Il Card. Parolin spiega perché il Vaticano rinnoverà l’accordo provvisorio con la Cina. Lo ha fatto con la prolusione di apertura al convegno organizzato a Milano dal Centro missionario PIME sul tema “Un’altra Cina. Tempo di crisi, tempo di cambiamento”. Riprendiamo l’articolo pubblicato su Vaticannews.

 

Card. Pietro Parolin
Card. Pietro Parolin, Segretario di Stato Vaticano

 

L’accordo provvisorio che la Santa Sede ha firmato con la Repubblica Popolare Cinese e che riguarda la nomina dei vescovi, “è solo un punto di partenza”, che ha portato alcuni risultati: perché “il dialogo possa dare frutti più consistenti è necessario continuarlo”. Lo ha detto il cardinale Pietro Parolin, Segretario di Stato, nella prolusione di apertura al convegno organizzato a Milano dal Centro missionario PIME sul tema “Un’altra Cina. Tempo di crisi, tempo di cambiamento”. Il convegno celebra i 150 anni di presenza dei missionari del Pontificio Istituto Missioni Estere in Cina. Parolin ha ribadito quanto già scritto dal cardinale Giovanni Battista Re, e cioè che Benedetto XVI aveva approvato il progetto di accordo sulla nomina dei vescovi che soltanto nel 2018 è stato possibile firmare.

Il tentativo di Pio XII
La prolusione del cardinale si snoda attraverso la storia, a partire dall’indimenticata presenza del gesuita Matteo Ricci in Cina alla fine del Cinquecento, per ricordare poi l’arrivo dei missionari del PIME un secolo e mezzo fa in Henan. Parolin ha quindi citato i tentativi di dialogo avvenuti dopo l’inizio della Repubblica Popolare Cinese con la salita al potere di Mao. “Il 17 gennaio 1951 – ha detto il Segretario di Stato – le autorità invitarono alcuni vescovi e sacerdoti cattolici ad un incontro cui partecipò anche il Primo Ministro e Ministro degli Esteri Zhou Enlai. Questi assicurò che i cattolici avrebbero potuto continuare a seguire l’autorità religiosa del Santo Padre ma dovevano assicurare piena lealtà patriottica nei confronti del loro Paese. Iniziò allora il tentativo di stendere un documento contenente questi due principi, cui parteciparono non solo vescovi e sacerdoti ma anche il segretario dell’internunzio Antonio Riberi: quest’ultimo lo inviò infatti a Pechino proprio perché partecipasse a tale tentativo. Ciò mostra che fin dal tempo di Pio XII, la Santa Sede avvertì l’esigenza del dialogo, anche se le circostanze di allora lo rendevano molto difficile”. Nei primi mesi del 1951, furono redatte ben quattro stesure di un possibile accordo, ma purtroppo non venne considerata soddisfacente. “Credo che al fallimento di tale tentativo abbiano contribuito – oltre alle tensioni internazionali: erano gli anni della Guerra di Corea – anche le incomprensioni fra le due parti e la sfiducia reciproca. È un fallimento che ha segnato tutta la storia successiva”.

La riapertura del dialogo
Dopo quel tentativo sono passati quasi trent’anni prima che si potesse riaprire la strada del dialogo.  Ricordo in particolare il viaggio compiuto dal card. Echegaray nel 1980 – ha detto Parolin – quando la Cina aveva appena cominciato ad uscire dalla dolorosa esperienza della Rivoluzione culturale. Da allora ha avuto inizio un percorso che – tra alterne vicende – ha condotto fino ad oggi”. Il cardinale ha spiegato che tutti i pontefici da Paolo VI a Francesco hanno cercato quello che Benedetto XVI ha indicato come il superamento di una “pesante situazione di malintesi e di incomprensione” che “non giova né alle Autorità cinesi né alla Chiesa cattolica in Cina”. Citando il suo predecessore Giovanni Paolo II, Benedetto XVI aveva scritto nel 2007: “Non è un mistero per nessuno che la Santa Sede, a nome dell’intera Chiesa cattolica e — credo — a vantaggio di tutta l’umanità, auspica l’apertura di uno spazio di dialogo con le Autorità della Repubblica Popolare Cinese, in cui, superate le incomprensioni del passato, si possa lavorare insieme per il bene del Popolo cinese e per la pace nel mondo”. Proprio in quegli anni, come ha scritto il cardinale Giovanni Battista Re nei mesi scorsi, Papa Benedetto XVI approvò “il progetto di accordo sulla nomina dei vescovi in Cina, che soltanto nel 2018 è stato possibile firmare”.LEGGI ANCHE01/10/2020

