Ma davvero Biden è stato eletto Presidente? O no?
(Maurizio Ragazzi) Che il Democratico Joe Biden sia stato eletto presidente appartiene, al momento, non alla realtà ma agli auspici dei suoi sostenitori cioè quella vasta coalizione che, oltre al partito Democratico (e restando negli USA, senza quindi interrogarsi sul ruolo di potentati stranieri), include sterminatori abortisti, grandi gruppi di potere, big tech, media ed altri limitatori della libertà d’informazione, (cosiddette) élites intellettuali, burocrazie ad ogni livello, contestatori e teppisti di professione, ed anti-trumpiani di ogni colore.
Il fatto è però che la constatazione ufficiale dei risultati di un’elezione, anche negli USA, è retta da un procedimento legale. La proclamazione non spetta né alla CNN né alla Fox, e nemmeno l’auto-incoronazione di un ben poco plausibile novello Napoleone può sortire alcun effetto, che non sia solo una forma di pressione psicologica su chi si lasci condizionare. (Il presidente della Conferenza episcopale americana sembra si sia lasciato impressionare, data la sua dichiarazione che Biden «ha ricevuto un numero sufficiente di voti per la sua elezione» – ma non è proprio questa la questione davanti ai tribunali? – e che Biden diventa con Kennedy «il secondo presidente degli Stati Uniti a professare la fede cattolica» – cattolico perché battezzato come tale, sì, ma nei fatti poco o niente cattolico (termine improprio in questo contesto) perché abortista, sostenitore del “matrimonio” omosessuale, e negatore dell’obiezione di coscienza ai mali morali intrinsici)[1].
Le scadenze relative al completamento del procedimento di attestazione dei risultati elettorali di quest’anno sono queste: (1) entro l’8 dicembre, gli stati certificano i loro rispettivi risultati; (2) il 14 dicembre, i 538 membri del Collegio Elettorale, convenuti nelle capitali dei rispettivi stati, esprimono il loro voto; e (3) il 6 gennaio, il Congresso federale, in seduta congiunta, conta i voti elettorali, decide su ogni eventuale obiezione, e proclama il vincitore per bocca del vice-presidente, che lo presiede[2]. Allo stato attuale, questo articolato procedimento non è neanche iniziato: anzi, in molti stati si stanno ancora conteggiando i voti!
Ma, si potrebbe obiettare, non sono queste nient’altro che mere formalità, dato che nella sostanza quasi tutte le fonti d’informazione (o, meglio, disinformazione) ci assicurano che Biden ha già vinto? Ebbene, se esiste un principio generale di cautela di “non dire gatto se non ce l’hai nel sacco”, il principio vale tanto più in queste circostanze, con una miriade di azioni legali, iniziate o annunciate, relative alle dubbie modalità di svolgimento delle elezioni[3], alle migliaia di voti per corrispondenza apparsi improvvisamente (e quasi tutti… stranamente per Biden), ai conteggi sospetti, agli ostacoli ad un controllo effettivo degli scrutatori, ai riconteggi automatici in alcuni stati che richiederanno tempo. Se solo si pensa che, nel 2000, la disputa fra Bush e Gore riguardava solo poche contee della Florida, ma la sua risoluzione richiese oltre un mese e due pronunce della Corte Suprema, si ha subito un’idea della complessità dell’attuale situazione, che coinvolge più stati dell’Unione.
Per convincersi poi (sempre che uno sia disposto a farsi convincere dai fatti) che le azioni legali in corso non sono affatto pretestuose, ma sono invece l’ultima salvaguardia contro elezioni-farsa adesso e nel futuro, basta prendere in considerazione il caso della Pennsylvania, uno stato che di frodi elettorali se ne intende davvero[4].
Già prima delle elezioni[5], il giudice costituzionale Alito aveva osservato come la Corte Suprema della Pennsylvania, contrariamente a quanto precedentemente stabilito dal legislatore dello stato[6], aveva permesso che il voto per corrispondenza arrivasse tre giorni dopo la data delle elezioni, e che sarebbe stato valido anche senza timbro postale. Queste assurdità, che espongono al rischio (se non alla certezza) di brogli, rendendo inattendibile l’intero sistema elettorale, sono confacenti ai tentativi dei Democratici un po’ in tutti gli stati d’indebolire ogni controllo sulla legalità dei voti espressi, sotto il pretesto “nobile” (si fa per dire, essendo questo aggettivo usato qui a sproposito) di non negare a nessuno il diritto di voto. (Sia ai vivi che ai morti?!)
