ANNIVERSARIO / LA PRESA DI ROMA
Porta Pia: dopo 150 anni ancora irrisolto il nodo Chiesa-Stato
Lo Stato che ha occupato Roma il 20 settembre 1870 è lo Stato liberale moderno che ha reciso i legami con il diritto naturale e con quello divino come fonti di legittimazione. Esso nasce da un atto di forza, quindi non ha legittimità, la quale è sempre un fatto morale: è legittimo ciò che rispetta l’ordine naturale e finalistico delle cose, è violenza illegittima ciò che non lo rispetta, avesse anche il suffragio della maggioranza. Una questione su cui anche la Chiesa evita di fare chiarezza.
Monumento al bersagliere, Porta Pia, Roma
La questione della presa di Roma del 20 settembre 1870 non va archiviata, nemmeno nella sua versione di fatto provvidenziale che avrebbe finalmente liberato la Chiesa dalla zavorra del potere temporale. Va esaminata in tutti i suoi aspetti che, tuttavia, non sono solo storici, ma anche di principio, diremmo teoretici.
Essa poneva allora e pone anche oggi il problema della legittimità dello Stato. Pio IX scomunicò allora lo Stato italiano e re Vittorio Emanuele II e con ciò ribadì i corretti criteri per considerare uno Stato come legittimo, a cominciare dal criterio più combattuto e tenacemente negato allora e ora, ossia che a dare questa ultima legittimazione (o toglierla come nel caso di Porta Pia) spetti alla Chiesa. La posizione assunta da Pio IX presenta anche altri aspetti, ma questo mi sembra quello fondamentale e di grande attualità, perché scorrendo il tempo non sembra che esso sia stato risolto, anzi la questione della legittimità dello Stato è stata abbandonata e quasi non ce la si pone più: gli Stati ci sono e il solo fatto che ci sono anche li legittima.
Lo statuto (la costituzione diremmo oggi) dello Stato italiano proclamato nel 1861 conteneva ancora il riferimento a Dio e considerava il Re d’Italia essere tale per volontà di Dio. Questa dizione era stata ripresa dallo Statuto del Regno di Savoia in seguito esteso a quasi tutta la penisola. Però si sa che quella espressione statutaria era ormai lettera morta, perché sia lo Stato piemontese prima sia lo Stato italiano poi si ispiravano, come tutti gli Stati liberali dell’Ottocento, al modello dello Stato napoleonico. Questo tipo di Stato – Uomo-animale-macchina-Dio come diceva Hobbes – che vuole ridurre a se stesso l’intera società uniformandola alle proprie esigenze, esclude il problema stesso della legittimità, facendola coincidere con il proprio atto di volontà.
Lo Stato che ha occupato Roma il 20 settembre 1870 è lo Stato liberale moderno che ha reciso i legami con il diritto naturale e, ancor più, con il diritto divino come fonti ultime di legittimazione. Non che abbia cercato altrove altri criteri di legittimazione, ha proprio eliminato il problema: lo Stato nasce da un atto di forza, sia esso espresso da una Volontà generale (Rousseau) oppure da un Leviatano (Hobbes). Quindi non ha legittimità, perché un atto di forza non può avere legittimità morale, e nemmeno la cerca: la sua legittimità consiste nell’effettualità, ossia nell’imporla.
Quindi, seppure lo statuto facesse riferimento esplicito ad una legittimazione che derivava dal diritto naturale e divino, lo Stato piemontese e italiano manteneva quelle affermazioni per convenienza di immagine, ma le aveva svuotate di ogni senso. La politica cavouriana e poi dei governi italiani rispetto al matrimonio e alla famiglia, la distruzione ope legis degli ordini religiosi, le mani poste sull’educazione dei futuri cittadini, l’imposizione di una religione civile atea e ispirata al materialismo positivista tolgono ogni dubbio in merito. Tutto ciò era stato contestato da Gregorio XVI e Pio IX sul piano dottrinale, dopo la breccia di Porta Pia si passò all’atto della scomunica dello Stato con l’invito ai cattolici di considerarlo estraneo a sé. Estraneo perché delegittimato, quindi illegittimo.
