ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

sabato 16 maggio 2020

Tavolo autoptico

Verso la strutturazione di uno stato totalitario. 


Conte 2

Tavolo di Lavoro sul dopo-coronavirus
Da reclusi agli arresti domiciliari a sorvegliati speciali
Verso la strutturazione di uno stato totalitario

di Pier Luigi Bianchi Cagliesi
L’emergenza coronavirus ha fatto emergere una lunga serie di contraddizioni che giacevano sotto traccia, seppellite dall’ottimismo imperante.

Abbiamo vissuto in questi mesi una gestione dell’emergenza che un giorno sarà oggetto di di analisi approfondite perché all’ombra della fase di emergenza è stato avviato un laboratorio vero e proprio per la trasformazione del Paese, con l’ausilio di cosiddetti esperti e tecnici che Mons. Viganò ha definito:” persone senza nome e senza volto che possono decidere le sorti del mondo”.

Al momento presente, ammesso che si possa parlare di dopo-coronavirus, l’immediata sensazione che si fa strada è la trasformazione in atto della cosiddetta post emergenza in gestione stabile di una emergenza che dovrebbe diventare permanente. Vorrei uscire da dibattiti e analisi spesso teoriche per accompagnare sentimenti e riflessioni del Paese reale. Mi riferisco ai 60 milioni di italiani, che da un giorno all’altro sono stati reclusi nelle loro case, ma che a oltre due mesi di “arresti domiciliari”, hanno iniziato ad uscire dallo stato confusionale iniziale, quasi surreale, per cercare di capire cosa stia realmente accadendo.

La fine della fase 1, come stiamo constatando, non solo prosegue l’itinerario già avviato nella progressiva limitazione delle libertà individuali, ma lascia anche intravedere sempre più chiaramente scenari molto preoccupanti sul versante economico. La fase 2, sarà quella del terremoto economico e finanziario e delle misure per il contenimento e la prevenzione del virus, utilizzando strumenti per il controllo globale della popolazione, con ulteriori restrizioni alle già ridotte libertà individuali: da reclusi agli arresti domiciliari a sorvegliati speciali. L’aspetto del controllo globale e della restrizione delle libertà individuali, costituisce la deriva più preoccupante di tutto il processo in corso e una pericolosa avvisaglia di un progetto di governo mondialista che l’Arcivescovo Schneider ha definito una dittatura bio-sanitaria o psico-sanitaria. Lo stesso Arcivescovo, Mons. Carlo Maria Viganò, nel coraggioso e lucidissimo appello pubblicato l’8 Maggio 2020 [LEGGI QUI], ha fatto riferimento esplicito a “subdole forme di dittatura, presumibilmente peggiori di quelle che la nostra società ha visto nascere e morire nel recente passato”, e ad una ”odiosa tirannide tecnologica in cui persone senza nome e senza volto possono decidere le sorti del mondo, confinandoci ad una realtà virtuale. Queste modalità di imposizione illiberali, preludono in modo inquietante alla realizzazione di un Governo Mondiale fuori da ogni controllo”.

C’è un confine invalicabile e una linea rossa che delimita il limite estremo oltre il quale si rischia di precipitare in un regime totalitario. Vale la pena ricordare che la fine della certezza del diritto e l’inizio della repressione vera e propria, tanto nel regime nazista come in quello comunista, passava per una apparente confusione normativa che lasciava ai regimi la possibilità di interpretare liberamente norme strumentalizzabili, sempre a danno dei cittadini, aprendo la strada alla repressione e alla persecuzione vera e propria. Su questo aspetto sarebbe necessario sollevare un dibattito ed evidenziare come l’attuale deriva in corso, se sottovalutata e non contrastata efficacemente potrebbe favorire il veloce passaggio verso uno stato totalitario. Gruppi e associazioni che fino ad oggi hanno lottato coraggiosamente per la difesa dei valori non negoziabili, potrebbero veder vanificare ogni futura azione o iniziativa, se questa meccanismo repressivo dovesse strutturarsi nel nostro Paese.

