Mi autodenuncio. Ho partecipato ad una messa dove non abbiamo rispettato la distanza sociale, non avevamo la mascherina, non c’erano guanti . Di aria fresca ne arrivava però in abbondanza, e sono ragionevolmente certo che fossimo più vicino al cielo di chiunque nel raggio di chilometri. Fisicamente, quantomeno. C’è chi sosteneva che sopra i duemila d’altitudine si può; è lì eravamo trecento metri più in alto.
Certo, l’altare era un po’ precario. Quando sei su un crinale lungo dieci metri e largo tre, e sotto c’è solo nebbia, non vai per il sottile. Usi quello che trovi. Posso però affermare con una certa sicurezza che in quanto a fede e rispetto battevamo di gran lunga certe stanche celebrazioni a cui ho assistito in passato. Eravamo pochi ma, se non buoni, quantomeno desiderosi di ciò che lo è.
Il Gesù bambino che ci guardava dall’edicoletta fatta di pietre grosse era decapitato, e sua madre senza braccia. Non so se sia stato qualche iconoclasta che li trovava troppo bianchi per i suoi gusti o semplicemente le intemperie. Qualcuno aveva però anche portato a quella madonnina monca dei fiori, e farli arrivare in buono stato dopo tre ore e passa di cammino non è impresa banale. Le statue sono solo segni; come quei fiori, indicano una presenza.
Forse, in un futuro, tutte le messe saranno così: semiclandestine, lontane da occhi indiscreti, là dove il segnale non arriva. Anche se le chiese svuotate dall’interno e dall’esterno saranno abbandonate, ci sarà sempre una pietra che potrà fare da altare. Se ci saranno mani che spezzano il pane, che versano il vino.
Pubblicato da Berlicche
https://berlicche.wordpress.com/2020/06/25/la-messa-alta/
L’essenziale è invisibile, indicibile, ineffabile. Ci manca la sua conoscenza e "coscienza" vale a dire che viviamo senza renderci conto di cosa è essenziale e di cosa non lo è, e quindi sprofondati nella più competa confusione
COSA E' L'ESSENZIALE?
di Francesco Lamendola
L’essenziale è invisibile, indicibile, ineffabile
La nostra vita di figli della civiltà moderna è piena di cose superflue, di abitudini superflue e di obiettivi sbagliati e fuorvianti. Ma che cosa è essenziale? E perché, una volta che lo si è riconosciuto, diventa importantissimo puntare verso di esso? Sappiamo tante cose, o almeno crediamo di saperle; di certo vengono stipate nella nostra mente molte nozioni, e parecchie altre ci entrano quasi da sole, veicolate dalla tecnologia informatica, oltre che dalla televisione e dai giornali; ci manca, però, la conoscenza dell’essenziale. E non solo la conoscenza: ci manca la coscienza dell’essenziale; vale a dire che viviamo senza renderci conto di cosa è essenziale e di cosa non lo è, e quindi sprofondati nella più competa confusione. Siamo simili a dei mercanti di pietre preziose tanto sciocchi quanto incompetenti: poiché non le sappiamo riconoscere, raccogliamo tutto, immagazziniamo tutto, dedichiamo il nostro tempo e le nostre energie a fare scorta di tutto quel che potrebbe avere un valore, ma si tratta perlopiù di pietre false, di autentiche patacche; forse, nel mucchio, c’è anche qualche autentica pietra preziosa, però sommersa da quintali di merce inutile, e quindi è passata del tutto inosservata. Così facciamo noi: corriamo dietro a cose senza valore, ci affanniamo a collezionare cose inutili, false, e intanto i nostri giorni corrono via e noi siamo sempre immersi nel buio dell’ignoranza.
L’essenziale è invisibile, indicibile, ineffabile . . Non è l’uomo che conquista la Verità, ma la Verità che conquista l’uomo, allorché questi si pone nella giusta relazione con Dio, aprendosi al suo mistero e lasciandosi illuminare dalla sua luce!
