Per il ritorno del dogma. Ovvero per far tornare la Chiesa a Cristo
Cari amici di Duc in altum, nel sempre più ampio dibattito sul Concilio Vaticano II e le sue conseguenze, un nuovo intervento del professor Enrico Maria Radaelli.
La direttrice da tenere nella fede
La costituzione dogmatica Pastor æternus (v. Denz 3074), stabilisce che il vescovo di Roma, quando parla ex cathedra, cioè quando, adempiendo il suo ufficio di pastore e di dottore di tutti i cristiani, definisce, in virtù della sua suprema autorità apostolica, che una dottrina in materia di fede o di morale deve essere ammessa da tutta la Chiesa, gode, per quella assistenza divina che gli è stata promessa nella persona del beato Pietro, di quella infallibilità di cui il divino Redentore ha voluto fosse dotata la sua Chiesa, quando definisce la dottrina riguardante la fede o la morale. Di conseguenza queste definizioni del Vescovo di Roma sono irreformabili per se stesse, e non in virtù del consenso della Chiesa.
In Vera e falsa teologia. Come distinguere l’autentica “scienza della fede” da un’equivoca “filosofia religiosa”, monsignor Antonio Livi, già professore di Logica e Gnoseologia e decano per due mandati della facoltà di Filosofia alla Pontificia Università Lateranense, dove mi chiamò a integrare per tre anni i suoi corsi con le mie lezioni di Gnoseologia formale, rileva due nozioni decisive, basilari per la fede. Eccole.
La prima: «Alla fede cristiana è essenziale la pretesa di verità al massimo grado» (p. 231).
La prima: «Alla fede cristiana è essenziale la pretesa di verità al massimo grado» (p. 231).
La seconda: «Il carattere dogmatico non è un aspetto accidentale o una “sovrastruttura ideologica” del cristianesimo» (ibidem).
La contro-direttrice in vigore
In Il Concilio Vaticano II. Una storia mai scritta, il professor Roberto de Mattei rileva che «il Primate del Belgio – L. J. Suenens, Arcivescovo di Malines-Bruxelles, Cardinale e Moderatore del Concilio – lanciava… la parola d’ordine del “Concilio pastorale”: “Il Concilio sia, per eccellenza, un Concilio pastorale” (Léon-Joseph Suenens, Aux origines du Concile Vatican II, p. 8). Giovanni XXIII seguì la linea tracciata da Suenens nel discorso che tenne l’11 settembre 1962, un mese prima dell’apertura del Concilio» (p. 193): «La forma pastorale… diventava la forma del Magistero per eccellenza» (idem, p. 201).
Conclusione. Per la prima volta nella storia un Concilio ecumenico, il Concilio Vaticano II, non utilizza il «massimo grado» di Magistero con cui erano stati aperti i venti Concili precedenti presieduti da un Papa. In tal modo, per la prima volta nella storia, viene elusa la «pretesa di verità» richiesta dal «carattere dogmatico» della fede cristiana.
Ora, se c’è un nesso tra: 1) la pretesa di verità al massimo grado come essenziale alla fede; 2) la capacità data unicamente dal grado dogmatico di assolvere tale pretesa, e 3) «il fumo di Satana» che Papa Paolo VI, con gran struggimento, nel 1970 rilevò e denunciò essersi introdotto in gran quantità «nel tempio» di Dio che è la Chiesa, è una conclusione che lascio ai lettori.
Ha quasi annientato la Chiesa e reso orfano il mondo. Ma non è un maxi-trappolone. E allora cos’è?
Certo, la parole di padre Schillebeeckx lascerebbero perplessi: «Nous l’exprimons d’une façon diplomatique – ci rassicura il celebre domenicano olandese –, mais après le Concile nous tirerons les conclusions implicites» (Edward Schillebeeckx, De Bazuin n. 16, 1965), detto altrimenti: “Noi ci esprimiamo in modo doppio, ambiguo, diplomatico, ossia in modo che i concetti sembrino cattolici ai cattolici e contemporaneamente permettano a noi che ci siamo prefissi di raggiungere certe mete di avere la vaghezza necessaria, ma finito il Concilio tireremo le conclusioni implicite che ci aggradano e che appunto ci eravamo prefissi”.
