Ecco le immagini del prete polacco portato via dalla polizia
Padre Michał Woźnicki, un salesiano espulso dall’ordine perché in conflitto con i suoi ex confratelli, è stato portato via dagli agenti con l’accusa di non aver rispettato le norme anti-Covid. Succede a Poznan, in Polonia.
“Questa è una cappella! Voi chi siete?” grida una donna mentre il sacerdote e il chierichetto vengono trascinati via con la forza.
La scena è drammatica. “Questa è la casa di Gesù, vero Dio e vero uomo. Per favore, inginocchiatevi” chiede il prete agli agenti, ma uno di loro replica: “Non mi dia ordini! Mi consegni invece una carta d’identità”.
Il sacerdote cerca di resistere. Dice che lì si sta pregando il rosario e osserva: “Il vostro volto è coperto. Temo che degli intrusi con cattive intenzioni abbiano invaso questa cappella”. Ma non c’è niente da fare. La polizia preleva il prete e lo porta via. Anche il ministrante è trascinato via con la forza, mentre è ancora inginocchiato.
Sono stati gli stessi salesiani a chiamare le forze dell’ordine, segnalando che padre Woźnicki stava celebrando senza la mascherina e senza rispettare le altre norme anti-Covid.
Un portavoce dei salesiani, commentando il caso, tiene a sottolineare che il sacerdote coinvolto nell’intervento della polizia non fa più parte dell’ordine dal 2018 e vive “illegalmente” nella casa religiosa di Poznan, città che da sabato scorso è in zona rossa.
Iwona Liszczyńska, dell’ufficio stampa della polizia, ha confermato all’agenzia di stampa polacca Pap che la richiesta d’intervento, in relazione al mancato rispetto delle norme per contrastare il coronavirus, è arrivata agli agenti dagli stessi salesiani. La polizia, ha riferito la portavoce, una volta arrivata nella cappella ha verificato che i presenti non indossavano la mascherina e non rispettavano la distanza di sicurezza.
Padre Michał Woźnicki, espulso dai salesiani, è da tempo in conflitto con i suoi ex confratelli. Noto per le sue critiche al pontificato di Francesco, celebra con il rito antico e sostiene che le restrizioni imposte dal governo contro il coronavirus non valgono all’interno del tempio del Signore.
I salesiani da tempo hanno intimato a padre Michał di andarsene dalla residenza dei religiosi e gli hanno intentato una causa per sfrattarlo, ma finora il sacerdote non se n’è andato e il verdetto della giustizia non è stato ancora emesso.
Fonte: tvp.info
Virus e Leviatano. Così stiamo perdendo la libertà. Anche di pensare
Un dispotismo statalista, condiviso e terapeutico. Questo il tipo di regime nel quale ci troviamo immersi, come scrivo nel mio ultimo libro, il breve saggio Virus e Leviatano (Liberilibri), da quando siamo alle prese con il coronavirus.
Perché parlo di dispotismo statalista, condiviso e terapeutico?
Con la pandemia sono state sospese le abituali procedure costituzionali e abbiamo smesso di essere una Repubblica parlamentare. Lo strumento dei decreti della presidenza del Consiglio ha assunto una centralità e una preminenza assolute.
È come se tutti (politica e cittadini) a fronte di uno stress test avessimo proclamato che diritti costituzionali di libertà e parlamentarismo sono lussi che ci possiamo permettere quando tutto va bene, ma non di fronte a una grave difficoltà.
Poiché accanto alla disinvoltura del governo nella sospensione dei diritti di libertà c’è stata la naturalezza dell’opinione pubblica nell’accettare il tutto, un nemico della libertà può averne tratto utili insegnamenti: è stato dimostrato che è molto facile sospendere le garanzie costituzionali e imprimere al sistema una svolta in senso autoritario.
Se la situazione di emergenza si dilatasse, sino a essere presentata e percepita come la normalità, che cosa succederebbe? Chi può assicurarci che in futuro un pericolo non potrebbe essere creato di proposito? C’è il rischio che lo stato di emergenza sia istituzionalizzato?
Di certo al nostro sistema democratico liberale è stata inferta una ferita profonda, ma pochi reagiscono.
Parlo di dispotismo perché il governo ha assunto una centralità senza precedenti. Ma che tipo di dispotismo è?
