurisecolare e oggi ignorato. La nascita - dopo secoli di rapimenti, uccisioni e conversioni forzate da parte dei musulmani - degli Ordini dei Trinitari e dei Mercedari. I cui membri si impegnavano a riscattare i prigionieri cristiani, o con la raccolta di elemosine o anche offrendosi di sostituirli. Il fine primario era preservare la fede degli ostaggi. Una storia ricca di episodi eroici, fino al martirio.
La vicenda di ostaggi italiani catturati da fondamentalisti musulmani continua a dominare l’interesse dell’opinione pubblica, e di riflesso le cronache, specialmente televisive, con punte critiche ricorrenti, come il caso di Silvia Romano. Sedici anni orsono suscitò scalpore e polemiche la vicenda delle due Simone, la romana Torretta e la riminese Pari. Si concluse il 5 ottobre 2004 con la loro visita di ringraziamento a Giovanni Paolo II. L’anno successivo suscitò grande interesse la liberazione della giornalista Giuliana Sgrena. Paradossalmente tra la persistente, e diffusa, ignoranza di un fenomeno storico secolare; ma sempre con il coinvolgimento pieno del potere politico.
Ha fatto il suo tempo il coinvolgimento religioso. Importantissimo sino agli albori dell’Ottocento, ebbe come grandi protagonisti due Ordini religiosi - onore e vanto della Chiesa cattolica - cioè gli Ordini dei Trinitari e dei Mercedari, fondati proprio per un’opera meravigliosa di carità - la liberazione degli ostaggi (secondo un calcolo attendibile, più di centomila) - arricchita dalla palma del martirio di tanti suoi membri. Mai però, prima d’ora, si era visto uno spiegamento di uomini, intelligenze, energie e denaro per il riscatto di un’italiana ostaggio dei musulmani che, una volta “liberata”, ha affermato di essersi convertita all’Islam, confermando questa sua decisione con un rigoroso abbigliamento per la cerimonia di accoglienza.
A questo punto non si capisce di che “liberazione” sia stata oggetto. Come musulmana, Silvia non aveva bisogno di essere riscattata, era titolare di diritti sanciti dalla Sharia e da secolari consuetudini sociali. Forse non le era consentito dai suoi rapitori di venire in Italia, ma i Servizi segreti, italiani e turchi, più quelli dell’inesistente Stato somalo, in mesi e mesi di trattative si presume fossero venuti (o dovessero essere giunti) a conoscenza della sua condizione. Cioè che non in una “liberazione” essi erano impegnati, quanto in un’impresa di sottrazione di una musulmana ad un’emergenza, ormai però ovvia in società islamiche che i fondamentalisti intendono sottomettere pienamente alle loro convinzioni religiose. Convinzioni che Silvia, convertendosi all’Islam, dovrebbe ben conoscere e, se non apprezzare, almeno accettare.
Quindi non si capisce perché abbia aderito al progetto di venire in Italia a spese dei suoi connazionali, su un aereo di Stato, con tutti gli onori e gli applausi riservati ad una “liberata”. Non si capisce nemmeno perché di questo non ne sapessero (o non fossero stati informati) il presidente del Consiglio e il ministro degli Esteri. E la pubblica opinione. Alla luce di quanto sopra l’aspetto e il quantum, sempre annebbiato, del “riscatto”, dovrà essere portato alla luce.
In attesa dunque degli attesi chiarimenti, dei Servizi segreti impegnati e della Magistratura, il caso di Silvia Romano offre l’occasione di evocare all’interessata e a tanti nostri connazionali come, per secoli, siano intercorsi i rapporti tra i musulmani del Mediterraneo e gli europei, in particolare gli italiani. Ricordando fra l’altro che i Mercedari, entrando nell’Ordine, aggiungevano ai tre voti di povertà, castità e ubbidienza quello “di sostituire con la loro persona i prigionieri in pericolo di rinnegare la fede”. E che, per consuetudine, chiedevano ai “redenti” di testimoniare ai benefattori “il buon impiego delle loro offerte”.
E se si ha desiderio di approfondire queste relazioni, c’è un’abbondanza di studi e libri storici, dalle ricostruzioni affascinanti oppure orripilanti (correlati a episodi di eroismo o di crudeltà), come l’eroica difesa di Famagosta (agosto 1571) di cui fu protagonista Marcantonio Bragadin, pagata con un inenarrabile martirio (fu addirittura scuoiato!) per aver egli disdegnato di convertirsi all’Islam. E a proposito di conversioni - tutte di cristiani deboli o malvagi - le pagine di storia ne sono rivelatrici di parecchie, tra le righe delle guerre tra Venezia e l’Impero ottomano. Fra le più evocate quella di un perfido uomo di mare di origini calabre, conosciuto col nuovo nome di Uluch Alì, che fu Bey di Algeri nonché uno dei tre ammiragli turchi nella famosa battaglia navale di Lepanto (7 ottobre 1571).