Parolin: l’accordo con la Cina, una scelta pensata e pregata

Malintesi sull’accordo
Parolin ha quindi voluto fare ancora una volta chiarezza smentendo le letture politiche di un accordo genuinamente pastorale. “Sono sorti alcuni malintesi. Molti di questi nascono dall’attribuzione all’Accordo Provvisorio tra la Santa Sede e la Repubblica Popolare Cinese di obiettivi che tale Accordo non ha. Oppure dalla riconduzione all’Accordo di eventi riguardanti la vita della Chiesa cattolica in Cina che sono ad esso estranei. O ancora a collegamenti con questioni politiche che nulla hanno a che fare con questo Accordo. Ricordo ancora una volta – e su questo punto la Santa Sede non ha mai lasciato spazio a equivoci o confusioni – che l’Accordo del 22 settembre 2018 concerne esclusivamente la nomina dei vescovi”. Il Segretario di Stato si è detto “consapevole dell’esistenza di molti altri problemi riguardanti la vita della Chiesa cattolica in Cina. Ma non è stato possibile affrontarli tutti insieme e sappiamo che il cammino per una piena normalizzazione sarà ancora lungo, come già prevedeva Benedetto XVI nel 2007. Tuttavia la questione della nomina dei vescovi riveste una particolare importanza. È infatti il problema che più ha fatto soffrire la Chiesa cattolica in Cina negli ultimi sessant’anni”.

Un primo obiettivo raggiunto
“Per la prima volta dopo tanti decenni – ha detto ancora Parolin – oggi tutti i vescovi in Cina sono in comunione con il vescovo di Roma” . Chi conosce la storia della Chiesa in Cina “sa quanto sia importante che tutti i vescovi cinesi siano in piena comunione con la Chiesa universale. Molti di coloro che non sono stati in piena comunione con il Papa nei decenni passati erano stati formati dai missionari, i quali ben conoscevano il loro cuore e la loro fede”. Molti di questi vescovi consacrati illegittimamente “hanno chiesto il perdono del Papa e la piena riconciliazione. Ciò mostra che, al fondo, il loro cuore non era mutato e la loro fede non era venuta meno”. Fino a due anni fa, tuttavia, la possibilità di nuove ordinazioni illegittime è sempre rimasta aperta. Per questo era necessario, ha ribadito il Segretario di Stato, “affrontare e risolvere definitivamente questo delicato problema. Ma l’esperienza di tanti decenni mostrava (e mostra) che tale soluzione passava (e passa) necessariamente attraverso un accordo tra la Santa Sede e le autorità della Repubblica popolare cinese. Per questo motivo la Santa Sede ha ripetutamente sottolineato che l’obiettivo dell’Accordo è anzitutto ecclesiale e pastorale”. Dalla sua implementazione, ha aggiunto Parolin, “dipende infatti la possibilità di scongiurare – si spera definitivamente – l’eventualità di altre ordinazioni illegittime. Si è voluto in altre parole, operare per evitare alla Chiesa in Cina altre esperienze simili a quelle dolorosamente vissute negli ultimi sessant’anni”. L’obiettivo della Santa Sede è dunque pastorale, “cioè aiutare le Chiese locali affinché godano condizioni di maggiore libertà, autonomia e organizzazione, in modo tale che possano dedicarsi alla missione di annunciare il Vangelo e di contribuire allo sviluppo integrale della persona e della società”.LEGGI ANCHE29/09/2020