Gli italiani cominciano a prendere coscienza di quanto sta accadendo e non si sentono più tutelati nei loro elementari diritti né dal governo né da una classe politica che in nome dell’emergenza ci sta abituando a procedure e modalità in aperta violazione dei dettami costituzionali, anche a causa di una latitanza delle forze politiche di opposizione che su alcuni aspetti determinanti sembrano in molti casi sempre più appiattite se non allineate al pensiero dominante e politicamente corretto. Una strana e ambigua latitanza nei confronti di una popolazione che avverte ogni giorno di più una diffusa sensazione di abbandono.

Non è un problema da poco e occorre aumentare l’attenzione e la sensibilità su questo passaggio decisivo, già in fase di realizzazione, che ci sta conducendo verso la perdita progressiva delle nostre libertà individuali. Occorre svegliarsi prima che sia troppo tardi.

[Sullo stesso argomento vedi anche l’articolo del prof. Giovanni Turco: LEGGI QUI ]


SU AVVENIRE
Appello al centralismo sanitario, la rinuncia cattolica

Il ritorno al centralismo statale nel campo della sanità sembra poco fondato e piuttosto pericoloso. L’Appello degli intellettuali cattolici a ricentrare tutto nello Stato nasconde la rinuncia a voler far qualcosa in proprio e accetta definitivamente la tesi secondo cui i cattolici entrano alla chetichella nelle strutture statali, ma non possono crearne di alternative. Bisogna invece creare spazi di libertà dal basso in cui anche i cattolici possano inserirsi con proprie iniziative.

Un gruppo di intellettuali per lo più cattolici ha lanciato un Appello, pubblicato da Avvenire mercoledì 13 maggio per un pieno ritorno della sanità nelle mani dello Stato centrale. L’Appello – “Ora un’altra sanità per il bene del Paese” - è molto chiaro nella stringatezza delle sue asserzioni: serve la “riscoperta del ruolo dello Stato nella gestione della sanità”; i servizi sanitari “necessitano di restare affidati alla mano pubblica”, “serve una sanità pubblica sempre più forte”. Alla base dell’Appello la convinzione che nell’emergenza coronavirus è toccato soprattutto alla sanità pubblica intervenire e lo ha fatto anche eroicamente, che il rapporto tra Stato e regioni in questo campo è di confusone, che ad alcune regioni è stato concesso di esternare al privato servizi sanitari di qualità (“liberismo istituzionale”).

Il ritorno al centralismo statale sembra poco fondato e piuttosto pericoloso. È vero che medici e infermieri degli ospedali pubblici hanno dato il meglio in questa emergenza, ma il merito è loro, delle persone, non della sanità pubblica che li ha spesso abbandonati a se stessi in prima linea. Gli operatori sono stati eroici, ma non grazie bensì nonostante l’assetto della sanità pubblica.  Si possono attribuire anche alle regioni delle incertezze durante la fase acuta della pandemia, ma cosa si dovrebbe dire del governo centrale? Esso ha dimostrato una allarmante incompetenza, arrivando sempre in ritardo, dotandosi di pletorici gruppi di esperti, nominando commissari dalle prestazioni scadenti, scrivendo e riscrivendo disposizioni cervellotiche, facendo promesse mai mantenute, aumentando a dismisura divieti spesso inutili, affidandosi ad esperti dalla dubbia attendibilità, istituendo una specie di Stato di polizia e alla fine partorendo, nei litigi da retrobottega, un decreto dalla improbabile rinascita. Tutti gli osservatori evidenziano come sulla strada dell’emergenza sanitaria si sia in procinto di costruire forme di controllo autoritario che riguardano la libertà di espressione, di religione, di movimento, di vaccinazione e tuttavia si vuole riaccentrare la sanità nello Stato.