È un dispotismo condiviso, perché opinione pubblica e mass media l’hanno giustificato, assunto e fatto proprio. Così in un certo senso ha ripreso vita il Leviatano di Hobbes, il colosso autoritario che tutto controlla in cambio della sicurezza che gli individui ritengono di non essere in grado di darsi.
È anche un dispotismo statalista perché tutto è stato demandato all’iniziativa statale: l’iniziativa privata e dei corpi intermedi non è stata nemmeno presa in considerazione. Lo Stato è percepito come istituzione non solo e non tanto gestionale, ma salvifica.
È poi un dispotismo terapeutico, perché la Salute è divenuta un assoluto, il politico ha preso le sembianze del medico, il cittadino è diventato un paziente e la nazione un ospedale. Di qui un rapporto asimmetrico che favorisce il dispotismo stesso: non più il rapporto tra politico e cittadino, tra rappresentante e rappresentato, ma appunto il rapporto medico-paziente (che mette il paziente nelle condizioni di non discutere).
Sullo sfondo ecco il dogmatismo scientista, per cui “l’ha detto la scienza!” diviene sinonimo di verità assoluta. Ma non si tiene conto del fatto che la scienza, in realtà, non ha mai risposte certe. La scienza può solo studiare, mettere a confronto, analizzare dati. Quella di ottenere dalla scienza risposte certe è un’illusione.
Questo dispotismo statalista, condiviso e terapeutico rivela, paradossalmente, tante debolezze. Debolezza della politica, che si è messa nelle mani della tecnoscienza riconoscendosi incapace di affrontare i problemi. Debolezza dell’esecutivo che si è fatto cogliere impreparato ed è diventato autoritario nel tentativo di recuperare. Debolezza dello Stato, che ha risposto con la solita farraginosità e si è lasciato comandare dagli organismi sovranazionali. Debolezza della cosiddetta società civile, del tutto passiva. Debolezza della Chiesa, che si è prontamente allineata al dispotismo e alla narrazione dominante. In generale, debolezza antropologica dell’uomo contemporaneo, che pretende di essere messo al riparo da ogni tipo di contagio ed è spinto a chiedere protezione ignorando di avere in sé le risposte per reagire.
Aggiungo che è un dispotismo paternalista, perché ripete che lo fa per il nostro bene (si pensi al provvedimento denominato Cura Italia), ma nei fatti si comporta in modo autoritario.
Decisivo è il ruolo dell’informazione. Questo dispotismo, per sussistere e affermarsi, ha bisogno del sostegno attivo dei mass media, chiamati ad alimentare una narrativa fondata sul terrore. È la paura che giustifica il ricorso al dispotismo, e la paura va nutrita, diffusa. Il collegamento tra dispotismo condiviso e informazione è strettissimo e necessario.
Grazie alla paura, il cittadino (divenuto paziente) può solo lasciarsi guidare. La nascita, in piena pandemia, di una task force governativa contro le fake news è significativa. In una democrazia liberale sono i cittadini che si fanno un’idea del problema attraverso il libero confronto delle fonti e delle opinioni. In questo caso invece il governo ha preteso di stabilire esso stesso che cosa è verità e che cosa è menzogna, che cosa è vera informazione e che cosa non lo è, quali notizie e interpretazioni sono degne di essere diffuse e quali vanno stoppate.
Biopolitica e bioinformazione vanno a braccetto sul terreno del dispotismo paternalistico.
Aldous Huxley nel suo romanzo distopico Il mondo nuovo immaginò che il condizionamento avvenisse di notte, mentre i soggetti dormivano, attraverso la somministrazione di un certo tipo di messaggi. Oggi il condizionamento avviene davanti alla tv all’ora del telegiornale.
Una narrativa adeguata può spingere un intero popolo a suicidarsi per la paura di morire. È ciò che stiamo vedendo.
Non conta la reale portata del pericolo, ma la portata percepita. Non conta ciò che è, ma ciò che la gente pensa che sia, sulla base della narrativa che le viene imposta.
Renaud Girard, su Le Figaro, ha scritto: “I sociologi dovranno analizzare attentamente il ruolo svolto dai media nel far sorgere una psicosi mondiale di fronte a una malattia poco letale”. Nella speranza che saremo ancora liberi di condurre queste analisi.