Certo, la parole di padre Schillebeeckx lascerebbero perplessi: «Nous l’exprimons d’une façon diplomatique – ci rassicura il celebre domenicano olandese –, mais après le Concile nous tirerons les conclusions implicites» (Edward Schillebeeckx, De Bazuin n. 16, 1965), detto altrimenti: “Noi ci esprimiamo in modo doppio, ambiguo, diplomatico, ossia in modo che i concetti sembrino cattolici ai cattolici e contemporaneamente permettano a noi che ci siamo prefissi di raggiungere certe mete di avere la vaghezza necessaria, ma finito il Concilio tireremo le conclusioni implicite che ci aggradano e che appunto ci eravamo prefissi”.
Questo pensiero machiavellico fu raccolto e pubblicato da Romano Amerio nel 1984 (v. Iota unum, Ricciardi, p. 93). Il libro è stato venduto in migliaia di copie in tutto il mondo, e comunque non è stato certo il solo veicolo ad aver segnalato il turpe pensiero del padre domenicano, che infatti si era ben diffuso dal ’65 nei gangli della Chiesa a ogni livello.
Il magistero dogmatico
Le verità del Magistero dogmatico non hanno bisogno di essere interpretate. Anzi, per loro essenza – essendo il dogma indefettibile, ossia essendo privo di errori, e la non chiarezza o ambiguità o equivocità è un errore – le verità del Magistero dogmatico non vanno e non possono essere interpretate: esse sono espresse per natura in modo chiaro, univoco e valido in ogni tempo, luogo, condizione: sono verità eterne.
Il magistero pastorale
Le verità del Magistero pastorale invece di interpretazione ne hanno bisogno, ma con una necessaria precisazione: non stiamo parlando del Magistero pastorale utilizzato a partire dal Vaticano II, ma del Magistero pastorale in sé, che non ha niente a che fare col primo, poiché non è intaccato dalla tara modernista, come fra poco si vedrà.
Il Magistero pastorale, di per sé, è un Magistero assolutamente necessario alla Chiesa, e lo è tanto quanto il Magistero dogmatico da cui dipende: la Chiesa non può farne a meno. I due ambiti sono strettamente legati da una precisa relazione con una loro precisa gerarchia.
Come illustro ben più estesamente in Che cosa può cambiare e che cosa non può cambiare nella dottrina della Chiesa (in AA.VV., Dogma e Pastorale. L’ermeneutica del Magistero dal Vaticano II al Sinodo sulla famiglia, Leonardo da Vinci, Roma 2015), il Magistero che chiamiamo “pastorale” si occupa di definire, indicare, insegnare e attuare nelle diverse pratiche quelle verità che, pur connesse al dogma, non ne possiedono però le note di infallibilità e di indefettibilità da credere de fide.
Esse si riscontrano nell’ambito di quattro categorie: 1) gli effetti teologici delle verità dogmatiche, p. es. il Catechismo della Chiesa cattolica; 2) le canonizzazioni stabilite in ottemperanza alle normative canoniche; 3) la legislazione liturgica e disciplinare obbligante la Chiesa universale, p. es. l’Institutio Generalis Missale Romanum e il Codex Iuris Canonici; 4) l’approvazione di ordini e congregazioni religiose.
Queste quattro categorie, per la loro intrinseca qualità, si sviluppano e si evolvono nella storia e dunque sono soggette per natura a modifiche, miglioramenti, precisazioni, sempre comunque in una sola precisa e rigorosa direzione, tenuta rigorosamente in tutti i duemila anni di storia del Magistero della Chiesa in stretta, puntigliosa e fedelissima connessione logica e teologica con le specifiche verità eterne da cui promanano, in modo tale che ogni eventuale dubbio, equivoco, interpretazione fuorviante venisse presto e sollecitamente risolta, chiarita, giudicata, eventualmente eliminata.
L’insuperabile Bernard Bartmann chiarisce bene il problema della irreformabilità delle “verità connesse” di fede ecclesiastica. La Chiesa – spiega – insegna in modo infallibile la morale cristiana, riconosce pure facilmente se le regole di un ordine religioso siano conformi ad essa o meno. Non è però infallibile nel giudicare l’opportunità esteriore di queste regole, sicché potrebbe in seguito formulare un altro giudizio. Così la Chiesa non può sbagliare nelle decisioni circa il culto, le devozioni, i libri liturgici, i doveri particolari di certi stati (celibato, breviario) come nelle prescrizioni disciplinari generali (digiuno, riposo festivo, istituzione e soppressione di giorni festivi).
