Parte seconda
Presentazione
Prima di passare in rassegna le voci in tema, è necessario definire il concetto e la dinamica del termine ‘liturgìa’ onde evitare fraintendimenti ed inesattezze.
‘Leiturghìa’: dal greco ‘leiton’ – luogo di affari pubblici – (derivato a sua volta da ‘laos’ – popolo) – e ‘ergon’ – opera - che nell’edizione biblica dei LXX assume il significato di ‘servizio al tempio’. È il complesso tradizionale delle norme che scandiscono i tempi, le formule, i gesti, i simboli, i paramenti di un rito religioso officiato da un celebrante legittimato a rivestire dignità di sacerdote, intermediario tra Dio e l’uomo e stabilisce, in termini inequivocabili, ciò che spetta di competenza all’officiante e ciò che pertiene alla comunità dei fedeli che vi assiste.
Il documento che analizza in profondità ed altezza una parte della riforma liturgica conciliare è, senz’altro il “Breve esame critico del Novus Ordo Missae” presentato al Pontefice Paolo VI dai Cardinali Ottaviani e Bacci il giorno della festività di Corpus Domini 1969. Stimando tale documento di stretta competenza specialistica, noi ne abbiamo illustrati, per quella platea di lettori di ordinaria cultura, alcuni di maggior immediata comprensione. Vediamo, allora, quanti e quali luoghi comuni e quali errori essi arrecano nella vigente liturgìa cattolica riferita al rito della Santa Messa riformata, così come in appresso - qui presentatati in tre parti :
Parte prima:
- Confesso a Dio Onnipotente.
- Gloria.
Parte seconda- Gloria.
- Consacrazione.
- Padre nostro.
Parte terza- Padre nostro.
- Datevi un segno di pace.
- Buona domenica a tutti.
- Buona domenica a tutti.
PARTE SECONDA
CONSACRAZIONE
CONSACRAZIONE
È il momento trascendente, e centrale, del rito in cui si compie il mistero della ‘Transustanziazione’ per la quale il pane e il vino, pur mantenendo apparenza di specie, diventano vero Corpo e vero Sangue di Cristo.
Perché si realizzi tale mistero, il sacerdote celebrante pronuncia la formula che, rispettivamente al pane e al vino, dice: “Prendete e mangiate, questo è il mio Corpo, offerto per voi in sacrificio/ Questo è il calice del mio Sangue sparso per voi e per tutti in remissione dei peccati. Fate questo in memoria di Me”. Sùbito dopo, il celebrante intona “Mistero della fede” a cui i fedeli rispondono “Annunciamo la tua morte Signore, proclamiamo la tua resurrezione, in attesa della tua venuta”.
Figurano, in questo tratto del rito, tre deprecabili luoghi, e cioè: uno stravolgimento della Parola di Cristo, un abuso e un’eresìa. Vediamoli:
a – Il testo originale greco non dice ‘per tutti’, ma ‘per molti’ – perì pollòn (Mt. 26, 28) prevedendo, Cristo, che da questo Sacramento non tutti gli uomini avrebbero, per propria volontà, tratto profitto.
Ma la ‘nuova teologìa’, sorta dall’eretico Concilio Vaticano II e confermata dai Papi – Giovanni XXIII, Paolo VI, Giovanni Paolo II, Benedetto XVI, Francesco I – stabilisce che tutti gli uomini sono stati giustificati, e salvati gratuitamente senza pagar dazio, dalla morte di Gesù, compresi i seguaci delle altre religioni che Giovanni Paolo II afferma essere incluse nel mistero dell’Incarnazione di Cristo quando scrive: “Il Verbo Incarnato è dunque il compimento dell’anelito presente in tutte le religioni dell’umanità” (Lettera Apostolica Tertio millennio adveniente – 10 nov. 1994, n. 6).
Pertanto, sfacciatamente si corregge il Verbo di Dio – Via, Verità, Vita - il quale aveva affermato: “Cielo e terra passeranno, ma le mie parole non passeranno” (Mt. 24, 35).