Un altro contagio si è sviluppato accanto a quello del coronavirus, ed è ben più pericoloso: il contagio del panico.
Sotto molti aspetti è come se avessimo vissuto una classica rivoluzione di stampo socialista. Abbiamo avuto l’ideale supremo (la Salute), trasformato in un assoluto rispetto al quale tutto è sacrificabile. Abbiamo avuto il terrore come arma. Abbiamo avuto la narrativa adeguata allo scopo. Abbiamo i guardiani della rivoluzione, tutti i cittadini “responsabili”, soldati pronti anche alla delazione. Abbiamo avuto l’attacco alla Chiesa. Con la novità che la Chiesa, anziché opporre resistenza, si è adeguata, dimostrandosi persino più realista del re. Prevedibile, visto che la Chiesa non mette più al centro Dio ma l’uomo, non la salvezza dell’anima ma la salute psicofisica.
La parola Responsabilità è diventata la bandiera dell’esercito combattente per la liberazione dal virus. Chi non si adegua è irresponsabile, è il nemico. I drappi sui balconi (“Andrà tutto bene”) assomigliano agli slogan sui muri dell’Avana: “Venceremos, Hasta la victoria siempre.
Ogni rivoluzione ha le sue parole d’ordine. Nel nostro caso, oltre alla parola Responsabilità, ecco Salute, Sicurezza, Collaborazione.
Per la Chiesa è stata ed è una grande occasione mancata. La Chiesa avrebbe potuto finalmente dirci qualcosa sulla morte, sul peccato originale, sul significato della sofferenza e del male. Ha scelto di diventare Chiesa di Stato. Ha parlato come il governo. Si è concentrata sulle procedure di sanificazione e non sulla via verso la santità. Si è dimostrata ancor più terrorizzata di tutto il resto dell’opinione pubblica. Ha trasformato i suoi sacerdoti in grottesche maschere e la celebrazione eucaristica in una blasfema parodia, con il disinfettante al centro dell’altare, come nuovo oggetto di adorazione. La Chiesa non ha fatto resistenza alla narrativa fondata sul terrore. Si è adeguata e ha collaborato. Non ha denunciato l’attentato alla libertà religiosa e di culto: si è mostrata ansiosa di farsi limitare e controllare. La sposa di Cristo ha voltato le spalle al suo Signore e si è unita allo scientismo, lasciandosi ossessionare dal mito dell’igienizzazione. Si è premurata di spiegare che cosa Dio non può fare. Si è ben guardata dall’offrire al Signore l’occasione di fare un miracolo.
Abbiamo vissuto nel conformismo assoluto, che si realizza quando colui che perde la libertà non se ne rende nemmeno conto, perché è auto-asservito. Così il potere non ha nemmeno più bisogno di alzare la voce. Quanto più totale è il suo potere, tanto più muto è il suo comando. Basta un cenno. Noi non pensiamo. Noi siamo ciò che ci vien detto di essere. Siamo indotti ormai a ritenere che abbiamo bisogno solo di ciò che ci viene imposto. Il sospetto di aver perso la libertà non ci sfiora nemmeno, perché il conformismo non è più avvertito come tale ma passa come grande senso di responsabilità.
Curioso: nel momento stesso in cui la Chiesa ha disertato, ecco che ci vengono imposti modelli di stampo religioso. Abbiamo una Trinità (Scienza, Salute, Sicurezza), abbiamo il peccato (non collaborare, non dimostrarsi responsabili), abbiamo il castigo (essere letteralmente scomunicati, messi fuori dalla comunità in quanto indegni, se non si accetta la narrativa dominante), abbiamo le sacre scritture (i mass media allineati), abbiamo l’impellente richiesta di convertirci (alla tecnoscienza), abbiamo l’identificazione del credere con la salvezza, abbiamo i nuovi bacchettoni che giudicano tutto e tutti e mettono fuori dal consesso civile i pochi non disposti ad allinearsi, visti come miscredenti.
La nostra cultura secolarizzata, abbandonata la ratio, è caduta nel fideismo. Per non dire nella superstizione.