Non è possibile che in questa materia ordini o approvi alcunché di contrario alla legge morale. Non è però infallibile il suo giudizio di queste formule (sensus) e una verità immutabile. Può darsi invece che la Chiesa in altro tempo crei formule migliori, più comprensive e più efficaci per esprimere le medesime verità definite. […] Si vedano le formule del Concilio di Calcedonia con quelle del Concilio di Efeso, il simbolo degli Apostoli con quello di Atanasio (Bernard Bartmann, Manuale di teologia dogmatica, Edizioni Paoline, Alba 1952, pp. 63-4).
Un classico della riformabilità e della contemporanea attenzione a che essa venga condotta con la più viva e rigorosa cura al grado massimo possibile di purezza, affinché la Chiesa nella sua più ampia universalità e la salvezza delle anime una per una ne ricevano le più ubertose grazie, è la riforma del Breviario permessa nel 1536 da Papa Paolo III, ripudiata con rescritto nel 1558 da Paolo IV e finalmente proscritta solo dieci anni dopo da san Pio V: con questo esempio si vuole mostrare come tali cose «sono la testimonianza più importante nella storia liturgica della priorità attribuita allo sviluppo organico della liturgia rispetto all’approvazione dell’autorità competente. Il giudizio prudenziale con cui Paolo III promulgò questa riforma nel 1536 fu un errore, finalmente corretto a distanza di cinque papi e di trentadue anni, in vista dell’evidente insoddisfazione dei fedeli e su richiesta degli studiosi» (Alcuin Reid, Lo sviluppo organico della Liturgia. I principi della riforma liturgica e il loro rapporto con il Movimento liturgico del XX secolo prima del Concilio Vaticano II, Prefazione di Joseph Ratzinger, Cantagalli, Siena 2013, p. 31). La direzione da tenere negli insegnamenti e negli atti “pastorali” delle verità connesse al dogma era stata abbandonata per non voluta imprudenza, ma recuperata finalmente per la virtù del consiglio di un Papa santo.
La direzione da tenere è indicata con esattezza dal monaco san Vincenzo di Lérins, tanto da essere ripresa nella costituzione dogmatica Dei Filius al termine del cap. 4, De fide et ratione: « Nos credimus solum] quod semper, quod ubique, quod ab omnibus creditum est [“(Noi crediamo solo a) ciò che sempre, in ogni luogo e da tutti è stato creduto”] » (Vincenzo di Lérins, Commonitorium primum, 23, n. 3, v. anche Denz 3020).
Le quattro categorie di verità saldamente connesse al dogma dalla parte divina e alla storia dalla parte umana, proprio per tale connessione al mondo non possono essere di per sé direttamente infallibili e indefettibili, ma tutti i Papi della Chiesa sotto il cui governo esse hanno trovato il degno modo di svilupparsi si sono impegnati a che esse osservassero, nel più rigoroso rapporto logico, razionale e teologico, un legame univoco, moralmente impegnato al massimo, supportato in ciò da una teologia fortemente e volutamente immersa nella sana atmosfera metafisica, atmosfera che, come insegnano gli ultimi grandi esponenti della Scuola romana, monsignor Gherardini e monsignor Livi, costituisce da sempre la più insuperabile barriera a ogni anche più piccola infiltrazione storicista, che è a dire modernista, cioè eretica.
Un’infiltrazione, questa, che costituisce oggi il più duro e impegnativo arci-nemico della dottrina cattolica, come dimostrano anche le recenti lezioncine tenute o da teologi improvvisati come i vari Francesco Arzillo o da cardinali ostinatamente novatori – dunque eretici – nascosti sotto finti panni “conservatori” come i tanti Walter Brandmüller.
Esposta in tal modo la direttrice tenuta e perseguita da sempre dalla Chiesa, passiamo ora a illustrare la contro-direttrice elaborata e perseguita dai modernisti a partire dal Concilio Vaticano II.