Santa Sede e Cina, le ragioni di un Accordo sulla nomina dei vescovi

Segni positivi tra i cattolici cinesi
Parolin ha concluso dicendosi “consapevole che l’Accordo provvisorio tra Santa Sede e Repubblica popolare cinese del 22 settembre 2018 costituisce solo un punto di partenza. Due anni sono un periodo molto breve per valutare i risultati di un accordo”. Alle difficoltà di iniziare un processo tanto nuovo si sono aggiunte quelle create dal Covid 19. Alcuni risultati “ci sono stati ma perché il dialogo possa dare frutti più consistenti è necessario continuarlo. Da parte della S. Sede, perciò, c’è la volontà che l’Accordo sia prolungato, ad experimentum come è stato finora, in modo da verificarne l’utilità”. Il cardinale ha affermato di aver notato “in questi due anni, segni di avvicinamento tra i cattolici cinesi che su tante questioni sono rimasti a lungo divisi”. Un segno importante perché alla comunità cattolica in Cina “il Papa affida in modo particolare l’impegno di vivere un autentico spirito di riconciliazione tra fratelli, ponendo dei gesti concreti che aiutino a superare le incomprensioni del passato, anche del passato recente. In questo modo i fedeli, i cattolici in Cina potranno testimoniare la propria fede, un genuino amore e aprirsi anche al dialogo tra tutti i popoli e alla promozione della pace”. Molto attuale, infine, ha concluso il Segretario di Stato, anche “un altro obiettivo che ci proponevamo con la firma dell’Accordo Provvisorio tra la Santa Sede e la Repubblica Popolare Cinese sulla nomina dei vescovi: il consolidamento di un orizzonte internazionale di pace, in questo momento in cui stiamo sperimentando tante tensioni a livello mondiale”.

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Sulla Cina il Vaticano bara

La Santa Sede ha deciso di proporre il prolungamento dell'Accordo sulla nomina dei vescovi, e ha affidato ad Andrea Tornielli il compito di spiegarne le ragioni. Ma per poter sostenere la positività dell'accordo, Tornielli descrive una realtà cinese che esiste solo nell'immaginazione di chi vuole questo Accordo a tutti i costi.

Che la Santa Sede avesse tutta l’intenzione di prorogare l’accordo con la Cina per la nomina dei vescovi in scadenza in ottobre, era chiaro da tempo. Ma l’altra sera è arrivata l’ufficiosità con un editoriale su Vatican News di Andrea Tornielli, direttore editoriale del Dicastero per la Comunicazione della Santa Sede, da sempre vicinissimo a papa Francesco.

Lasciamo perdere il fatto che tale annuncio sia stato fatto a poche ore dall’arrivo a Roma del segretario di Stato Usa Mike Pompeo, dandogli così un connotato chiaramente politico e polemico con le critiche Usa al dialogo vaticano con la Cina. Soffermiamoci invece sul contenuto dell’articolo che, per la prima volta, esplicita le ragioni della Santa Sede per continuare sulla strada intrapresa.

Il succo del discorso è questo: l’accordo provvisorio sulla nomina dei vescovi, poteva forse produrre maggiori frutti, ma passi positivi ce ne sono comunque stati (malgrado dieci mesi di lockdown causa Covid-19) e quindi è giusto proseguire su questa strada. Un discorso semplice, lineare, coerente. Peccato che per ottenere tale logica conclusione Tornielli abbia cambiato le carte in tavola, e anche la tavola stessa.

Vediamo i singoli passaggi. Sottolinea Tornielli che l’accordo in questione è «sempre stato genuinamente pastorale», cioè riguarda esclusivamente la nomina dei vescovi: quindi non politico, non diplomatico e non riguarda neppure «i rapporti tra il clero e le autorità del paese». In realtà che l’accordo sia circoscritto alle procedure di nomina dei vescovi nessuno lo ha mai contestato: se non altro perché nessuno conosce il contenuto di questo accordo (scandalosamente tenuto ancora segreto) e quindi si sta alle dichiarazioni delle parti. Ma detto questo come si può pensare che la nomina dei vescovi si possa totalmente isolare dalla condizione della Chiesa – e quindi dei cattolici - in Cina? La situazione da questo punto di vista è enormemente peggiorata, la repressione si è fatta più intensa, contro le persone, contro gli edifici di culto e ogni simbolo cristiano.