Su tutto, occorre ripeterlo, domina la paura. La paura che fa perdere il senno. Che fa accettare il sacrificio della libertà. Che fa vivere il conformismo assoluto come azione catartica.
Il Leviatano ci ha soggiogati utilizzando il terrore. Abbiamo dimenticato che l’esercizio del potere in un sistema democratico liberale è soggetto alla legge e che più di una dittatura è salita al potere dopo aver ottenuto il consenso in base a quelle che erano state spacciate come buone intenzioni.
Il nostro sistema possiede già gli strumenti per contemperare il rispetto della riserva di legge con l’urgenza (il decreto legge ne è un esempio), ma si è seguita un’altra strada.
La riserva di legge si chiama così perché riserva alla legge primaria, escludendo fonti di tipo secondario, la regolazione di una determinata materia. È una funzione di garanzia: vuole assicurare che in materie particolarmente delicate, come nel caso dei diritti fondamentali del cittadino, le decisioni vengano prese dall’organo più rappresentativo del potere sovrano, ovvero dal Parlamento, come previsto dall’articolo 70 della Costituzione, secondo cui la funzione legislativa è esercitata dalle due Camere. Nessun provvedimento che limiti le libertà fondamentali può essere preso saltando le prerogative parlamentari. Ma tutto è stato spazzato via dalla narrativa del terrore.
Abbiamo perfino dimenticato che lo Stato riceve il potere dal popolo, non è il popolo che ottiene concessioni dallo Stato. Abbiamo dimenticato che è consentito tutto tranne ciò è espressamente vietato, non è vietato tutto tranne ciò che è espressamente consentito.
Il prezzo che stiamo pagando è e sarà salatissimo sotto tutti i punti di vista: economico, sociale, psicologico.
C’è il tentativo di farci vivere non più in uno stato di diritto, ma in uno stato di polizia, in uno stato d’eccezione permanente. Siamo di fronte, occorre dirlo, a un tentativo eversivo. Pian piano le garanzie costituzionali saranno viste sempre di più come inutili pesi. E che cosa potrà impedire di approdare a adattamenti tali da snaturare completamente il sistema democratico liberale, magari puntando ancora sulla Salute? Già ora vediamo che lo stato di polizia inizia a contemplare l’ipotesi di introdursi nelle nostre case, mentre sollecita la delazione. Come nei Paesi dell’Est Europa prima della caduta del Muro.
Alexis de Tocqueville, analizzando il potere, specialmente amministrativo, negli Stati Uniti da lui visitati e studiati nel primo Ottocento, lo definì utilizzando cinque aggettivi: “È assoluto, particolareggiato, regolare, previdente e mite” (La democrazia in America). Mi sembra l’immagine di ciò che abbiamo sotto i nostri occhi. Conseguenza di quel tipo di potere, osserva Tocqueville, è che lo Stato cerca di mantenere i cittadini in una perenne condizione infantile. Lo Stato si occupa di loro, provvede a loro, toglie a loro “la fatica di dover pensare”.
“Piccole regole complicate, minuziose e uniformi” non sembrano costituire un pericolo per la democrazia liberale, ma inesorabilmente infiacchiscono, piegano, dirigono. Il popolo diventa massa informe, desiderosa soltanto di lasciarsi guidare. Questo tipo di Stato non è il classico tiranno che fa la voce grossa e minaccia. No, è quasi gentile. Però (uso ancora le espressioni di Tocqueville) “ostacola, comprime, snerva, estingue, riducendo infine la nazione a non essere altro che una mandria di animali timidi” e quindi bisognosi di un pastore.
Il dispotismo amministrativo non è segno di forza dello Stato, ma ammissione della sua debolezza. Poiché il potere centrale non è sicuro di sé ma è debole, incerto, smarrito, ecco che pretende di regolare tutto. Quando poi, come nell’attuale caso italiano, il capo del governo è un politico che non è stato nemmeno eletto dal popolo, il suo intimo senso di insicurezza è ancora più accentuato. Di qui una maggiore carica dispotica, tesa a legittimare un mandato che il capo sa di non aver mai ricevuto.
Aldo Maria Valli
https://www.radioromalibera.org/virus-e-leviatano-cosi-stiamo-perdendo-la-liberta-anche-di-pensare/
Solange Hutter: "Hanno trasformato la scuola in nosocomio"
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