Quanto ai cosiddetti “privati” è perfettamente logico che l’urto non potesse essere portato sulle loro spalle, però gli ospedali fatti costruire in fretta a Milano e nelle Marche sono stati completamente finanziati dai privati e costruiti aggirando le procedure previste dallo Stato centrale, altrimenti sarebbero ancora di là da venire. Senza contare che ospedali pubblici in prima linea hanno ricevuto notevoli donazioni da parte di grandi società private e l’aiuto di molti cittadini volontari (volontari veri, non le ONG). Non risulta quindi comprensibile, alla luce di queste realistiche constatazioni, l’appello a rimettere tutto nelle mani della burocrazia romana. Politicamente parlando, tra l’altro, ciò vorrebbe dire metterlo nelle mani di governi o tecnici o di serie B, comunque non eletti e quindi non rappresentativi del Paese vero e reale, come purtroppo è ormai da molti anni.

L’appello si scontra poi con un altro grande pericolo presente nella sanità oggi, che non è tutta e solo Covid-19. Durante l’emergenza il sistema sanitario ha continuato a procurare gli aborti in base alle leggi vigenti. Nella sanità rientra anche tutto il settore della negazione della vita: eutanasia, suicidio assistito e distruzione di embrioni umani. Vogliamo lasciare tutto ciò nelle mani del ministro Speranza? Vogliamo impedire sacche di libertà, sempre più ridotte del resto, per il servizio vero alla vita? Stiamo tutti temendo il momento in cui lo Stato vieterà l’obiezione di coscienza in questi campi decisivi e l’Appello in questione vuole rimettere tutto proprio nelle mani di questo Stato: si potrebbe chiamarlo autolesionismo in generale e autolesionismo cattolico in particolare. Si potrebbe anche chiamare collaborazionismo.

Sarebbe meglio puntare su almeno un minimo di sussidiarietà, che desse la possibilità non solo ai territori ma soprattutto alle iniziative degli stessi cattolici in campo sanitario. C’era un tempo, non molto lontano, in cui anche i cattolici costruivano propri ospedali. Il centralismo sanitario nello Stato lo impedirebbe o imporrebbe l’adozione di linee operative moralmente inaccettabili, come ha dimostrato di recente il caso del Campus Biomedico di Roma.

L’Appello a ricentrare tutto nello Stato nasconde la rinuncia a voler far qualcosa in proprio e accetta definitivamente la tesi secondo cui i cattolici entrano alla chetichella nelle strutture statali ma non possono crearne di alternative. Possiamo lubrificare la macchina ma non farla andare da un’altra parte. Bisogna invece creare spazi di libertà dal basso in cui anche i cattolici possano inserirsi con proprie iniziative, quelle iniziative che solo loro possono fare.

Stefano Fontana


DECRETO RILANCIO
Zero risorse dal governo, la notte dei movimenti pro-family

Delusione delle associazioni pro-family per il Decreto Rilancio che ignora totalmente i bisogni delle famiglie. Ma l'associazione Family Day minaccia le manifestazioni di piazza mentre il Forum della Famiglia (Cei) mantiene il dialogo con il governo. Segno che nel mondo pro family prevalgono le opzioni politiche sul bene della famiglia. Ma c'è un motivo più profondo che spiega l'inefficacia delle associazioni familiari: agiscono come se in questi 50-60 anni non fosse cambiata completamente la cultura e la stessa percezione di cosa sia la famiglia. E senza neanche rendersene conto assumono la stessa mentalità del mondo.

Urla e strepiti, da destra e da sinistra. Il Decreto Rilancio, varato l’altro giorno, non prevede nulla per la famiglia. S’indigna Massimo Gandolfini, presidente dell’Associazione Family Day, politicamente vicino all’opposizione; ma si straccia le vesti anche Gigi De Palo, presidente del Forum delle Associazioni familiari, espressione della Conferenza episcopale (Cei), che ha sempre flirtato con questo governo.

Nessuna delle richieste fatte, dall’uno e dall’altro, è entrata nel decreto del governo. Le richieste peraltro andavano nella stessa direzione, con due pilastri fondamentali: assegno mensile per ogni figlio, congedi parentali straordinari; più aiuti vari per le spese legate alla sospensione della scuola. 