Il magistero pastorale dopo il Concilio Vaticano II
Tutt’altro atteggiamento abbiamo invece a partire dal Vaticano II: quello che sarebbe un oggettivo limite delle verità formulate e insegnate col Magistero pastorale diviene una breccia, un’occasione, una potenzialità che, pur essendo quelle verità connesse al dogma e dunque fortissimamante legate da quel vincolo morale tanto ben individuato dal Lerinense da essere persino raccolto in una costituzione dogmatica come la Dei Filius, in mano ai modernisti diventano il cavallo di Troia, lo stratagemma, il grimaldello insomma per entrare nella Torre del Mastio della Chiesa, nel Sancta Sanctorum dell’evangelica dottrina, così da potersene appropriare e, in tal modo subdolamente conquistata, ricostruirla pezzo per pezzo a proprio piacimento, ossia secondo le proprie subdole modernistiche intenzioni, senza però far capire a nessuno l’astutissima manovra.
Chi si accorgerà mai, infatti, di quelle schiere di solerti operai che, travestiti da vescovi, cardinali, prefetti e papi, ma poi anche da monsignori, accademici, parroci, teologi, semplici ma impegnatissimi fedeli, con i metodi più placidi, amichevoli, affettuosi, inclusivisti e coinvolgenti, alzeranno pietre di carta, sassi di plastica, travi di gomma, pilastri di bambagia in luogo delle giuste, solide e ben squadrate pietre scalpellate nella roccia tutt’intorno alla Pietra d’angolo di Ef 2,20?
Sguinzagliato dal conciliare “aggiornamento”, ogni dilettantismo vale, purché non proponga argomenti, non ragionamenti, non logiche deduzioni o induzioni, ma solo seduzioni appoggiate a evocativi argomenti d’autorità à la Nouvelle Théologie, rassicuranti obiettivi di pacificazione universale, come rilevano Amerio, de Mattei, Gherardini, Guarini, Livi, Mazza, Pasqualucci, Spadafora, Vassallo, ultimo il sottoscritto, in decine di libri, articoli, corsi, tavole rotonde, conferenze.
La fallibilità e possibile difettosità, permesse dall’impossibilità che tali gradi di verità possano essere enunciati al massimo grado di entelechia di Magistero dato unicamente da una papale locutio ex cathedra, nelle mani del cardinale Suenens, di Papa Roncalli e di tutti i neoterici che li seguirono fino a oggi, non sono più strumenti che richiedono il massimo impegno morale e intellettuale per far aderire in ogni punto gli insegnamenti e gli atti con cui di volta in volta la Chiesa pellegrina si tiene al passo coi popoli e con le nazioni, con i secoli e con i linguaggi, con la scienza e con la conoscenza, ma sono una folgorante, splendida, abbagliante fessura per realizzare quella “cultura dell’incontro”, quella “cultura del dialogo” che permetterà loro di realizzare finalmente il sogno di tutti i placidi, i pacifici e i miti della terra.
In altre parole, rinnegato il basico aut aut distintivo e abissale che da sempre divide la Rivelazione di nostro Signore Gesù Cristo come insegnata dalla Chiesa da ogni altra nozione e fantasia religiosa, compresi i due monoteismi dell’ebraismo talmudico e dell’islamismo e comprese le varie ereticalità protestanti, si persegue il fine di diventare amici di tutti e di cercare specialmente di non aver nemico nessuno, in un et et generale, morbido e senza salti, di un continuum di approssimazione verso Dio di cui la Chiesa sarebbe solo l’apice conclusivo.
Magistero, forma, linguaggio ed eresie
Il primo che si accorse dell’esistenza di un meccanismo che contraffaceva la dottrina nel modo subdolo descritto senza pudore da padre Scillebeecks fu Romano Amerio, che al § 14 di Iota unum definisce «la legge della conservazione storica della Chiesa», per la quale «la Chiesa non va perduta nel caso non pareggiasse la verità, ma nel caso perdesse la verità» e poi nei §§ 330-1 illustra i primi rudimenti del metodo utilizzato dai neoterici modernisti proprio servendosi di tale legge: spareggiamo pure il rapporto tra Chiesa e verità, così noi raggiungiamo i nostri fini e la Chiesa non si perde, non muore proprio del tutto.