Ci si può chiedere: la Repubblica italiana di oggi è uno Stato legittimo? E la Francia atea e anticlericale? E l’Olanda con le sue leggi disumane? O la Germania che Peter Hahne diceva essere ormai un grande bordello? Oggi nessuno mette più in discussone se questi (ed altri) Stati siano legittimi. Il tema è stato accantonato, ma ricordare Porta Pia e l’enciclica Rescipientes di Pio IX del 1 novembre 1870 lo fanno riemergere. A stretto rigore dovremmo dire che nessuno Stato attuale è legittimo?
Normalmente oggi si ritiene che a legittimare lo Stato sia il voto popolare. Soprattutto il voto popolare espresso in fase costituente. Ma il voto popolare non legittima niente perché è una pura conta quantitativa di opinioni immotivate. Anche il voto popolare chiede di essere legittimato, perché è solo un modo per prendere decisioni e non il loro fondamento. La legittimazione è sempre un fatto morale, è legittimo ciò che rispetta l’ordine naturale e finalistico delle cose, è violenza illegittima ciò che non lo rispetta, avesse anche il suffragio della maggioranza. La costituzione italiana non è legittimata perché approvata a maggioranza da una assemblea e poi da un referendum, è il contrario. Se il voto dovesse legittimare una costituzione che non rispetta il diritto naturale sarebbe esso – il voto – a venire delegittimato. Tra l’altro la presa di Roma del 1870 non fu nemmeno decisa in questa forma, quindi non ha nemmeno la scusa del formalismo procedurale democratico.
Sono passati 150 anni dalla Breccia di Porta Pia. La Chiesa per prima ha perduto la memoria a questo proposito. Ma come può oggi la Chiesa parlare in ambito pubblico senza avere le idee chiare su cosa legittima il potere politico? E se il problema della legittimità viene risolto tramite l’effettualità (è legittimo quanto si impone di fatto) crolla tutto l’assetto della società giusta, in ogni aspetto della vita comunitaria e parlare di bene comune diventa impossibile.
Stefano Fontana
ZUAVI PONTIFICI, AMMIRATI ANCHE DAI NEMICI
https://lanuovabq.it/it/porta-pia-dopo-150-anni-ancora-irrisolto-il-nodo-chiesa-stato
Il risorgimento secondo Biffi: lo Stato ignorò la nazione
Con l'unità d'Italia iniziò a circolare l’idea che non è Dio, ma l’uomo, a fare le leggi del mondo e il sacro subì un’eclissi. L'errore, per il cardinale Giacomo Biffi, non fu la fine del potere temporale della Chiesa ma che l'eredità cattolica, vero collante della nazione italiana, non solo non fu considerata dai responsabili del nuovo Stato ma fu avversata.
Oggi, 20 settembre 2020, ricorrono i 150 dalla breccia di Porta Pia, l’entrata dei “piemontesi” (come venivano chiamati) nella città eterna, uno degli episodi cardine della nostra storia recente. La presa di Roma fu in un certo senso il culmine del processo risorgimentale, un processo che ha poi portato alla nascita dell’Italia come la conosciamo oggi.
Il Risorgimento fu fenomeno complesso e uno sguardo molto attento su di esso lo ebbe il Cardinale Giacomo Biffi (1928-2015), già arcivescovo di Bologna e figura importantissima del cattolicesimo del ventesimo secolo. Il cardinale Biffi si occupò spesso del tema del Risorgimento e del tema della nazione Italia, un tema che evidentemente gli stava particolarmente a cuore. Qui ci interessa specialmente un ampio saggio contenuto nel volume Pinocchio, Peppone, l’anticristo e altre divagazioni (Cantagalli). Il saggio si chiama Risorgimento, identità nazionale e stato laico ovvero Uno “stato” a spesa di una “nazione”. Già dal titolo si capisce molto.