L’intervento della Corte Suprema della Pennsylvania, comunque, sembra essere in contrasto con il dettato costituzionale sulle regole relative alle elezioni federali: secondo l’articolo I, sezione 4, della Costituzione americana, spetta al legislatore dello stato (non alle sue corti), ed eventualmente al Congresso federale, prescrivere tempo, luogo e modalità delle elezioni. (Potrebbe forse la lettera della legge essere più chiara di così?!) Proprio per questo, il giudice Alito è di nuovo intervenuto dopo le elezioni[7], ingiungendo a tutti gli uffici delle contee per le elezioni in Pennsylvania di attenersi a quanto già stabilito, cioè di (1) tenere i voti arrivati dopo il 3 novembre in luogo separato, sicuro e sigillato e, (2) qualora questi voti venissero conteggiati, farlo comunque separatamente dagli altri.
In definitiva, a differenza delle azioni legali che richiedono una raccolta dettagliata ed estesa di prove relative a voti fraudolenti, conteggi aggiustati, e violazioni del diritto di osservare gli scrutatori, quest’azione della Pennsylvania si basa su di una contestazione di diritto costituzionale (cioè incentrata sulle regole elettorali cambiate in corsa dalla Corte Suprema di quello stato contro le prerogative del legislatore), senza bisogno di fornire prove sui voti espressi[8]. E’ vero che resterebbe ancora da calcolare se l’esclusione di questi voti illegali sarebbe sufficiente ad una vittoria di Trump in Pennsylvania. Ed è altrettanto vero che le azioni legali promosse in altri stati presentano le loro complessità. Resta comunque il fatto che intraprendere queste azioni è assolutamente meritorio (anzi, essenziale), sia per accertare i risultati di queste elezioni, sia per continuare la battaglia contro la prospettiva assai concreta di elezioni-farsa nel futuro.
Stando così le cose, gli annunci televisivi di un Biden vincitore, e le auto-proclamazioni, non sono altro che teatrino, il cui unico scopo è quello d’imporre questo risultato indipendentemente dall’esaurimento delle apposite procedure. Ciò segnala come purtroppo, nell’America di oggi, la sete di potere di tanti sia disposta a marciare sul cadavere della democrazia americana, trasformando il suo sistema elettorale in quello di una repubblica delle banane. (Maurizio Ragazzi)
[1] Il testo della dichiarazione è in https://www.usccb.org/news/2020/president-us-bishops-conference-issues-statement-2020-presidential-election. La dichiarazione è criticata a fondo da Mons. Viganò: https://www.lifesitenews.com/opinion/archbishop-vigano-slams-us-bishops-conference-for-claiming-biden-is-second-catholic-president.
[2] https://ballotpedia.org/What_are_the_steps_and_deadlines_for_electing_the_President_of_the_United_States%3F_(2020). Si veda, per i passaggi necessari in ogni stato, https://www.ncsl.org/research/elections-and-campaigns/after-the-voting-ends-the-steps-to-complete-an-election.aspx.
[3] Limitandosi solo alle azioni legali già in corso che sta seguendo, questo sito ne elenca più di 20: https://www.scotusblog.com/election-litigation/.
[4] Per una carrellata dei casi più eclatanti di corruzione politica in Pennsylvania in tempi moderni, si veda https://www.pennlive.com/ midstate/2016/07/capitol_corruption_parade.html. La Heritage Foundation ha una tabella con il dettaglio delle frodi elettorali: https://www.heritage.org/voterfraud/search?state=PA. Se i casi di frode nei voti per corrispondenza sono un classico (https://philly.newspapers.com/clip/7122385/1993-election-fraud/), per completezza la Pennsylvania non poteva farsi mancare il caso di un giudice condannato per corruzione legata a falsa certificazione di risultati elettorali: https://justthenews.com/politics-policy/elections/phillys-long-history-corruption-includes-judge-convicted-bribery-cast.
[5] https://www.supremecourt.gov/opinions/20pdf/20-542_i3dj.pdf.