Ma Colui che è PAROLA di DIO – Verbum Dei - non aveva fatto i conti con gli aggiornati dragomanni correttori di bozze conciliari che, sapendone più di Lui, vi hanno tirato un frego svaporando quella verità divina per sostituirla con una accezione di esclusivo dominio antropologico. Una menzogna, un tradimento, un sacrilegio.
b – La liturgìa – come sopra s’è scritto - è scienza che regola parole, tempi, gesti, paramenti del rito in rapporto alla divinità, e stabilisce precise e nette norme che descrivono il ruolo del celebrante e della comunità dei fedeli che assistono al mistero. Fra le varie competenze ascritte al celebrante v’è – in forza del sacerdozio ministeriale sancito dal sacramento dell’Ordine – quella, sola, esclusiva ed inalienabile di pronunciare le formule della Consacrazione. Ma, sull’onda della predetta ‘nuova teologìa’ che fa del fedele un ‘partecipante’ e non, invece, un adorante che ‘vi assiste’, non sono pochi coloro che accompagnano il celebrante pronunciando, sotto voce ma udibili, le parole della ‘epiclési’, della preghiera, o invocazione, con cui si chiede allo Spirito di Dio di trasformare il pane e il vino nel Corpo e nel Sangue di Cristo. Un abuso vero e proprio consumato con sottostante atteggiamento di superbia presumendo di rivestire il ruolo attivo del legittimo celebrante, un’indebita appropriazione di funzione.
Obbligo del fedele è, invece, osservare un raccolto silenzio – esteriore/interiore – nell’adorazione del Cristo presente nelle specie eucaristiche, col divieto di sconfinare in aree a lui interdette poiché è più che palese l’inefficacia delle parole abusivamente pronunciate.
E come recita l’aureo brocardo giustinianeo: “Unicuique suum” – a ciascuno il proprio còmpito.
c – Dopo lo stravolgimento della Parola di Dio e un abuso liturgico, ecco una vera e palese eresìa annidata nella formula recitata sùbito dopo l’avvenuta Transustanziazione del pane e del vino nel Corpo e nel Sangue di Cristo. Il sacerdote annuncia: “Mistero della fede” a cui segue la risposta dei fedeli che così suona: “Annunciamo la tua morte Signore, proclamiamo la tua resurrezione in attesa della tua venuta”.
Nella parte della formula, riportata in neretto, si annida il sottile dubbio sulla reale presenza di Cristo nelle Sacre Specie non tenendo conto che Cristo è, da qualche attimo prima, venuto trai suoi. A che mira, infatti, simile aggiunta se non a dubitare della vera e reale presenza di Cristo di cui, pur essendo più che presente, si attende tuttavìa la ‘venuta’?
Strisciante eppur concreta v’è sottesa la dottrina protestante che riduce il dogma cattolico di Gesù Eucaristico in presenza simbolica così come chiaramente annotarono i cardinali Ottaviani e Bacci nel ‘Breve esame critico del Novus Ordo Missae’ (Corpus Domini 1969): “L’acclamazione, poi, assegnata al popolo subito dopo la Consacrazione: ‘Mortem tuam annuntiamus, Domine, etc. donec venias’, introduce, travestita da escatologismo, l’ennesima ambiguità sulla Presenza Reale. Si proclama, senza soluzione di continuità, l’attesa della venuta seconda del Cristo alla fine dei tempi proprio nel momento in cui Egli è sostanzialmente presente sull’altare, quasi che quella, e non questa, fosse la vera venuta”.
Ad essere corretti è da precisare che son gli Ebrei che attendono la venuta del Messìa mentre i cattolici aspettano il “ritorno” di Cristo, cosa assai diversa. Un’eresìa, non c’è dubbio, questa ‘venuta’ che si palesa come orientamento dottrinario impresso e concordato proprio con i sei miscredenti ‘periti’ luterani e anglicani – notoriamente legati alla massoneria - nominati da Paolo VI quali membri della commissione deputata a ‘riformare’ (?) la Santa Messa di San Pio V.
PADRE NOSTRO
Uno solo è il luogo comune che, probabilmente, renderà la preghiera, insegnata da Cristo stesso, inficiata sotto il doppio versante teologico/semantico per via di un’irriverente, arrogante, distorta e ridicola correzione della Parola di Cristo, similmente a quanto esposto sopra alla voce ‘Consacrazione’, lettera a.
Nell’intervista al cardinal Giuseppe Betori – Avvenire 10/7/2017 – si ha conferma di una prossima correzione del testo evangelico, così come voluta dal Papa Francesco I, d’intesa con i più dotti biblisti in circolazione. “Un Lavoro di squadra”, osserva compiaciuto il presule fiorentino, che ha stabilito essere, il passo di Matteo 6, 13 “E non ci indurre in tentazione” del tutto inaccettabile poiché - ragionano Papa Francesco, il cardinal Betori e la squadra dei biblisti - Dio, che è somma bontà ed infinita misericordia, non può mai ‘indurre’ in tentazione. Pertanto, posta tale ‘verità’, il verbo incriminato va sostituito con altro più corrispondente alle predette divine bontà e misericordia.