Che ne è del comandamento del Signore, che ci dice: «Il vostro parlare sia sì sì no no, il resto viene dal maligno» (Mt 5,37)? I grandi ermeneuti all’Arzillo, Brandmüller, Ratzinger, O’Malley, Schillebeekx e via mal interpretando, l’hanno presente, questo comandamento? E l’hanno presente anche dove dà il motivo di tale imperativa necessità (divina) di esser secchi, chiari e netti: «il resto viene dal maligno»?
Dunque, come si capisce, la cosa è fondata sul linguaggio, e la disciplina su cui il professor Livi mi ha fatto tenere i miei corsi, Gnoseologia formale, permette come nessun’altra di avvicinarsi al cuore del losco marchingegno, come d’altronde fece con intenti opposti anche il gesuita padre John O’Malley affermando categoricamente: «Il Vaticano II è un evento linguistico» (John W. O’Malley, Che cosa è successo nel Vaticano II, Vita e pensiero, Milano 2010, p. 313).
Solo che il Gesuita fa del linguaggio del Concilio un’apoteosi teologica, e chi scrive invece, nel suo Il domani – terribile o radioso? – del Dogma (Aurea Domus, Milano 2013), ne mette in luce in duecentocinquanta pagine le infinite trappole e gherminelle dei novatori per riuscire a dire e non dire, ossia, come rileva Amerio, per nascondere sotto la veste di una verità generale quella non chiaramente detta di una contro-verità parziale. La cosa è illustrata ampiamente in quel mio saggio.
Qualcuno di coloro che si adombrano per le mie severe parole nei confronti dei Papi del Concilio l’ha mai letto? Ha mai soppesato e ha poi trovato argomenti capaci di dimostrare con netta chiarezza la fallacia dei miei, depositati in quelle mie pagine da sette anni, e poi ripresi e da me risegnalati nei lavori successivi, non uno escluso, che non enumero per non dare a qualcuno motivi ulteriori di irridere delle auto-citazioni cui il deserto che mi circonda mi costringe?
Ma se nessuno oltre al sottoscritto prende in considerazione – pro o contro che sia – l’orizzonte filosofico, metafisico e teologico attraverso cui giungo a denunciare il maxi-trappolone elaborato dai Papi sopraddetti, e per nessuno intendo dire nemmeno chi io si credeva più vicino nella fede, e non faccio nomi solo per carità di patria, cosa deve mai fare il più tapino dei fedeli cattolici per non citare il nulla e non solo restare però nella fede, ma anche cercar di allarmare i compagni, i lontani, i pastori, gli ereticanti stessi, possibilmente tutta la Chiesa?
Il linguaggio equivoco tanto ben illustrato da padre Schillebeeckx ha fatto entrare nella Chiesa, coi tanti oblii e le mille ambiguità, almeno sette gravi e profondi elementi ereticali, che chiamo così per non confonderli con le vere e proprie eresie manifeste e formali che proprio per lo scaltro marchingegno Suenens-Roncalli, poi raccolto e fatto proprio dai successivi Montini, Wojtyla e Ratzinger, ha saputo tanto finemente e nascostamente aggirare.
I sette elementi ereticali concernono sette ambiti cruciali della fede, uno più cardinale e decisivo dell’altro.
Il primo riguarda la regalità di Cristo sul mondo e il derivante diritto pubblico da riconoscere alla Chiesa cattolica, Mater et Magistra del mondo; il secondo riguarda i diritti pubblici della Chiesa cattolica, unica depositaria della Rivelazione del Dio uno e trino, eguagliati a quelli delle mille falsità; il terzo riguarda l’ecumenismo spurio che ne discende; il quarto riguarda la libertà religiosa; il quinto riguarda l’ecclesiologia; il sesto riguarda la morale matrimoniale e in generale sessuale e derivati; il settimo la nozione di Messa e gli atti liturgici che ne discendono.
In particolare, il secondo elemento ereticale non verrà appianato finché un Papa non fisserà con locutio ex cathedra il principio che «Dio, se non è trino, nemmeno è», come argomentato nel mio Il Mistero della Sinagoga bendata, prima ed. Effedieffe, Milano 2002; seconda ed. completamente rielaborata, pro manuscripto, Aurea Domus, Milano 2011.
