Concilio Vaticano II / Così l’uomo è stato messo al posto di Dio
Con un contributo di Gian Pietro Caliari una nuova puntata nel dibattito sul Concilio Vaticano II.
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“In quo mundabit adulescentior viam suam? In custodiendo sermones tuos” (Salmo 119, 9).
Questa la domanda che soggiace a tutti gli altri interrogativi che scandiscono il più lungo dei salmi dell’Antico Testamento (“Come renderà il giovane la sua via pura? Col badare ad essa secondo la tua parola”) che termina con una dolente constatazione e un’invocazione d’aiuto: “Sono andato fuori strada come un agnello perso; cerca il tuo servo, perché non ho dimenticato i tuoi comandamenti”.
In questo salmo il vero credente si riconosce come un Bar mitzwah, un figlio del precetto che non vede nella legge di Dio una mera prescrizione legalistica o ritualistica, ma il vero cammino che conduce alla Vita. “Vedi, io pongo oggi davanti a te la vita e il bene, la morte e il male; poiché io oggi ti comando di amare il Signore tuo Dio, di camminare per le sue vie, di osservare i suoi comandi, le sue leggi e le sue norme, perché tu viva” (Deuteronomio 30, 15-16).
Nell’attuale e oltremodo salutare dibattito sul Concilio Vaticano II bisogna ripartire proprio dalle sapienziali domande del salmista, come per altro lo stesso Vaticano II insegna: “In religioso ascolto della Parola di Dio e proclamandola con ferma fiducia, il santo Concilio fa sue queste parole di san Giovanni: annunziamo a voi la vita eterna, che era presso il Padre e si manifestò a noi: vi annunziamo ciò che abbiamo veduto e udito, affinché anche voi siate in comunione con noi, e la nostra comunione sia col Padre e col Figlio suo Gesù Cristo” (Dei Verbum, 1). E aggiunge: “A Dio che rivela è dovuta l’obbedienza della fede, con la quale l’uomo gli si abbandona tutt’intero e liberamente prestandogli il pieno ossequio dell’intelletto e della volontà” (Ibidem, 5).
In questa sapienziale prospettiva, trascorsi ormai cinquantacinque anni dalla chiusura del Vaticano II, è legittimo porsi alcuni interrogativi.
Come, innanzi tutto, valutare gli esiti della tanto declamata “dimensione pastorale” del Concilio?
Se lo chiedeva nell’ormai lontano 7 dicembre 1965 lo stesso Paolo VI, chiudendo i lavori dell’assise conciliare: “Per valutarlo degnamente bisogna ricordare il tempo in cui esso si è compiuto; un tempo che ognuno riconosce come rivolto alla conquista del regno della terra piuttosto che al regno dei cieli; un tempo in cui la dimenticanza di Dio si fa abituale e sembra, a torto, suggerita dal progresso scientifico; un tempo in cui l’atto fondamentale della personalità umana, resa più cosciente di sé e della sua libertà, tende a pronunciarsi per la propria autonomia assoluta, affrancandosi da ogni legge trascendente; un tempo in cui il laicismo sembra la conseguenza legittima del pensiero moderno e la saggezza ultima dell’ordinamento temporale della società; un tempo, inoltre, nel quale le espressioni dello spirito raggiungono vertici d’irrazionalità e di desolazione; un tempo, infine, che registra anche nelle grandi religioni etniche del mondo turbamenti e decadenze non prima sperimentate”.
Appare legittimo osservare che a distanza di più di mezzo secolo a nessuna delle problematiche così acutamente osservate e minuziosamente elencate dal pontefice bresciano la Chiesa cattolica con la sua “pastorale conciliare” ha saputo o potuto offrire non solo un rimedio, ma un’alternativa convincente e credibile! Anzi, l’analisi montiniana appare oggi ancor più drammaticamente profetica!