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TRINITARI E MERCEDARI, 600 ANNI DI “REDENZIONI” *
La cattura di ostaggi, la loro liberazione o la loro esecuzione da parte di musulmani non sono affatto un fenomeno nuovo per il mondo occidentale. Per secoli, e in particolare tra l’VIII e il XIV, ha dilagato nell’area mediterranea - protagoniste migliaia di persone - un fenomeno che ha riempito le cronache europee e che sembra oggi del tutto dimenticato. Allora furono delle istituzioni volontarie cristiane, e in particolare due Ordini religiosi, a prodigarsi per la liberazione degli ostaggi; sovente per la loro “redenzione” onde evitare che venissero ridotti in schiavitù, condizione alla quale potevano sfuggire se rinnegavano la propria fede.
Sullo sfondo una situazione di conflittualità. L’Europa medievale, costretta a una guerra permanente con il mondo islamico in espansione, dovette ricorrere alle armi per difendere le persone e i luoghi cristiani, la propria identità diremmo oggi. Il mar Mediterraneo era divenuto un lago musulmano. Nelle contese quotidiane, i mori o saraceni o turchi, come venivano chiamati i musulmani, saccheggiavano le terre dei cristiani depredando e facendo bottino di tutto quel che poteva loro rendere, e impadronendosi di uomini, donne, bambini che vendevano poi al miglior prezzo. Anche da parte cristiana venivano catturati dei musulmani, mai però ridotti alla schiavitù, essendo considerati soltanto prigionieri di guerra e come tali persone da scambiare in contropartita di altre da liberare.
Quale la sorte dei cristiani? Che farne? Gli ulema, i dotti religiosi islamici, proponevano di effettuare una preventiva distinzione tra ostaggi “deboli” e “combattenti”. Raccomandando che ai primi, secondo la prescrizione del primo califfo Abu Bakr, fosse risparmiata la vita, e nemmeno che si infierisse o li si torturasse; indicando quindi la scelta fra una loro liberazione (al-mann) senza contropartite (invero quasi mai seguita); il riscatto (al-fidà) e la schiavitù (al istirqaq). A coloro che erano stati catturati combattendo spettava l’esecuzione (al qatl); diversamente dovevano subire delle punizioni corporali prima di essere liberati al prezzo di un riscatto.
Questi precetti coranici venivano confermati dalla tradizione profetica, la Sunna (secondo la quale in alcune occasioni Maometto si era mostrato clemente, in altri aveva dato ordine di uccidere), e dalla giurisprudenza corrente che lasciava comunque all’imam la decisione. E, d’altra parte, la liberazione di prigionieri e ostaggi musulmani (al faqaq) veniva considerata un dovere religioso, da conseguire combattendo o attraverso lo scambio o il riscatto, e per questo attingendo alla tesoreria pubblica nel caso di un prigioniero non ricco abbastanza per potersi riscattare da sé.
Per fronteggiare una situazione complessa, vasta per proporzioni e dalle enormi implicazioni sociali, era emersa la necessità di ricorrere a mediazioni e mediatori, a livello di missioni diplomatiche in certe condizioni e occasioni, e comunque di persone di buona volontà, riconosciute tuttavia dalle autorità; ma soprattutto si era affermata l’esigenza sempre più avvertita di un impegno di carità cristiana, di un’opera di misericordia, specie per i più poveri e più deboli.
Così si spiega la nascita verso il 1193 del primo “ordine religioso redentore clericale”, quello
della Santissima Trinità, fondatore san Giovanni de Matha, un illustre docente nell’università di Parigi; e, nell’agosto 1218, di un altro “ordine religioso redentore”, questo però in origine laicale, dal titolo “della Vergine Maria della Mercede”, fondato dal commerciante spagnolo san Pietro Nolasco. Entrambi gli Ordini perpetuano ancor oggi la memoria di una testimonianza straordinaria di imprese di carità, testimoniata nell’arco di cinque secoli da decine (ma secondo altre fonti, alcune centinaia) di migliaia di “redenzioni” cui provvedevano raccogliendo in Europa, quasi sempre mendicando (e i Trinitari a dorso d’asino, essendo loro vietato di andare a cavallo) il denaro preteso per i riscatti; stabilendo nelle città musulmane delle basi operative; sovente con propri religiosi pronti a sostituire gli ostaggi in cattività; parecchi di essi affrontando il martirio.
Innumerevoli sono gli episodi di eroicità e di santità tramandati nella pratica della carità misericordiosa di questi due Ordini. I pericoli erano sempre in agguato per terra e per mare, innumerevoli le traversie nel Mediterraneo, maggiori le pene che i religiosi patirono dai musulmani “molte volte schiaffeggiati, lapidati, bastonati, feriti con la spada, coperti di sputi, trascinati per le strade e nel fango e preparati per il martirio”, come recita una cronaca dell’Ordine della Mercede.