Ed ecco, allora, escire dal cilindro del vocabolario conciliare la magica soluzione sostitutiva: “Non ci abbandonare alla tentazione”, formula che, pur non essendo - al settembre 2018 - stata sancita in AAS, vien recitata qua e là. Una formula, come abbiam detto sopra, che determina una doppia nefasta deriva: teologica e semantica e di cui ci apprestiamo a rendere conto e ragione.
Il N. T., come si sa, è scritto in lingua greca che, pur diversa essendo dall’aramaico parlato da Gesù, è testo canonico su cui si fondano l’intera Rivelazione e il ‘Depositum fidei’. Ciò per dire che, greca o aramaica la versione, niente cambia ai fini della inerranza della Parola di Dio fattosi uomo.
Cosa dice, allora, Gesù (Mt. 6, 13)? Dice testualmente “kài mè eisenègkes hemàs èis peirasmòn, allà rysai hemàs apò tù ponerù”, corrispondente al latino della Vulgata di San Girolamo “et ne nos inducas in tentationem sed libera nos a malo”, cioè, “E non ci indurre in tentazione ma liberaci dal male”.
Papa, cardinal Betori e squadra di biblisti affermano che Dio non induce in tentazione. Bene, ci dicano allora, che cosa voglion significare le tante prove – vere e proprie induzioni in tentazione – a cui, come racconta il V. T., il Signore sottopone Israele, i profeti, Abramo, Giobbe 2, 10 (Se da Dio accettiamo il bene, perché non dovremmo accettare il male?), così come recita il salmo 138, 1 e come si legge nel N. T. – vangelo di Matteo 4, 1/11 – lo stesso Gesù essere indotto in tentazione, messo alla prova come espressamente recita il testo greco “Tóte o Iesùs anèchthe éis tèn érmon ypò tù Pnèumatos peirasthènai ypò tù diabólu” – Tunc Iesus ductus est in desertum a Spiritu, ut tentaretur a diabolo – Allora Gesù fu condotto nel deserto dallo Spirito (Santo) perché fosse tentato dal diavolo.
Non c’è ragione per dilungarci a dimostrare quanto presuntuosa ed offensiva sia la decisione di cancellare il verbo ‘indurre’ per ‘abbandonare’ in quanto è chiarissimo, anche ai ciechi, il potere e la volontà che Dio ha di imporre prove, cioè, ‘indurre in tentazione’, così come bene recita il salmista.
Gravissimo atto di protervia culturale e di ribellione, pertanto, si pone, sotto l’aspetto teologico, siffatto tentativo di correggere il Verbo di Dio ritenuto non al passo dei tempi. Eresìa, non v’è dubbio.
Ora, se con la sostituzione di ‘indurre’ con ‘abbandonare’ s’è compiuta, riferita al versante teologico, un’azione eretica e un’offesa a Colui che è Verità, sotto quello semantico s’è raggiunto il massimo del ridicolo. I soloni, che pretendono di rettificare Cristo, sono naufragati nel mare del comico peggiorando ancor il criticato ‘indurre’. Noi, pertanto, con l’ausilio della sola analisi etimo/logico/semantica dei due verbi – indurre/abbandonare – dimostreremo come l’adozione del secondo realizzi una visione palesemente più forte del primo, addirittura sacrilega. Vediamoli.
a – Indurre. Verbo che ricalca il latino ‘in-ducere’ – condurre verso – e che, nelle varie e molteplici circostanze in cui viene flesso, sta a significare un dinamismo con cui un soggetto spinge e/o viene spinto a comportamenti, gesti per lo più negativi come: indurre in errore, indurre a delinquere . . .
Ora, considerando l’etimo e la semantica, si può notare come nel composto in-durre sia presente un iniziale moto a cui il soggetto collegato non viene necessariamente coartato a cedere, tanto che l’indurre in tentazione altro non è che un ‘tentativo’, operazione che sollecita a compiere un alcunché ma non necessariamente a condurlo a termine.
Abbiam detto sopra che Dio ‘mette alla prova’ sì come appare, fra i numerosi, dagli esempî di Giobbe e di Gesù, due che, in modo diverso, seppero respingere l’induzione dandoci il modello per come si possa superare un momento critico.