La Chiesa uscita dal Concilio – sempre secondo le parole di Paolo VI – avrebbe dovuto offrire al mondo una “concezione teocentrica e teologica dell’uomo e dell’universo, quasi sfidando l’accusa d’anacronismo e di estraneità che si è sollevata con questo Concilio in mezzo all’umanità, con delle pretese che il giudizio del mondo qualificherà dapprima come folli, poi, Noi lo speriamo, vorrà riconoscere come veramente umane, come sagge, come salutari; e cioè che Dio È. Sì, È reale, È vivo, È personale, È provvido, È infinitamente buono; anzi, non solo buono in sé, ma buono immensamente altresì per noi, nostro creatore, nostra verità, nostra felicità, a tal punto che quello sforzo di fissare in Lui lo sguardo ed il cuore, che diciamo contemplazione, diventa l’atto più alto e più pieno dello spirito, l’atto che ancor oggi può e deve gerarchizzare l’immensa piramide dell’attività umana” (Paolo VI, Allocuzione all’ultima seduta del Concilio Vaticano II).
Ebbene, ci domandiamo, perché anziché avere una visione “teocentrica e teologica dell’uomo e dell’universo” abbiamo oggi – drammaticamente – la predicazione di un verbo pagano cosmocentrico e di un ateo neo-antropocentrismo, che hanno avuto e avranno il loro manifesto ideologico in documenti come l’enciclica Laudato sì, la Dichiarazione di Abu Dhabi e nell’accettazione del neoumanesimo totalitario che sarà certamente il leitmotiv dell’imminente Fratelli tutti?
Dobbiamo constatare che, dopo quel lontano 7 dicembre 1965, è prevalsa nella Chiesa un’ermeneutica conciliare dell’immanenza che, nel velleitario e blasfemo tentativo di trasformare il Vaticano II in “evento fondatore” della Chiesa stessa, l’ha pervertito privandolo della sua più intima ma essenziale dimensione e visione trascendente.
La Chiesa del post-concilio è stata sottoposta da molti suoi pastori alla logica mondana dell’hic et nunc (qui e ora), perdendo la sua essenziale e imprescindibile dimensione dell’ibi et semper (là e sempre).
Il Vaticano II aveva pur ribadito che “Cristo è la luce delle genti: questo santo Concilio, adunato nello Spirito Santo, desidera dunque ardentemente, annunciando il Vangelo ad ogni creatura, illuminare tutti gli uomini con la luce del Cristo che risplende sul volto della Chiesa” (Lumen gentium, 1). Di questa Luce Divina la Chiesa doveva essere il sacramentum, un segno efficace, ma forse – come già osservava Romano Guardini, proprio in riferimento alla stessa Chiesa – “viviamo in un mondo di segni ma abbiamo perduto la realtà da essi significata” (I santi segni, Brescia 1996, p. 117).
L’attuale pontificato è solo il naturale epigono di quel Concilio o, invece, solo una ben miserevole eterogenesi delle finalità per le quali quell’assise fu voluta e si tenne?
Tenendo ben presente la gerarchia magistrale interna ai testi del Concilio stesso, di cui solo tre dogmatici (Sacrosantum Concilium implicitamente per la materia trattata, Dei Verbum e Lumen gentium per espressa titolazione), e distinguendo attentamente da ciò che il Concilio veramente auspicò e le molte e assai discutibili e persino deprecabili applicazioni post-conciliari – in primis la cosiddetta riforma liturgica! – chiediamo ancora a Paolo VI di aiutarci nella risposta.
“Possiamo noi dire d’aver dato gloria a Dio, d’aver cercato la sua conoscenza ed il suo amore, d’aver progredito nello sforzo della sua contemplazione, nell’ansia della sua celebrazione, e nell’arte della sua proclamazione agli uomini che guardano a noi come a Pastori e Maestri delle vie di Dio? Noi crediamo candidamente che sì. Anche perché da questa iniziale e fondamentale intenzione scaturì il proposito informatore del celebrando Concilio. Risuonano ancora in questa Basilica le parole pronunciate nella Allocuzione inaugurale del Concilio medesimo dal Nostro venerato predecessore Giovanni XXIII, che possiamo ben dire autore del grande Sinodo. Egli allora ebbe a dire: ‘Ciò che al Concilio Ecumenico massimamente interessa è questo: che il sacro deposito della dottrina cristiana sia custodito e proposto con maggiore efficacia’” (Allocuzione all’ultima seduta del Concilio Vaticano II).
