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Tutto negli States suggerisce come Donald Trump vada incontro ad una sconfitta scontata. Le “13 chiavi” del professor Allan Lichtman non sbagliano mai la disamina sull’esito (o quasi): Joe Biden è il favorito.
Anzi, il candidato dei Dem può dirsi in qualche modo certo di vincere le elezioni presidenziali di novembre. L’accademico statunitense ha elaborato nel corso degli anni un modello politologico. Trattasi di indici che vanno dal carisma – caratteristica che deriva dalla civiltà della Grecia antica e che non ha mai più abbandonato la politica – agli scandali interni alla Casa Bianca, passando per le condizioni economico-sociali del popolo americano e da altri dieci elementi, che comprendono i risultati in politica estera ed altro. Lichtam ha previsto il fatto che Trump potesse affermarsi nel voto popolare nel 2016. In realtà, è stata la Clinton a trionfare nel voto popolare, mentre Trump ha vinto nel complesso sistema dei “grandi elettori”, che derivano dalle proporzionalità statali. Il fatto che Lichtman abbia dato per possibile la vittoria di Trump quattro anni fa, però, rende il suo modello particolarmente credibile. Poi c’è il fatto che Lichtman abbia sbagliato davvero di rado la sua predizione.
C’è qualche però. In questa intervista rilasciata al Corriere della Sera, Lichtman ha affermato di avere due incubi. Quelli che, nel caso si concretizzassero, potrebbero ribaltare i pronostici: qualcosa di relativo alla “soppressione del voto”; un intervento esterno da parte della Russia di Vladimir Putin. Entrambi gli spauracchi possono essere interpretati alla stregua di ventilazioni propagandistiche: Lichtman è pur sempre un democratico. Il fatto che Trump voglia impedire alle minoranze di recarsi alle urne mediante qualche tipologia di meccanismo ostruzionistico è un argomento tipico dei progressisti americani. Un discorso identico vale per la questione del Russiagate che, com’è noto, è finita in un niente di fatto.
Quello che il professor Lichtman sembra temere, in realtà, è legato all’imprevedibilità di una rimontache Trump ha già operato. Se non altro perché, checché ne dicessero i sondaggi, sono stati gli ultimi mesi di campagna elettorale a risultare decisivi quattro anni fa. L’espressione “october’s surprise”, ad esempio, è tipica del periodo elettorale che precede di poco la turnata presidenziale statunitense: ad ottobre, solitamente, accade sempre qualcosa di sorprendente. Un evento che può tendere allo sconvolgimento delle sentenza registrate dalle rilevazioni statistiche. Nel 2016, i media americani tornarono ad occuparsi del mailgate di Hillary Clinton. I sondaggi variarono di qualche punto, ma in maniera meno evidente di come poi sarebbero andate le cose. A questa argomentazione, di consueto, viene replicato così: il vantaggio di Biden è di gran lunga superiore a quello della Clinton del 2016. Può essere vero, ma non ostruisce l’ipotesi che Trump possa dare vita ad una rimonta ancora più convincente.
Il presidente degli Stati Uniti potrebbe aver rintracciato una chiave: l’edificazione di un asse tra Israele e Emirati Arabi Uniti è certamente il fiore all’occhiello della politica estera trumpiana. Anche perché le logiche geopolitiche fanno sì che sia l’America ad esercitare il ruolo guida di questa nuova alleanza. Votare Biden potrebbe comportare l’estromissione degli Usa da questa “triade”. La stessa che rischia di dominare la scena internazionale nel corso dei prossimi decenni. Preferire Biden a Trump, per gli elettori, potrebbe voler dire scansare un monolite geopolitico in costruzione, optando per l’abbraccio con il multilateralismo diplomatico. Non tutte le fasce elettorali approfondiranno questi aspetti, ma è lecito immaginare che alcuni grandi centri di potere ci riflettano eccome. Pure il quadro di polarizzazione che coinvolge gli Stati Uniti e la Cina può influire sul giudizio di chi si occupa magari di economia finanziaria o di dinamiche d’esportazione.
La tredicesima chiave, insomma, potrebbe essere il contesto internazionale: Trump ha destrutturato la narrazione bellica americana, concentrandosi sull’economia interna, ma questa storia dell’alleanza a doppio filo con Israele ed Emirati Arabi Uniti, con la conseguente pace in Medio Oriente, può interessare le imminenti sorti del mondo intero.
Francesco Boezi
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