L’essenziale, infatti, è invisibile agli occhi del corpo: non lo si può vedere, non lo si può raffigurare, non lo si può descrivere. Questa è la grandezza e la miseria dell’arte: essa tenta di mostrarci l’essenziale, ma quel che si può mostrare non è mai l’essenziale, al massimo è una sua discreta imitazione. È grande l’artista che ci fa coscienti di questa mancanza, di questa nostalgia; e che attraverso le cose concrete, le linee, le forme, i colori, ci punge il cuore con il desiderio struggente di quel che non ha potuto mostrarci, ma a cui ha potuto solamente alludere. Una scultura, un quadro, un edificio architettonicamente perfetto, ci indicano la strada da percorrere: sono come il dito che indica la luna; non bisogna scambiarli per l’oggetto di cui siamo alla ricerca. La musica, fra tutte le arti, occupa il posto più alto e più perfetto: non si serve di segni materiali, ma di onde acustiche, di pure melodie, incorporee, senza spessore, senza colore, senza odore: è sorella gemella della matematica, e come la matematica ci fa misurare la sublime perfezione cui può giungere l’anima umana nel suo slancio verso Dio. L’arte della fuga di Bach, per esempio, ci mostra il limite estremo a cui può arrivare lo sforzo umano di spingersi verso l’essenziale: e in quello sforzo, che è tanto più perfetto quanto meno ha l’apparenza di uno sforzo, risiede il suo valore immenso: non per quello che dice, bensì, paradossalmente, per quello che non può arrivare a dire, perché nessun mezzo umano può darci anche solo una vaga idea dell’assoluto. Ora, l’essenziale è appunto l’assoluto: quando si sono tolte e lasciate cadere, come inutili veli, tutte le cose superflue, ciò che resta è l’essenziale, e l’essenziale è l’assoluto.
Solo la buona filosofia è capace di introdurci alla conoscenza dell’essenziale. Essa, però, non è ancora l’essenziale; come nel caso della vera arte, la vera filosofia ci può indicare la strada, ma non ci può condurre, da sé sola, fino alla meta. La meta è l’assoluto, e l’assoluto trascende le possibilità della ragione umana!
La stessa funzione è svolta dalla filosofia, e anch’essa soffre, nel proprio ambito, dello stesso limite intrinseco. C’è una buona filosofia e una cattiva filosofia: buona è quella che punta all’essenziale, secondo le leggi della ragione naturale e in sostanziale accordo con il senso comune, o almeno non in aperto contrasto con esso; cattiva è quella che vuole imporre una visione del mondo che contrasta col principio di realtà e che vorrebbe ingabbiare l’uomo in una prigione vera e propria, qualunque sia il nome che si decida di darle, la prigione dell’immanenza. Immanenza e assoluto sono inconciliabili: finché si rimane sul terreno dell’immanenza, non si giungerà mai neppure a intravedere un raggio di luce dell’assoluto. Ne deriva che la cattiva filosofia è superflua, e solo la buona filosofia è capace di introdurci alla conoscenza dell’essenziale. Essa, però, non è ancora l’essenziale; come nel caso della vera arte, la vera filosofia ci può indicare la strada, ma non ci può condurre, da sé sola, fino alla meta. La meta è l’assoluto, e l’assoluto trascende le possibilità della ragione umana, così come trascende le possibilità dell’umana espressione. Il filosofo non può dire cosa è essenziale, può solo alludervi, come il vero artista può metterci nel cuore il pungolo della nostalgia, ma non può mostrarci direttamente ciò che è essenziale. Ciò che è essenziale non si può rappresentare visibilmente e neppure lo si può spiegare, sino alla causa prima, con lo strumento della ragione naturale. Lo si può solo sperimentare, come fa il mistico, il quale non ha bisogno di rappresentarlo, né di spiegarlo, per il semplice fatto che lo vive e lo vive con piena consapevolezza, sia pure in alcuni momenti privilegiati, nei quali ha la beatitudine di proiettarsi fuori dalle catene dello spazio e del tempo.
Dell'essenziale ci manca la conoscenza e "coscienza" vale a dire che viviamo senza renderci conto di cosa è essenziale e di cosa non lo è, e quindi sprofondati nella più competa confusione!