Quanto lontane, persino estranee, appaiano e siano queste parole non nel tempo ma dall’attuale direzione della Chiesa cattolica, rapidamente imboccata da oramai sette anni, è lapalissiano!
Dobbiamo coraggiosamente dirlo col il salmista: “Sono andato fuori strada come un agnello perso”.
Un pontificato, quello attuale, “clinicamente morto” perché è “andato fuori strada”, fuori dalla strada di Colui che solo è Via, Verità e Vita.
Gian Pietro Caliari
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In Duc in altum il dibattito sul Concilio Vaticano II si è articolato finora attraverso i seguenti interventi:
Carlo Maria Viganò, Excursus sul Vaticano II e le sue conseguenze, 10 giugno 2020
Aldo Maria Valli, Il Concilio Vaticano II e le origini del deragliamento, 14 giugno 2020
Carlo Maria Viganò, Compito del prossimo papa? Riconoscere l’infiltrazione del Nemico nella Chiesa, 27 giugno 2020
Enrico Maria Radaelli, Il Dogma e l’Anticristo. Il Concilio Vaticano II e la maxi-spallata di monsignor Viganò, 4 luglio 2020
Carlo Maria Viganò, “Non penso che il Vaticano II sia invalido, ma è stato gravemente manipolato“, 4 luglio 2020
Aldo Maria Valli, Il Vaticano II e quell’errore fatale, 12 luglio 2020
Serafino Maria Lanzetta, Il Vaticano II e il Calvario della Chiesa, 13 luglio 2020
Alfredo Maria Morselli, “Non è il Concilio la causa di tutti i mali”, 14 luglio 2020
AA.VV, Consenso internazionale al dibattito sul Vaticano II aperto dai vescovi Viganò e Schneider, 15 luglio 2020
Enrico Maria Radaelli, Per il ritorno del dogma. Ovvero per far tornare la Chiesa a Cristo, 16 luglio 2020
Giovanni Cavalcoli, “Gli esiti pastorali del Concilio possono essere discussi, ma le dottrine vanno accettate”, 22 luglio 2020
Fabio Scaffardi, Il Vaticano II e quello “spirito” su cui va fatta chiarezza. Con le parole di Barsotti e Giussani, 27 luglio 2020
Cooperatores Veritatis, Vaticano II / Perché non arrivò la primavera ma un rigido inverno, 31 luglio 2020
Alessandro Martinetti, Il Concilio, il cardinale Biffi e quegli “accenti” che tradirono le parole, 6 agosto 2020
Il cardinale Joseph Zen risponde al professor de Mattei, 8 agosto 2020
De Mattei replica al cardinale Zen, 9 agosto 2020
Carlo Maria Viganò, Non cediamo alla tentazione di abbandonare la Chiesa perché invasa da eretici e fornicatori: sono loro che vanno cacciati!, 2 settembre 2020
Eric Sammons, “Difendevo il Concilio Vaticano II, ora lo critico. Ecco perché”, 4 settembre 2020
Carlo Maria Viganò, Risposta a padre De Souza e a padre Weinandy, 4 settembre 2020
Guido Pozzo, Rinnovamento e continuità, 10 settembre 2020
Giovanni Formicola, Se la storia diventa criterio di giudizio, 12 settembre 2020
Carlo Maria Viganò, Il Concilio Vaticano II e l’uso strumentale dell’autorità, 22 settembre 2020
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Adamo morente Piero della Francesca
di Alberto Strumia
Nel IV capitolo della Fides et ratio, che è stata la più “snobbata” tra le encicliche di san Giovanni Paolo II, si illustra la storia del rapporto tra “fede” e “ragione”. Un capitolo che è bene (ri)leggere e assimilare se si vuole capire quanto sta accadendo in questi nostri infelici momenti della vita della Chiesa e dell’umanità, dal tenore apocalittico. Ciò che viene messo in evidenza, nella prima parte del capitolo è il lavoro paziente ed intelligente dei filosofi pagani, convertitisi al cristianesimo. Non furono, infatti, principalmente i poveri e i diseredati – oggi tanto ideologicamente mitizzati – a convertirsi, ma anche e soprattutto gli studiosi e gli intellettuali, che non si accontentarono delle superstizioni pagane e del culto dell’imperatore del mondo romano. Questi trovarono nella persona e nella dottrina di Cristo quella che chiamarono «la vera filosofia» (Giustino, sec. II; Clemente Alessandrino, sec. II-III), una concezione della divinità, dell’uomo e di tutta la realtà che si può vivere e pensare, senza dover censurare nulla, neppure il male e la morte. Questi filosofi convertiti, divenuti Padri della Chiesa, si preoccuparono di realizzare un prodigioso “lavoro culturale” per creare nel modo di pensare e di vivere dei loro contemporanei, la “spazio teorico” e “pratico” per poter pensare e vivere cristianamente. Bisognava mettere a punto nuovi concetti, un nuovo linguaggio con il quale potere esprimere l’insegnamento di Cristo senza travisarlo o sminuirlo. Occorreva dare un nuovo significato a certe parole di uso comune come a quelle dotte della filosofia (emblematica è la parola “persona” che dal significato originario di “maschera teatrale” divenne denotativo della “persona umana” e delle “persone divine”). Si venne così, un po’ alla volta, a creare una mentalità e un linguaggio che rendeva pienamente comprensibile e desiderabile, per la sua convenienza umana, il cristianesimo. E così nella società si venne a costituire, un po’ alla volta, anche uno “spazio pratico” per viverlo, che la trasformò beneficamente, grazie alla stabilità della famiglia fondata sul matrimonio indissolubile, sul rispetto della vita nascente, sulla progressiva eliminazione della schiavitù. Uno spazio che garantì alla fede di divenire “cultura”, di essere una dimensione “pubblica” della vita personale e sociale dei popoli.
Ma siamo sulla terra e non in Paradiso e Satana è sempre all’opera per cercare di corrodere, con l’inganno, la verità e il bene. Così la verità può essere degradata progressivamente nella menzogna dell’“ideologia”, e il bene nel male dell’“immoralità”. Nella seconda parte del IV capitolo della Fides et ratio, in particolare, viene illustrato il progressivo processo di degrado delle prodigiose sintesi filosofiche e teologiche alle quali erano giunti, tra i grandi, sant’Agostino (sec. IV) e san Tommaso d’Aquino (sec. XIII). L’illusione ideologica che guida l’opera del degrado è sempre quella che muove dal “peccato originale”, che si ripresenta nella convinzione ingannevole di potersi appropriare del Paradiso Terrestre facendo a meno di Dio, per prendere il Suo posto, e nel finire per adorare la propria creazione teologica fino a metterla al posto di Cristo. E poi quella di costruire una “cultura” e una “civiltà” basate su valori nominalmente cristiani, facendo a meno di Cristo, Figlio di Dio e vero uomo. Ma una cultura cristiana senza la fede in Cristo – uomo-Dio – che la genera, è come la torre di Babele: finisce nel relativismo delle lingue, delle ideologie contrapposte, nell’anarchia sociale, nell’invivibilità domestica e individuale.
Questa operazione di “autodivinizzazione” dell’uomo, già presente prima del cristianesimo in certe sette esoteriche gnostiche del mondo greco e romano (e vicino a noi nelle logge massoniche e nelle sette sataniche), finì per attaccare il cristianesimo, cercando di penetrare anche nella Chiesa, per poterne prendere il controllo. E in certi momenti sembrò esserci quasi riuscita (come accade in particolare oggi!).