[6] Nonostante la Pennsylvania voti tradizionalmente per il candidato Democratico alle elezioni presidenziali (salvo la vittoria di Trump nel 2016), l’Assemblea Generale della Pennsylvania (il legislatore) è attualmente a maggioranza Repubblicana (mentre il governatore è Democratico). Quindi, ancora una volta, un legislatore a maggioranza Repubblicana vede frustrata da una corte una sua decisione politica, pur se adottata in base a prerogative costituzionali a lui riservate.
[7] https://www.supremecourt.gov/orders/courtorders/110620zr_g31i.pdf.
[8] Si veda la nota di Alan Dershowitz in https://thehill.com/opinion/white-house/525118-can-president-trump-win-his-election-challenges-in-court.
https://www.corrispondenzaromana.it/ma-davvero-biden-e-stato-eletto-presidente-o-no/
FATTO RIVELATORE
Se i Fratelli Musulmani gioiscono per Biden
Dopo che i media mainstream hanno annunciato la (presunta) vittoria di Joe Biden, i Fratelli Musulmani hanno esultato. L’organizzazione terroristica internazionale e gli organi di stampa ad essa legati vedono in un’eventuale presidenza Biden una nuova era Obama-Clinton, la stessa durante la quale furono fomentate le cosiddette “Primavere arabe”.
Mentre i media, a cui non spetta il compito di determinare l’esito delle elezioni, nominavano Joe Biden come 46° presidente degli Stati Uniti, l’agenzia Anadolu (l’agenzia di stampa del governo turco) non esitava a condividere, con il mondo arabo, la gioia dei Fratelli Musulmani, per una simile notizia. L’organizzazione terroristica internazionale nata in Egitto nel 1928 e che nel 2012 prende il potere con l’elezione di Morsi - eppure oggi, proprio in Egitto, considerata illegale e fuori legge - è ormai presente in diversi Stati arabi a maggioranza islamica. E, godendo di diversi sponsor quali soprattutto Qatar e Turchia, ha sempre detestato Trump e la sua politica: Biden, in forza della sua vicepresidenza sotto Obama, sarebbe il perfetto alleato per l’islamizzazione dell’Occidente.
In verità è dall’indomani del 3 novembre che gli attivisti dei Fratelli Musulmani, e gli organi di stampa ad essi legati, si mostrano entusiasti dei progressi del candidato democratico Biden nella corsa alla Casa Bianca. Un entusiasmo che nasce dal sogno di una presidenza Obama III e che è stato condiviso anche dai media iraniani con la speranza di ripristinare il trattamento indulgente di cui godeva Teheran durante l’era Obama.
Egitto, Tunisia, Yemen e Stati del Golfo non hanno mai nascosto le loro speranze nella vittoria di Biden. Emgage, il più grande comitato di azione politica musulmana negli Stati Uniti, dal primo momento ha appoggiato la candidatura e la presidenza dell’ex vice di Obama. Non è un dettaglio trascurabile, inoltre, che l’affluenza tra gli elettori musulmani sia aumentata di ben 25 punti percentuali negli stati critici di Ohio, Florida, Michigan e Virginia tra il 2014 e il 2018, secondo le rilevazioni proprio di Emgage, gruppo oggi presente in 11 stati.
Ma perché Biden, proprio lui, risulta così ben visto dal mondo musulmano più islamista? Bisogna fare prima di tutto un grande passo indietro e tornare alle cosiddette “Primavere arabe”, cioè le proteste, meglio le rivolte popolari, più mistificate della storia recente, che nel 2011 colpirono la maggior parte del Nord Africa e alcuni Paesi del Medio Oriente e fecero cadere ben quattro capi di Stato: in Tunisia Zine El-Abidine Ben Ali, in Egitto Hosni Mubarak, in Libia Mu’ammar Gheddafi, catturato e ucciso dai ribelli nell’ottobre 2011, in Yemen, un anno più tardi, fu la volta della caduta di Ali Abdullah Saleh. Nel frattempo, il fuoco delle rivolte assumeva i contorni di vere e proprie guerre, spesso civili, ma non solo.
Le immagini diffuse erano principalmente quelle della rete qatariota, la prima interessata alla caduta di governi avversari, e che influenzarono i media occidentali. La narrazione era imposta e divenne presto univoca: era la narrazione utile a giustificare gli interventi armati come a tutela delle violazioni dei diritti umani che stavano caratterizzando i territori coinvolti nelle repressioni.