E quindi la profonda delusione è palpabile e più che giustificata, ma con una differenza: mentre in Gandolfini sfocia in rabbia, che lo spinge ad evocare una necessaria manifestazione di piazza (se e quando le condizioni lo permetteranno), in De Palo quella stessa delusione si stinge in amarezza, ulteriormente stemperata dal giudizio di Avvenire (il cui editore è anche il datore di lavoro di De Palo), per cui le mancanze del governo riguardano appena la proporzionalità degli aiuti ai componenti familiari. Insomma, uno spara una cannonata e l'altro dà un buffetto. Ieri peraltro nel condurre l’incontro in streaming organizzato dal Forum in occasione della Giornata Internazionale della Famiglia, De Palo ha ripetuto innumerevoli volte che quella non era l'occasione per fare polemica, sebbene fosse lì presente il ministro della Famiglia, a cui è stato quindi permesso di svicolare dal tema.

Qui troviamo subito una prima risposta al perché della sostanziale inefficacia del movimento pro-family: c’è una opzione politica che prevale sul bene della famiglia. Se lo stesso risultato si fosse ottenuto con un governo di segno opposto, avremmo certamente visto invertirsi le parti di Forum Famiglie e Associazione Family Day, come in effetti è avvenuto in occasione della Finanziaria varata dal governo Lega-5Stelle.

Certo, il centro-destra è almeno idealmente più sensibile al tema della famiglia; certo nella Finanziaria approvata da un governo in cui il ministro della Famiglia era leghista si raccolsero almeno delle briciole invece che il niente attuale. Ma resta il fatto che se non si pone con serietà il tema della famiglia, con realismo e senza farsi illusioni, a prescindere da chi sia l’interlocutore, non si può avere credibilità né forza contrattuale.
Peraltro porre con serietà il tema della famiglia significa anche uscire dalla semplice logica sindacale che porta a rivendicare dei miglioramenti sulla base della forza dei numeri (siamo in tanti, senza di noi il paese non va avanti, quindi ci dovete dare quello che chiediamo). Per carità, è vero che anche i numeri sono importanti, ma la questione famiglia riguarda la società nel suo insieme, è una questione ontologica prima che giuridica ed economica.

Ed è qui che troviamo una seconda e più profonda ragione dell’inefficacia del movimento pro family. Si ragiona come fossimo ancora fermi a 60 anni fa, ma la cultura oggi è profondamente cambiata insieme alla concezione della famiglia; anzi, oggi nessuno più comprende il termine famiglia e cosa significhi per una società. Per questo i governi, davanti alle tante necessità che una situazione di crisi pone, pensano a tutto meno che alla famiglia in sé: finanziano i monopattini (è la conversione ecologica, bellezza) ma non pensano alla necessità del rapporto tra genitori e bambini.

Pensiamo semplicemente una cosa: se oggi dovessimo riscrivere la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo (1948), sicuramente non vi troverebbe posto l’articolo 16, ormai incomprensibile all’uomo d’oggi. Qui si riconosce che «la famiglia è il nucleo naturale e fondamentale della società» e per famiglia si intende esplicitamente quella fondata sul matrimonio tra un uomo e una donna. Sulla stessa lunghezza d’onda è anche la Costituzione italiana, anch’essa entrata in vigore nel 1948.

Tralasciando in questa sede la questione del matrimonio, chi oggi sarebbe in grado di comprendere e spiegare il concetto di famiglia come cellula fondamentale della società? Veniamo da decenni di propaganda martellante – fortemente spinta anche attraverso le agenzie dell’ONU – che ci ha convinti che la cellula fondamentale della società sia l’individuo e non la famiglia; e che anzi la famiglia sia la prima minaccia alla libertà e alla sicurezza della persona. Su questo si sono costruite tutte le politiche globali, su questo si è modellata anche la legislazione italiana. Le unioni esistono in quanto contratti privati tra individui, incluso il matrimonio. 