Il regime cinese sta di fatto usando l’accordo con la Santa Sede per avere carta bianca nella repressione dei cattolici. E il Vaticano si comporta come chi per salvare un armadio in camera accettasse di veder distrutta tutta la casa: un controsenso.

Inoltre che l’accordo non riguardi «i rapporti tra il clero e le autorità del paese» è smentito dagli stessi documenti vaticani. Il 28 giugno 2019 infatti, la Santa Sede ha pubblicato gli “Orientamenti pastorali circa la registrazione civile del clero in Cina”, in cui si fa esplicito riferimento all’Accordo provvisorio del 22 settembre 2018 per giustificare l’indipendenza della Chiesa cinese e l’invito della Santa Sede ai preti a registrarsi presso l’Associazione patriottica, ovvero la Chiesa ufficiale controllata dal Partito Comunista.

E ancora: il problema della segretezza, come detto sopra, aggrava non poco la situazione perché i cattolici cinesi, chiamati a obbedire al Papa, non sanno neanche a cosa devono obbedire mentre sull’altro fronte il regime comunista ha buon gioco a imporre qualsiasi misura facendosi scudo con un presunto consenso del Papa. Si tratta dunque di un gioco diplomatico fatto sulla pelle dei cattolici cinesi.

Ma il meglio deve ancora venire, ed è quando Tornielli passa ad elencare i risultati positivi dell’accordo proprio riguardo alla nomina dei vescovi, tali che «suggeriscono di andare avanti con l’applicazione dell’Accordo per un altro periodo di tempo». Dice il gran capo della comunicazione vaticana: «I primi due anni hanno portato a nuove nomine episcopali con l’accordo di Roma e sono stati riconosciuti ufficialmente dal governo di Pechino alcuni vescovi». 

In realtà la prima affermazione è falsa: dopo il 22 settembre 2018 ci sono state due sole nuove ordinazioni episcopali ma erano già state concordate prima dell’Accordo. La seconda affermazione è invece parziale: gli «alcuni vescovi» clandestini riconosciuti da Pechino in realtà sono solo due su 17, mentre al contempo Roma ha legittimato tutti e sette i vescovi scomunicati, affidando loro le rispettive diocesi e in due casi costringendo a dimettersi i vescovi legittimi.

Per una descrizione dettagliata della situazione dei vescovi in Cina, rimandiamo a un’ottima sintesi fatta nel giugno scorso dal vaticanista Sandro Magister (clicca qui). Basti però citare una sola cifra: in Cina ci sono 135 tra diocesi e prefetture apostoliche, di queste solo 72 avevano un vescovo prima del 22 settembre 2018, poco più della metà; l’Accordo doveva servire anche a colmare questo vuoto, ma ad oggi il numero di diocesi coperte è rimasto invariato. A questo si deve aggiungere che alcuni vescovi sono apertamente perseguitati e impediti di svolgere il proprio ministero.

C’è poi un’altra situazione gravissima che viene ignorata da Tornielli: la situazione della diocesi di Hong Kong, di cui abbiamo parlato nei giorni scorsi con una intervista al cardinale Joseph Zen. Qui manca il vescovo dal gennaio 2019, soprattutto per il veto posto da Pechino alla successione dell’attuale vescovo ausiliare, Joseph Ha. E nelle prossime settimane potrebbe essere nominato invece monsignor Peter Choi, considerato gradito a Pechino. La cosa sarebbe gravissima perché la diocesi di Hong Kong – proprio per lo status particolare dell’ex colonia britannica – non rientra nella giurisdizione della Conferenza episcopale cinese e quindi non ha nulla a che fare con l’Accordo in questione. Sarebbe soltanto – e il ritardo nella nomina già lo è – una vergognosa capitolazione davanti al potere politico della Cina comunista.

Ma secondo Tornielli, e ovviamente il segretario di Stato cardinale Pietro Parolin e il Papa, tutto questo rappresenta uno sviluppo positivo. Bisogna essere davvero abili manipolatori dei fatti per vendere un fallimento totale come fosse un successo. Ma ciò che maggiormente amareggia è il disprezzo per le migliaia di cinesi che hanno pagato con il sangue la loro fedeltà alla Chiesa e al Papa.

Riccardo Cascioli

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