L’amministrazione Obama, in quegli anni nel pieno del suo vigore e sostenuta senza contraddittorio dalla stampa di tutto il mondo, sosteneva le rivolte. Lo confermavano i più importanti funzionari americani, le visite di Stato, le dichiarazioni dello stesso presidente dem. Obama e la Clinton soffiavano sul fuoco delle rivolte guardando al sogno di guadagnare sempre più la leadership sul futuro processo che avrebbe coinvolto i diversi Paesi. Un errore madornale, oggi pagato soprattutto dall’Europa. Le “Primavere arabe” furono, infatti, l’anticamera del sempre più vigoroso jihadismo.
E tutto questo è stato confermato a pochi giorni dal voto per le presidenziali Usa. Una serie di email di Hillary Clinton, del suo periodo come Segretario di Stato (2009-2013), rese pubbliche dalla presidenza Trump, hanno svelato quelli che erano solo sospetti: lo stretto legame che i dem stavano stringendo con l’organizzazione terroristica islamica dei Fratelli Musulmani proprio durante le “Primavere arabe” e fino alla caduta in Egitto, nell’estate del 2013, del governo islamista di Mohamed Morsi.
I documenti diffusi da Mike Pompeo - l’attuale segretario di Stato - hanno anche dimostrato gli stretti rapporti tra l’amministrazione Obama e l’emittente televisiva qatariota Al Jazeera, notoriamente vicina alle posizioni dei Fratelli Musulmani. Quel Qatar che resta il principale sponsor mediorientale dell’organizzazione terroristica islamica radicale: insieme, sotto Obama &Co, sono stati venduti al mondo come l’alternativa democratica a Gheddafi, Mubarak, Ben Ali e Bashar al-Assad. La politica estera Usa guidata da Obama, Clinton e Biden sostenne anche aperture nei confronti del regime iraniano e di Cuba.
Non è un caso, così, che anche il regime iraniano abbia annunciato con entusiasmo la possibile vittoria dell’ex vicepresidente Biden. Le autorità iraniane vedono Biden alla Casa Bianca come una svolta definitiva per Teheran dopo il trauma Trump. Hesameddin Ashena, consigliere del presidente iraniano Hassan Rouhani, ha twittato che gli iraniani “hanno resistito coraggiosamente fino a quando il tempo di quel codardo di Donald Trump non è arrivato”. I titoli dei giornali controllati dallo stato hanno celebrato la notizia, titolando: “Il mondo senza Trump!” (Aftabe Yazd); “Il signor Withdrawal (il riferimento è al ritiro dall’accordo sul nucleare con l’Iran) è vicino a essere cacciato dalla Casa Bianca”; “Vai al diavolo, giocatore d’azzardo!” (Sobhe Now) “La carta di Trump non è più valida per i media!” (Aftabe Yazd); “Il presidente degli Stati Uniti è stato umiliato” (Donyaye Eghtesad)
D’altronde, gli ultimi tre anni sono stati davvero un incubo per il regime iraniano: nessuna amministrazione americana prima del tycoon ha imposto una pressione così draconiana ai mullah e i loro soci.
Le sanzioni di Trump hanno mandato in crisi il regime della mezzaluna sciita che ha dovuto tagliare i finanziamenti ai loro alleati, milizie e gruppi terroristici - Hamas ed Hezbollah in primis. Il che ha arginato anche l’aggancio di Teheran al Mediterraneo.
L’obiettivo di al-Qaeda, oggi come ieri, resta quello di divulgare le idee di Sayyid Qutb (fondamenta dei Fratelli Musulmani insieme a quelle del fondatore Hassan al Banna) attraverso il jihad. Esiste, infatti, un solo comun denominatore chiamato shari'a che tiene insieme l’ideologia di Fratelli Musulmani, al-Qaeda, Isis, Hamas, Gruppo Islamico Armato e al-Gama’a al-Islamiyya e di cui Biden è il nuovo utile idiota, l’eroe del sogno dell’islamizzazione del tessuto sociale, economico e politico del mondo occidentale.