In un bellissimo testo del padre domenicano Marie-Joseph Le Guillou, pubblicato nel 1973, si descrive il modo di lavorare della “gnosi” che si ripresenta regolarmente, pur sotto forme adeguate ai diversi momenti della storia, nei diversi secoli della vita della Chiesa e del mondo, per corroderla dall’esterno e dell’interno, fino a cercare di prenderne il controllo dal vertice. Riporto una pagina particolarmente significativa tratta dal suo libro. In parentesi quadre inserisco qualche annotazione mia per facilitarne la comprensione alla luce dell’attualità.
«L’oggetto formale della fede è, in effetti, il Dio vivente [e non la “fratellanza universale”, l’“equivalenza di tutte le religioni”, il “pacifismo”, l’“ambiente”, la “natura”, la “madre Terra”, idolatrati come divinità al posto di Cristo che viene nominato il meno possibile, mal volentieri e distorcendolo] che, nella Sua parola, rivela se stesso e il disegno secondo il quale ha liberamente pensato di creare, adottare a salvare l’umanità [l’uomo, per come è ridotto oggi a sopportare un mondo invivibile, ha bisogno di essere “riparato”, salvato alla radice e non appena negli aspetti esteriori socio-politici (che sono un effetto più che la vera causa del problema umano) come si predica ormai ovunque] nel suo Figlio. Esso obbliga a prendere posizione l’uomo che nel Cristo si scopre come creatura filialmente adottata da Dio sin dall’eternità; scopre l’articolazione di queste due dimensioni, di creazione e di adozione, nell’unico “mistero” che è il Cristo e che è, come nodo teandrico [divino-umano], il centro ermeneutico “cattolico” della Rivelazione. [Quando Giovanni Paolo II prima e Benedetto XVI poi, lanciarono all’umanità la “sfida” a tutti gli uomini, compresi i non credenti, di provare a seguire, inizialmente almeno come ipotesi, se non ancora per convinta fede, la concezione cristiana cattolica di Dio, dell’uomo e del mondo, per metterla alla prova come via seriamente risolutiva della condizione umana, con la prospettiva dell’eternità, intendevano proprio questo. Prendere Cristo come «centro ermeneutico», cioè chiave interpretativa, indispensabile per capire fino in fondo come “funzionano” la vita e la storia. La formula provare a «vivere come se Dio esistesse», intendeva sintetizzare questa sfida (Benedetto XVI, ai giornalisti, 7-10-2010). Ma dopo di loro questa sfida è stata del tutto abbandonata nella Chiesa e si è presa la direzione opposta, con i disastri che ne conseguono].
Colpendo l’oggetto formale della fede, disconoscendo il mistero come centro ermeneutico, la crisi, iniziata nella Chiesa ormai da secoli – senza dubbio dal XIV [è l’epoca del “nominalismo” da cui ha inizio quello che oggi chiamiamo “relativismo”, che dissolve la “verità” in una molteplicità di “opinioni” e di “dubbi”, e la realtà “oggettiva” delle cose in una “soggettiva” finzione prodotta dal nostro “io”] –, è la più grave che la Chiesa abbia conosciuto dopo la gnosi.
Secondo la diagnosi cui siamo pervenuti, siamo attualmente in una nuova crisi gnostica, cioè in una crisi che consiste essenzialmente nella perdita dell’organicità propria della verità cristiana, analoga a quella che ha scosso sin dai fondamenti il cristianesimo primitivo.
Cos’è dunque la gnosi?