Un’eco di tante violenze e tragedie sopravvive nella memoria popolare di tante città italiane, evocata sia nelle spettacolari “giostre del saracino”; così come nella diffusa esclamazione, divenuta proverbiale, “Mamma, li turchi!”. Le innumerevoli torri di avvistamento lungo le coste della penisola, come la costruzione di tanti borghi sulle creste di monti nelle valli attraversate da importanti fiumi, come il Tevere e l’Aniene, sono anch’esse testimonianza dell’allerta costante.
Un orrore simile a quello provocato dalle barbare esecuzioni degli ostaggi nella recente guerra nell’Iraq suscitano i resoconti delle uccisioni degli ostaggi di una volta. Vale ricordarne qualcuna. Il militare Serapio, santo, che lasciò il servizio del re di Castiglia per entrare nell’ordine di Nostra Signora della Mercede impegnandosi nella liberazione degli ostaggi negli anni tra il 1222 e il 1240, ebbe un’atroce morte, “inchiodato a una croce come quella di sant’Andrea e squartato crudelmente” per ordine del sultano di Algeri, Selim Berimenin, che si era ritenuto ingannato per il mancato arrivo della somma pattuita per il riscatto di alcuni cristiani. Somma che, frutto di una colletta di elemosine, purtroppo non era giunta in tempo.
San Pietro Pascual (o Pascasio), anch’egli mercedario, che era stato consacrato vescovo a Roma (nella cappella di san Bartolomeo all’isola Tiberina nel 1296) e che fu catturato mentre compiva la visita pastorale nella sua diocesi di Jaén e tenuto in ostaggio nel regno musulmano di Granada, ricevette più volte il prezzo del suo riscatto, ma preferì che altri riacquistassero la libertà al suo posto. Il 6 dicembre 1300 fu decapitato nella prigione “rivestito ancora dei paramenti che aveva usato per celebrare la Messa”.
Il nobile Pietro Armengol, dopo una giovinezza scapestrata, volle testimoniare la sua conversione di vita nell’Ordine mercedario impegnandosi nel riscatto degli ostaggi. Alla seconda missione, nel 1266, si offrì in pegno per alcuni cristiani divenuti schiavi, ma il denaro per il riscatto non giunse in tempo e fu quindi condannato a morte per impiccagione. Solo che rimase vivo appeso alla forca (aveva invocato la protezione della Madonna) e così lo trovò l’indomani fra Guglielmo da Firenze, latore del denaro pattuito. “Pietro Armengol restò con il collo storto per tutto il resto della sua vita”, fino alla santa morte nel 1304. E come santo viene oggi venerato.
E ancora san Raimondo Nonnato (soprannome datogli per esser nato grazie a un taglio cesareo sulla madre appena morta). In una missione di liberazione di ostaggi e schiavi ad Algeri “patì la perforazione delle labbra che gli vennero chiuse con un lucchetto di ferro per impedirgli di dirigere delle parole di conforto e di predicare la Parola di Dio”. Riscattato dai suoi confratelli, papa Gregorio IX lo nominò cardinale. La sua fama di santità, anche per un prodigio nel 1240, in occasione della traslazione della sua salma, si diffuse in tutta la cristianità.
L’ultima storica “redenzione” di cui sono stati protagonisti i Mercedari avvenne nel 1798: portò, dietro pagamento di un riscatto, alla liberazione nella città di Tunisi di 830 prigionieri catturati nell’isoletta sarda di Carloforte.
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Organizzando a Roma nel 1998 la principale manifestazione culturale dell’ottavo centenario della Regola della Congregazione dei Trinitari, padre Giulio Cipollone, storico di questo suo Ordine e illustre docente universitario, ha avuto una straordinaria percezione dei tempi d’oggi, proponendo la tematica, esplicitata nel titolo del congresso: “Oltre la Crociata e il Jihad, tolleranza e servizio umanitario”, stimolando così “una riflessione e una lettura comune… all’interno del mondo globale del monoteismo”. Riflessione di cui papa Innocenzo III era stato antesignano inviando la Regola che aveva approvato il 17 dicembre 1198 al capo della dinastia Almohade dei Berberi. Così compiendo, come ha sottolineato il cardinale Angelo Sodano, “una prima mossa di sapore internazionale in favore del servizio umanitario”. La Regola poi, in occasione del congresso, è stata tradotta in arabo come “gesto di apertura per una novità di relazione tra i credenti monoteisti e nell’auspicio di uno scambio di testi di pace”.
I due Ordini hanno nel tempo modificato le loro Costituzioni, impegnandosi nella lotta di nuove forme di schiavitù. Purtroppo resiste tuttora, ha notato padre Cipollone, “un disuguale sforzo operativo concreto per l’opera della redenzione tra i diversi mondi religiosi” e continua a notarsi nell’Islam “l’assenza di una organizzazione a carattere internazionale per il servizio umanitario”.
*Sintesi di uno studio del 2004, compiuto dall’autore di questo articolo all’epoca della «liberazione delle due Simone»
Graziano Motta
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