Fatto, pertanto, chiaro che lo ‘indurre’ del Padre Nostro esprime la volontà di Dio secondo la quale Egli mette alla prova, non è automatico che l’uomo debba cadere nel peccato in quanto il suo libero arbitrio, illuminato e ammaestrato dalla Legge divina, gli permette la conoscenza del Bene e del male e, quindi, la volontà di resistere e vincere. Da notare, infatti, che dopo la richiesta di non essere indotti in tentazione, è lo stesso Gesù che ci dice di chiedere la liberazione dal male.
Colui che pratica sport estremi, l’acrobata, il rocciatore, mette sé stesso alla prova, si ‘induce’ nel rischio non perché debba sicuramente fallire ché non avrebbe senso alcuno sfidare il proprio limite se non venisse posta a priori la volontà di superare la linea che segna le due aree: la sconfitta e la vittoria.
b – Abbandonare. Verbo di etimologìa varia che gli specialisti riconducono a un antico francese “à ban donner” – dare in balìa di – o ad un “a bando dare” – proscrivere, lasciare definitivamente.
Comunque lo si usi, mantiene un significato di larga univocità, e cioè: lasciare qualcuno/qualcosa senza aiuto, senza protezione, dimenticare - volontariamente o non - qualcuno/qualcosa. Insomma, il concetto che ne vien fuori dice come l’abbandonare valga azione che, riferita alla nuova formula del corretto Padre Nostro, farebbe di Dio un Essere perfido o scordarello che, caduto l’uomo in tentazione, ve lo lascia senza aiuto, senza possibilità di recupero, senza mezzi di riscatto, disinteressandosi di lui.
Ora, sarebbe paradossale che nella preghiera, insegnataci da Cristo stesso, si chieda al Padre di non ‘abbandonarci’ alla tentazione, di non lasciarci soli e privi del suo aiuto. Una pezza, come ben si avverte, peggiore del buco che si vorrebbe rammendare, a gloria del Pontefice, del cardinal Betori e della squadra degli acculturati biblisti.
Noi ci sentiamo in dovere di consigliare costoro a non avventurarsi in conflitti con la Parola di Cristo ché la sconfitta, così come la figuraccia, è sicura, oltre che lo scotto da pagare.
Cosicché, appare chiaro come la sostituzione del dinamico indurre con lo statico abbandonare renda un pessimo servigio alla Verità e riveli la smania revisionistica della neo-Chiesa che, per modellare una pastorale a sola caratura umana, fa la pesa alla Parola di Dio. Ma la rivoluzione bergogliana, che gronda misericordia da ogni artiglio, va avanti inarrestabile fidando sulla parola (!) di p. Arturo Sosa, attuale ‘papa nero’, il gesuita che afferma come, per essere bravi cristiani di oggi, sia necessario contestualizzare storicamente, cioè secondo l’hegeliano ‘zeitgeist ‘ – lo spirito del tempo – la Parola di Cristo il quale, lo si dica chiaro e schietto e lo si sappia, non disponeva di registratori vocali, per cui – come si dice in tali casi – “Verba (Christi) volant” – le parole (di Cristo) volano e il dubbio è legittimo
Anche nella recita del Padre Nostro si verifica un’indebita appropriazione di ruolo. Parliamo di quei fedeli che lo recitano a braccia aperte, imitando il sacerdote il quale è, invece, il solo autorizzato a simile rituale, a somiglianza di Mosè che, nella battaglia contro Amalek (Es. 17, 11/13), teneva, lui soltanto, le braccia sollevate consentendo, così, a Israele di prevalere.
E poi, è maniera diffusa assai, ad opera soprattutto di gruppi organizzati – Carismatici, Neocatecumenali, Focolarini, Scautismo cattolico (Agesci), Comunione e liberazione ecc. - recitare il Padre Nostro tenendosi per mano. Siffatta scenografìa si agguaglia a quella ‘catena’ che, negli antichi misteri, gli adepti formavano per destare le energìe uraniche e telluriche onde sollecitare la possessione collettiva da parte del ‘dàimon’, così come i circoli satanisti la realizzano, durante le loro sedute spiritiche, per evocare, tramite la supposta, reciproca trasmissione delle individuali energie, le ‘larve’ dei trapassati o suscitare le forze ctonie, sotterranee cioè, infernali. Una dissacrante gestualità segnata dal sigillo del paganesimo.
di L. P.
http://www.unavox.it/ArtDiversi/DIV3647_L-P_Abusi_liturgici_e_deragliamenti_teologici_Seconda.html
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