E il termine famiglia indica ormai qualsiasi tipo di unione, tale che il rapporto tra matrimonio e famiglia è ormai incomprensibile. Oggi, in Italia e non solo, se si osa affermare che la famiglia è solo quella fondata sul matrimonio tra un uomo e una donna si corre il rischio della denuncia, ma si è certi di essere messi alla gogna ed emarginati. Prima ancora, si è considerati dei marziani.

Del resto nel corso degli anni si sono approvate molte leggi che, una dopo l’altra, hanno profondamente cambiato il diritto familiare e soprattutto la percezione di cosa sia la famiglia. Nella pratica già da tempo non esiste più una differenza di trattamento tra la famiglia naturale e qualsiasi altro tipo di nucleo; con la legge Cirinnà (2016) poi, che ha legittimato le unioni tra persone dello stesso sesso, si è compiuto il passo decisivo per il capovolgimento del concetto di famiglia.

Al punto che oggi parlare di politiche familiari – come le abbiamo sempre intese, riferite alle famiglie naturali e aperte alla procreazione – non ha più senso. Quando tutto è famiglia, niente lo è più. Lo avevamo scritto chiaramente già al tempo della legge Cirinnà (clicca qui) e oggi è ancora più vero. Per quali famiglie De Palo e Gandolfini chiedono un intervento dello Stato? Inevitabilmente ciò che un Parlamento decidesse in materia di politica familiare sarebbe rivolto indistintamente a tutti e non solo alle famiglie naturali. Se davvero i movimenti pro-family lottassero per la famiglia come è descritta nella Costituzione e nella Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo, dovrebbero specificare bene, perché parlerebbero un linguaggio che la nostra cultura, prima che la politica, non comprende più, anzi lo troverebbero fortemente discriminatorio.

Eppure non c’è altra strada se non quella della chiarezza, richiamando costantemente la verità sull’uomo e sulla famiglia. Se non si ritorna all’origine, ogni discorso sulla famiglia diventa incomprensibile. Qualsiasi altra strada può sembrare una strategia intelligente per mantenere il dialogo con il mondo, ma in realtà – come vediamo dall’attualità – è sterile dal punto di vista politico e un suicidio dal punto di vista culturale. Perché lungi dall’influenzare la società, sono proprio i movimenti pro-family e la stessa Chiesa ad assumere la mentalità del mondo, anche inconsciamente.

Una esempio? Ieri all’incontro del Forum per la Giornata Internazionale della Famiglia è intervenuto anche il presidente della Cei, cardinale Gualtiero Bassetti: solito discorso sull’importanza della famiglia, ma richiamando più volte al fatto che in Italia ci sono 26 milioni di famiglie. Stesso numero citato dal presidente del Forum, De Palo, nella lettera inviata lo scorso 30 aprile al presidente del Consiglio Giuseppe Conte in cui fa le richieste in vista del Decreto Rilancio. Ventisei milioni di famiglie? Su 60 milioni di abitanti? Non vi sembra una cifra strana se pensiamo alla composizione di una famiglia naturale? Infatti lo è: perché 26 milioni (anzi 25.7 per l’esattezza) corrisponde alla definizione di famiglia assunta dall’Istat per le statistiche nazionali, ovvero: «Un insieme di persone legate da vincoli di matrimonio, parentela, affinità, adozione, tutela, o da vincoli affettivi, coabitanti e aventi dimora abituale nello stesso comune. Una famiglia può essere costituita anche da una sola persona».

Quindi in Italia ci sono 8.5 milioni di famiglie unipersonali e 17.2 milioni di nuclei con almeno due persone. Le famiglie naturali sono in realtà intorno ai 12 milioni, di cui un terzo non hanno figli. Fa dunque una bella differenza dividere una cifra X – ammesso che sia disponibile - tra 12 o 26 milioni di famiglie; destinare una cifra al nucleo fondamentale della società, quel nucleo senza il quale una società muore, o dare indistintamente a tutti.
Chiesa e associazioni familiari dovrebbero rifletterci.

Riccardo Cascioli

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