La gnosi corrisponde innanzitutto ad un atteggiamento dello spirito. Può dunque svilupparsi all’interno dei quadri culturali più diversi, secondo le epoche e i luoghi. In ogni tempo costituisce un parassita endemico della fede cristiana – almeno in certe zone marginali della Chiesa [ma oggi, addirittura nei suoi vertici e, insieme, nella capillarità delle sue strutture di formazione del clero, dei catechisti, di coloro che vanno ancora in chiesa e di quelli che non ci vanno ormai più se non occasionalmente]. Nelle epoche in cui la cultura si trova strutturata a partire da un principio metafisico [quando la società è culturalmente ancora basata su una legislazione e una mentalità oggettiva – che si rifà alla legge morale naturale e al diritto naturale – erede del cristianesimo], la gnosi è costretta ad assumere la forma di correnti esoteriche [private, nascoste, settarie], nettamente distinte dal nocciolo ortodosso della fede ecclesiale. Ma cosa avviene nelle epoche di decomposizione culturale, in cui i sofisti si mettono a pullulare fra le macerie metafisiche di un mondo in crisi [in preda al relativismo e all’anarchia che prende il posto della democrazia, divenendo regime, dittatura del “pensiero unico” e del mondo globalizzato]: mondo ellenistico del II secolo, mondo medievale mediterraneo del XIII secolo (gioachinismo, catarismo), mondo occidentale del XX secolo? [Quando oggi in ambito teologico si spezza l’“unica economia della salvezza in Cristo” opponendo l’azione dello Spirito Santo a quella di Cristo e si teorizza la dissoluzione della Chiesa in una indefinita comunità di tutte le religioni, ci si rifà proprio a Gioacchino da Fiore che divideva la storia in un “Tempo del Padre” (antico Testamento), un “Tempo del Figlio” (il nuovo Testamento con la Chiesa) e un “Tempo dello Spirito” (quello odierno, del rapporto spirituale di ciascuno con il suo dio, nella religione che più gli piace)]. Mentre si sbriciola il senso della verità, la gnosi tenta di invadere il cuore stesso del dogma cattolico, sostituendo il suo progetto sofistico all’oggetto formale della Rivelazione, che per la Chiesa costituisce la norma della fede.
La gnosi si presenta allora come una perversione della verità cristiana. La sua eccezionale gravità è dovuta al suo carattere insidiosamente equivoco: prende a prestito dalla fede linguaggio e tematiche, ma per interpretarle poi a modo suo. [Oggi si usano le parole cristiane snaturandole nel loro significato, fino a renderle stucchevoli abusandone: “amore”, “carità”, “fratelli”, “poveri”, “misericordia”, “perdono”, “bene comune”, ecc.]. Lo gnostico, anche se non crede mai a tutti gli articoli del credo rivelato, ne utilizza tuttavia nel suo discorso un certo numero [in questo sta l’inganno dell’ambiguità delle “mezze verità” oggi utilizzato come metodo per allettare i fedeli ingenui facendoli cadere nell’errore senza che se ne accorgano]. Ma il credente autentico avverte un senso di malessere [oggi diffuso in non pochi credenti, i quali si sentono confusi e sono come «pecore senza pastore» (Mt 6,34), se non hanno la fortuna di incontrarne ancora qualcuno dottrinalmente e umanamente sano]. Avverte che qualche cosa non va, che gli oggetti della fede sono come deportati, decentrati in rapporto alla verità organica del dogma» (M.-J. Le Guillou, Il mistero del Padre, Jaca Book, Milano 1979, pp. 21-22).
La fedeltà alla vera Chiesa di Cristo sarà allora custodita «da piccoli gruppi, da movimenti e da una minoranza che rimetterà la fede e la preghiera al centro dell’esperienza e sperimenterà di nuovo i Sacramenti come servizio divino e non come un problema di struttura liturgica» (J. Ratzinger, 1969, qui), sotto la guida di quei pochi veri pastori. Ci auguriamo e preghiamo il Signore di poter appartenere a queste piccole comunità fedeli all’unico Signore e Salvatore Gesù Cristo e preghiamo perché quanti hanno smarrito la strada la possano ritrovare al più presto.
Alberto Strumia, sacerdote, teologo, già docente ordinario di fisica-matematica presso le università di Bologna e Bari.
fonte: albertostrumia.it
https://www.sabinopaciolla.com/la-fede-in-gesu-cristo-vero-uomo-dio-e-il-tarlo-della-gnosi/
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