A questi sette gravi campi di ereticità della Chiesa nati e ben fruttificati dal Concilio vanno poi aggiunti quelli la cui faconda espansione è stata permessa e dovuta dal Concilio stesso proprio a causa del fatale abbraccio compiuto dalla Chiesa conciliare con lo sciagurato e ateistico storicismo. Tra questi ritroviamo in prima fila le ereticalità emergenti nei libri di Joseph Ratzinger, in specie Introduzione al cristianesimo, e poi nelle encicliche del medesimo in qualità di pontefice romano, come rilevo in Al cuore di Ratzinger. Al cuore del mondo (in settembre in edizione completamente rielaborata).
Per far tornare il dogma, cioè riportare la Chiesa a Cristo
È necessario che tutte le persone che seguono in questo momento il dibattito in corso si rendano ben conto che di alti prelati che vogliano mettere in discussione il Concilio Vaticano II nei termini dovuti, ovvero sia nella sua interezza formale che in ciascuno degli elementi ereticali che lo infestano, che è a dire almeno nei sette punti qui segnalati, fino a oggi, da sessant’anni, non ce n’è stato nessuno, tranne notoriamente a suo tempo i vescovi Lefebvre e De Castro Mayer, che però non seppero raccogliere intorno a sé il consenso dovuto per rigettare in primo luogo proprio la forma con cui era stato aperto il Concilio, giacché all’epoca il problema formale non era stata nemmeno sfiorato.
Tutti, e sottolineo tutti i vescovi, i cardinali e i prefetti di Santa Romana Chiesa, proni alle direttive dei sopraddetti Papi, fino ad oggi non hanno né considerato i chiarissimi aspetti linguistici qui ancora una volta messi in luce nella loro più eclatante evidenza, né, specialmente, il grave monito sparato col lanciafiamme a suo tempo e per sempre da san Paolo: «Se anche noi stessi, o un Angelo del Cielo, venisse ad annunciarvi un Vangelo diverso da quello che vi abbiamo annunciato noi stessi, sia anàtema. Già l’abbiamo detto e ora lo ripeto: se qualcuno evangelizza contro l’annuncio che avete ricevuto, sia anàtema» (Gal 1,8-9).
Ora finalmente un coraggioso è sceso in campo, ma è necessario che siano ben chiari a tutti i veri termini della battaglia: chi sono i veri guerreggianti, intorno a cosa stanno guerreggiando, con quali armi e, per concludere, con quali fini. È la “Guerra delle Forme” o, in altri termini, è la carne contro lo Spirito, è il mondo contro il Cristo.
Basta col politichese, basta con gli infingimenti, basta con la navigazione sott’acqua. La partenza giusta l’ha data l’arcivescovo Carlo Maria Viganò, già nunzio apostolico negli Stati Uniti, il 4 luglio scorso a John H. Westen, direttore di LifeSiteNews: una persona di buon senso vede già un’assurdità nel voler interpretare un Concilio, dal momento che esso è e deve essere norma chiara ed inequivocabile di fede e di morale.
In secondo luogo, se un atto magisteriale pone seri e motivati argomenti di coerenza dottrinale con quelli che lo hanno preceduto, è evidente che la condanna del singolo punto eterodosso scredita in ogni caso l’intero documento.
Se a ciò aggiungiamo che gli errori formulati o lasciati obliquamente intendere tra le righe non si limitano ad uno o due casi, e che agli errori affermati corrisponde una mole enorme di verità non ribadite, ci possiamo chiedere se sia doveroso espungere l’ultima assise dal catalogo dei Concili canonici.
La sentenza sarà emessa dalla Storia e dal sensus fidei del popolo cristiano ancor prima che da un documento ufficiale. E a tal proposito sarebbe ben provvidenziale una sensibilizzazione di tutti i cardinali e vescovi della Chiesa, a cominciare da fini e impegnati cardinali come il Brandmüller che, rettificando le diverse mende di monsignor Schneider riguardo alle correzioni dottrinali compiute dal Magistero nella storia, è tornato a mostrare quel che ci si aspettava da lui, ossia che la sua solidità di storico è fuori discussione.