Quando diciamo che l’arte e la filosofia, ciascuna per le sue vie, ci mettono in cuore la nostalgia dell’essenziale, non intendiamo affatto dire che la inventano. La nostalgia c’è già, perché fa parte del nostro statuto ontologico; ma può succedere, e di fatto accade alla maggior parte degli esseri umani, che se ne smarrisca la coscienza. E così come all’anziano può accadere di essere disidratato, ma di non avvertire lo stimolo della sete, così a molti uomini adulti accade di non avvertire la nostalgia dell’essenziale, benché da bambini ne avessero l’immediata percezione: la percezione, si badi, e non la consapevolezza, che è cosa assai diversa. La consapevolezza è il frutto di una riflessione e perciò di una conquista dello spirito; ma quale conquista potrà mai fare l’anima nel contesto del mondo moderno, basato sulle apparenze e sul superfluo, e metodicamente impegnato a smarrire e far smarrire il senso di ciò che è essenziale? In fondo, il paradigma della modernità nasce e si afferma per questo scopo, con questo preciso obiettivo: far dimenticare agli uomini la coscienza dell’assoluto; tenerli lontani dall’essenziale, così come il cane idrofobo si tiene lontano dall’acqua, benché sia divorato da una sete atroce. E tale è, a proposito di ciò che è essenziale e di ciò che è secondario, l’essenza diabolica della civiltà moderna: un deliberato progetto di oblio dell’essere e di sacralizzazione dell’effimero, del superfluo, dell’impermanente, allo scopo deliberato di allontanare quanto più possibile gli uomini da Dio. Arte e filosofia, quando sono vere, aiutano l’uomo a riscoprire, in se stesso, quel bisogno e quella nostalgia; a divenire consapevole che non si può vivere dell’effimero e del transeunte, perché la vita è una cosa terribilmente seria, e la serietà ha bisogno di appagarsi con ciò che è essenziale e non con ciò che è fronzolo o, peggio, inganno e trabocchetto. Tutto il mondo moderno è un gigantesco inganno e un unico trabocchetto per condurre gli uomini fuori dalla retta via, per farli smarrire nella foresta dell’errore e dell’illusione, e per spingerli verso l’angoscia, la disperazione e la morte. Angoscia, disperazione e morte sono, infatti, l’inevitabile approdo di un’anima che non trovi risposta alla domanda di ciò che è essenziale, e che si veda privata, quando non anche sbeffeggiata e derisa, nel suo bisogno di assoluto. Infatti il bisogno di assoluto non è un qualcosa di cui si possa anche fare a meno; è, al contrario, un elemento costitutivo della struttura ontologica dell’essere umano. Se egli viene costretto a farne a meno, se quel bisogno in lui viene amputato, per così dire, nelle profondità dell’anima sua, senza aver potuto esprimersi, né trovare un riconoscimento, sia pure parziale, al suo diritto d’esistere, l’uomo impazzisce.
La vita è una cosa terribilmente seria, e la serietà ha bisogno di appagarsi con ciò che è essenziale e non con ciò che è fronzolo o, peggio, inganno e trabocchetto!
La vera arte e la sana filosofia, dunque, possono indicare la via, ma non condurre alla meta: l’una perché non può mostrare adeguatamente ciò che è invisibile, l’altra perché non può spiegare sino in fondo ciò che è inesprimibile. Chi dunque potrà condurre l’uomo fino all’essenziale: forse la religione? Non del tutto, nemmeno essa; anche la religione deve fermarsi sulla soglia. La religione insegna la dottrina, spiega la Rivelazione, predispone e conduce le anime a farsi seguaci del Buon Pastore; neppure in essa, però, si trovano le massime risposte; nemmeno in essa l’anima si appaga completamente, ma piuttosto si deve accontentare di una primizia, di una caparra della Verità ultima, del pieno possesso dell’assoluto. Per fare un altro tratto di strada in direzione dell’essenziale è necessaria la fede: la fede che è simile al bastone del pellegrino e che aiuta ciascun essere umano, indipendentemente dai suoi trascorsi, dal suo sapere, dalla sua intelligenza, a giungere ancor più vicino alla meta finale. Naturalmente, la fede non può essere una fede qualunque, rivolta verso un oggetto qualsiasi; deve essere la fede nel Vero, e quindi presuppone la religione: non una religione qualunque, non il culto di Pachamama o quello del Diavolo, ma la fede nel solo Dio vero, quella in Colui che venne ad insegnare l’amore, e che di sé stesso disse; Io sono la via, la verità e la vita; chi ha visto me, ha visto il Padre. Così, la fede senza la vera religione diventa superstizione, ma anche la vera religione senza la fede diventa falsità e ipocrisia. L’uomo, per giungere all’essenziale, ha bisogno di entrambe: come quel pellegrino russo che partiva alla riscoperta dell’essenziale, con un fagottino contenente solo pochi effetti personali e una Bibbia da leggere e meditare ogni giorno, affidandosi per tutto il resto alla generosità del prossimo e alla sollecitudine sapiente della divina Provvidenza. L’essenziale, per l’uomo, è Mistero: egli non può arrivarci da solo, con le sue forze. Al centro della Rivelazione cristiana ci sono due misteri abissali: quello dell’Unità e Trinità di Dio, e quello dell’Incarnazione, Morte e Resurrezione del Figlio. Li si può accettare per fede, non spiegare con la ragione.
La musica, fra tutte le arti, occupa il posto più alto e più perfetto: non si serve di segni materiali, ma di onde acustiche, di pure melodie, incorporee, senza spessore, senza colore, senza odore: è sorella gemella della matematica, e come la matematica ci fa misurare la sublime perfezione cui può giungere l’anima umana nel suo slancio verso Dio!