Saltando e sintetizzando, si può dire che il cardinale affermi che l’Italia aveva mostrato una grande vitalità artistica, culturale, sociale almeno fino al settecento ma poi entrò in un periodo di grande crisi. Già Roger Scruton nel suo "Essere conservatore" aveva identificato nel XVII secolo come uno snodo fondamentale per capire l’evoluzione storica recente: “Nel XVII secolo, quando la religione organizzata e la regalità cerimoniale persero la loro presa sulla mentalità della gente, quando lo spirito democratico mise in discussione il retaggio istituzionale e quando iniziò a circolare l’idea che non è Dio, ma l’uomo, a fare le leggi del mondo dell’uomo, l’idea del sacro subì un’eclissi”. Quel secolo fu una fine e un inizio, o un inizio della fine. Lo stesso Biffi afferma: “Come si vede, proprio dal momento che, con un governo "italiano", con un parlamento "italiano", con un esercito "italiano", siamo stati accolti nel consesso dei popoli come un soggetto autonomo e ben individuato, parrebbe che non avessimo più niente da dire a nessuno“. Egli in pratica afferma che l’unificazione nazionale ha coinciso anche con un momento di grande crisi della nostra nazione, l’unificazione non ha portato ad una creatività ma soltanto ad evidenziare una crisi già in corso.
Il cardinale però imputa una grave colpa: “L'errore più grave però è stato quello di aver sottovalutato il radicamento nell'animo italiano della fede cattolica e la sua quasi consostanzialità con l'identità nazionale". Questo anche perché, come sappiamo bene, il Risorgimento ebbe una connotazione fortemente anticattolica, fu orchestrato da forze e poteri che avevano tutto l’interesse nel danneggiare il cattolicesimo e la sua presenza nell’animo degli italiani.
C’è stata anche una incomprensione della differenza fra nazione e Stato. La nazione e tutto ciò che lega culturalmente, storicamente, quasi antropologicamente certe persone, mentre lo Stato è una istituzione politica di governo. In questo senso, la nazione italiana è ovviamente fortemente impregnata della sua eredità cattolica e questo non solo non è stato considerato dai responsabili del nuovo Stato ma è stato anche avversato, andando contro la vera essenza di quelle popolazioni che si voleva governare: “Ridurre concettualmente la nazione italiana entro l'idea di quello Stato, che da nemmeno un secolo e mezzo costituisce, per così dire, il suo rivestimento politico, è un equivoco più o meno consapevole che potrebbe poi determinare inconvenienti non da poco nel modo di concepire la nostra vita associata“. Non bisogna dimenticare, ci dice il cardinale, che istituzioni come università, ospedali, associazioni varie di assistenza, nascono in conseguenza della nostra eredità cattolica. Quindi non si può essere “culturalmente italiani“ se non si tiene conto di quella eredità.
Il cardinale non ha uno sguardo nostalgico verso la situazione politica precedente al Risorgimento, anzi lui anche mette in luce quali sono stati i guadagni che sono venuti dal tempo risorgimentale. Uno di questi è la fine del potere temporale: “Il terzo "guadagno" rallegra in modo speciale i veri credenti ed è la scomparsa del "potere temporale" pontificio, che nessun cattolico si sogna più di rimpiangere". Questo punto è stato del resto messo in luce anche da alcuni pontefici della storia recente.
Il cardinale chiama a una riflessione sul modo in cui la nazione è stata considerata nella nascita del nuovo Stato, uno Stato in cui per rispetto delle minoranze si mettono in discussione i diritti della maggioranza. Il cardinale osserva anche alla fine del suo saggio: “Noi non contestiamo affatto lo "Stato unitario", né ci auguriamo il suo svigorimento o la sua frantumazione. Chiediamo però che lo "Stato" lasci vivere e respirare di più la "nazione", in tutte le diverse realtà che la compongono; e anzi, in virtù del "principio di sussidiarietà", l'aiuti efficacemente a vivere e a crescere in tutta la sua multiforme ricchezza. La seconda distinzione indispensabile è quella tra la "laicità dello Stato" (che deve garantire la libertà effettiva di tutti i singoli e di tutte le aggregazioni, ed è incompatibile con ogni confessionalismo religioso o ideologico) e la cultura laicista, che è appunto una delle possibili, ma certo non doverose, opzioni ideologiche".
La riflessione di questo grande cardinale, una riflessione pacata e non ideologica, andrebbe posta ancora al centro di tutte le considerazioni che si fanno sulla nostra storia recente, una storia che ancora sembra non aver identificato un vero punto di svolta.
Aurelio Porfiri
https://lanuovabq.it/it/il-risorgimento-secondo-biffi-lo-stato-ignoro-la-nazione
Nessun commento:
Posta un commento
Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.