Bene: sarebbe ben utile che a questo punto tutti i grandi prelati della Chiesa si facessero l’opinione che è arrivato il momento di correggere forma, linguaggio e dottrine fuorusciti dal Concilio Vaticano II e che se il Signore ha permesso di arrivare fin qui senza che avvenissero queste doverose correzioni è stato solo perché era necessario che tutti loro si rendessero conto, essendoci caduti dentro non volendolo vedere con i propri stessi occhi, ma amandolo con i propri stesi cuori, preparandolo con le proprie stesse mani e andandogli dentro con i propri stessi piedi, che quella elaborata e poi difesa da loro stessi con le unghie e con i denti non era altro che un’enorme, seducente, incantata malia, che nascondeva un gran buco da cui però più non si sarebbe usciti, se non fosse per somma misericordia di Dio.
Chiamatelo voi come volete. Io il suo nome lo saprei.
Propostina
Infine, per restare al Gran Vegliardo, vorrei dire di non intristire i dibattiti con strali tipo «Radaelli detesta Ratzinger», che non solo sviliscono i ragionamenti portandoli su un inesistente piano emotivo e bambinesco, ma dimenticano che «de internis neque Ecclesia iudicat», e neque Ecclesia vuol dire che giudicare i sentimenti presenti nel cuore di un uomo proprio non si può: non lo fa neanche un direttore spirituale, fosse pure il Papa, e ho detto tutto.
Sarebbe opportuno invece che i disputandi, invece di giudicare tanto avventatamente, mostrassero d’avere almeno un minimo di conoscenza dell’argomento, in questo caso dell’opera del sottoscritto intorno all’augusto Soggetto in questione, sicché mostrassero di aver letto almeno i paragrafi finali di Al cuore di Ratzinger, o per lo meno i titoli, non dico di più, o almeno i titoli dei quadernetti integrativi a quel saggio, il secondo dei quali va proprio al punto: Amare Ratzinger. Io lo salvo, voi lo uccidete. Non fatelo. Ma anzi: salviamolo tutti insieme.
Enrico Maria Radaelli
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Il libro Al cuore di Ratzinger. È lui il Papa, non l’altro, pro manuscripto, Aurea Domus, Milano 2020, dal prossimo settembre sarà disponibile nelle librerie Àncora (Milano e Roma), Coletti (Roma), Hoepli (Milano), Leoniana (Roma), San Paolo (Milano). Oppure potrà essere richiesto scrivendo al sito dell’autore: www.enricomariaradaelli.it.
Questi i cinque articoli scritti a integrazione del saggio su Ratzinger:
1) Il Ratzingerismo. Sfumature o reticenze? Cinque casi esemplari, pp. 40;
2) Amare Ratzinger: io lo salvo. Voi lo uccidete. Non fatelo. Ma anzi: salviamolo tutti insieme, pp. 32;
3) Scegli: ratzingeriano o cattolico?, pp. 36;
4) Qualcuno nella Chiesa si è accorto che nell’enciclica Spe salvi Papa Ratzinger ha cancellato l’Inferno con una molto eretica apocatastasi?, pp. 32;
5) La sorgente spiega alla foce come mai l’acqua del fiume è avvelenata. In margine agli “Appunti” del cardinale Ratzinger, pp. 36 in quadricromia.
I cinque libretti possono essere richiesti all’Autore, come indicato nel sito www.enricomariaradaelli.it.
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In Duc in altum il dibattito sul Concilio Vaticano II si è articolato finora attraverso i seguenti interventi:
Carlo Maria Viganò, Excursus sul Vaticano II e le sue conseguenze, 10 giugno 2020
Aldo Maria Valli, Il Concilio Vaticano II e le origini del deragliamento, 14 giugno 2020
Carlo Maria Viganò, Compito del prossimo papa? Riconoscere l’infiltrazione del Nemico nella Chiesa, 27 giugno 2020
Enrico Maria Radaelli, Il Dogma e l’Anticristo. Il Concilio Vaticano II e la maxi-spallata di monsignor Viganò, 4 luglio 2020
Carlo Maria Viganò, “Non penso che il Vaticano II sia invalido, ma è stato gravemente manipolato“, 4 luglio 2020
Aldo Maria Valli, Il Vaticano II e quell’errore fatale, luglio 2020
Serafino Maria Lanzetta, Il Vaticano II e il Calvario della Chiesa, 13 luglio 2020
Alfredo Maria Morselli, “Non è il Concilio la causa di tutti i mali”, 14 luglio 2020
AA.VV, Consenso internazionale al dibattito sul Vaticano II aperto dai vescovi Viganò e Schneider, 15 luglio 2020
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