L’essenziale non è solamente invisibile e indicibile, è anche ineffabile, nel senso che non può essere detto perché non deve essere detto, in quanto è il Sacro per eccellenza, così come lo era il nome di Dio per il popolo ebreo. Chi infatti può presumere di dire con parole umane ciò che non appartiene al mondo delle parole, perché è la Parola stessa, il Verbo, nel senso giovanneo del termine: in principio era il Verbo; e il Verbo era presso Dio, e il Verbo era Dio? Ammettiamo, per pura ipotesi, che esistano le parole per esprimere l’assoluto: in tal caso nemmeno quelle parole sarebbero adeguate, neppure esse sarebbero sufficienti a darne una nozione veritiera, perché, nell’atto di dirle, esse risuonerebbero così come risuonano tutte le parole dell’uomo, all’interno di un universo mentale e concettuale puramente umano, e quindi tradirebbero automaticamente la finalità di esprimere l’inesprimibile. Questo è un concetto che l’uomo moderno ha pressoché dimenticato, perché lo ha letteralmente cancellato e rimosso dal proprio orizzonte coscienziale: abbagliato dai successi spettacolari, ma esteriori (nel senso che non mutano in nulla la sua natura profonda) della sua ragione strumentale e calcolante, si è persuaso che qualunque formula può essere espressa in termini logico-matematici, dalla natura dell’energia all’origine dell’universo. Tuttavia l’essenziale supremo, l’assoluto, non può essere tradotto in formule, per la stessa ragione che rende impossibile trasferire l’acqua del mare in una buca scavata sulla spiaggia: il contenitore non può accogliere ciò che lo supera incommensurabilmente sia per natura che per estensione, ma soltanto ciò che è più piccolo di lui, e che appartiene alla sua stessa natura. Pertanto l’essenziale è inesprimibile perché le parole umane fanno parte della realtà che può essere espressa; mentre di fronte alla realtà che non appartiene alla dimensione dell’immanenza, il solo atteggiamento possibile è quello dell’umiltà e della riverenza di fronte al Mistero. L’uomo potrebbe esprimere l’essenziale solo alla condizione di avere interamente trasceso la propria natura umana: ma allora l’uomo non sarebbe più solamente uomo, sarebbe puro spirito.
Io sono la via, la verità e la vita; chi ha visto me, ha visto il Padre. Così, la fede senza la vera religione diventa superstizione, ma anche la vera religione senza la fede diventa falsità e ipocrisia!
L’uomo, al contrario, nella sua vita terrena, non è un puro spirito, ma è unione di anima e di corpo: pertanto è un essere anfibio, che partecipa sia alla dimensione carnale, sia alla dimensione spirituale. Per il primo aspetto, egli è una creatura di questo mondo, legata alla terra e immersa nell’immanenza, con tutte le sue paure e le sue brame; per il secondo, è proiettato un poco oltre se stesso, oltre i suoi bisogni e i suoi limiti corporali, perché gli arde nel cuore una bruciante nostalgia dell’assoluto. In questo senso la ricerca dell’essenziale è per lui l’equivalente di ciò che è il cammino verso l’uscita della caverna di Platone, per lo schiavo imprigionato nelle buie profondità della terra. Uscire dalla caverna significa scoprire il cielo azzurro e la dimensione vera del reale; restare nella caverna significa permanere nell’ignoranza e nell’errore. Chi ha scelto di essere e di restare solo e unicamente un figlio di questo mondo, ha per ciò stesso scelto anche di vivere per sempre brancolando fra illusioni e miraggi; ma chi sceglie di sviluppare la sua parte spirituale, aprendosi alla Verità trascendente, non è più un figlio di questo mondo di tenebre, bensì un figlio della luce, perché la Verità è come un fiume di luce che rischiara le tenebre. Non è tuttavia sufficiente la nostalgia della Verità; è necessario anche riconoscere la propria piccolezza e finitezza, e supplicare l’aiuto di Colui che è Verità, e senza il cui Spirito nessuno può anche solo avvicinarsi ad essa. Non è l’uomo che conquista la Verità, ma la Verità che conquista l’uomo, allorché questi si pone nella giusta relazione con Dio, aprendosi al suo mistero e lasciandosi illuminare dalla sua luce. E per farlo deve anche prendere sulle spalle la propria croce, come il Figlio ha fatto con Se stesso, in piena obbedienza al Padre. Poiché il servo non è superiore al padrone, e l’uomo non può evitare a sé quello che neppure Dio si è risparmiato, per amor suo (Gv. 16,33): Vi ho detto queste cose perché abbiate pace in me.
Voi avrete tribolazioni nel mondo, ma abbiate fiducia perché io ho vinto il mondo!
L’essenziale è invisibile, indicibile, ineffabile
di Francesco Lamendola
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