Lorenza Formicola
https://lanuovabq.it/it/se-i-fratelli-musulmani-gioiscono-per-biden
14 COSE CHE I CATTOLICI – E IL PAPA – DOVREBBERO SAPERE SU KAMALA HARRIS.
11 Novembre 2020 8 Commenti
Marco Tosatti
Cari amici e nemici di Stilum Curiae, un amico del nostro sito, Vincenzo Fedele, ci ha inviato la traduzione di un articolo apparso qualche tempo fa sul National Catholic Register, in cui si spiegava chi fosse la candidata alla vicepresidenza degli USA Kamala Harris, e perché i cattolici avrebbero dovuto evitare di votarla. Grazie a Fedele, e buona lettura.
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Questo articolo era stato pubblicato dal National Catholic Register il 19 agosto 2020, mentre la convention dei democratici era in pieno svolgimento e veniva ufficializzata la scelta di Kamala Harris come vicepresidente del candidato Presidente Joe Biden. Si reputava, giustamente, importante far sapere chi fosse quella bella e compita signora che adesso, nella curiosa posizione di autoproclamata eletta alla vicepresidenza degli USA si è presentata in angelico completo bianco a parlare di unità, pace e fratellanza.
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14 cose che i cattolici dovrebbero sapere su Kamala Harris
Mentre la candidata alla vicepresidenza Kamala Harris sale sul palco stasera alla Convention Nazionale Democratica, diamo uno sguardo ad alcune delle questioni che ha sostenuto durante la sua carriera.
(19 agosto 2020)
Con la Convenzione Nazionale Democratica in pieno svolgimento e la scelta di Joe Biden per vicepresidente, la senatrice Kamala Harris, (Distretto della California), sale sul palco stasera insieme all’ex Segretario di Stato Hillary Clinton e alla Presidente della Camera Nancy Pelosi; ecco 14 fatti sulla carriera della Harris, compreso il suo servizio come procuratore generale della California, su questioni che incidono sulla vita, la famiglia e la libertà religiosa – questioni di cui ogni cattolico dovrebbe preoccuparsi e per cui pregare mentre ci avviciniamo alle elezioni del 2020.
1. Mentre prestava servizio al Senato, la Harris ha mantenuto una valutazione del 100% dal gruppo National Association for the Repeal of Abortion Laws (NARAL), una associazione pro-aborto, (cioè una piena e inappuntabile condotta a favore dell’aborto sotto tutti gli aspetti e continuativa nel tempo – N.d.T.).
2. Harris ha sostenuto l’espansione dei “diritti riproduttivi” delle donne e sostiene anche l‘uccisione della vita nel grembo materno per l’intero periodo della gravidanza, incluso il momento della nascita.
3. Harris ha proposto che gli Stati con una storia di limitazioni dei diritti all’aborto dovrebbero ottenere l’approvazione federale prima che nuove leggi sull’aborto possano essere messe in atto. Ha anche affermato che se queste salvaguardie non verranno messe in atto, “le donne moriranno”, portando il Washington Post a darle quattro “Pinocchi” per questa falsa affermazione. Durante un dibattito primario a Westerville, Ohio, (il sesto per le presidenziali – N.d.T.), la Harris ha spiegato :
“Ci sono Stati che hanno approvato leggi che impediranno virtualmente alle donne di avere accesso all’assistenza sanitaria riproduttiva. E non è un’esagerazione dire che le donne moriranno. Povere donne, donne di colore moriranno perché queste assemblee legislative repubblicane in questi vari Stati che sono fuori sintonia con l’America stanno dicendo alle donne cosa fare con i loro corpi”.
4. In qualità di procuratore generale della California, Kamala Harris ha intentato una causa giudiziaria contro i giornalisti pro-vita del Center for Medical Progress che hanno indagato su Planned Parenthood e sulla sua vendita di parti di organi e tessuti di bambini abortiti, portando a un’indagine e un’udienza della House.
5. La Harris ha anche usato il suo potere di procuratore generale per fare irruzione con perquisizione nella casa di uno dei più importanti giornalisti investigativi del caso Planned Parenthood, David Daleiden.
6. Come senatrice, Harris ha sostenuto un disegno di legge che abrogherebbe l’emendamento Hyde, una misura che blocca i finanziamenti federali per l’aborto e che storicamente ha sempre ricevuto il sostegno bipartisan. La Harris ha sfidato Biden in un dibattito delle primarie presidenziali democratiche del 2019 per il suo precedente sostegno di lunga data all’emendamento Hyde. Cedendo a queste pressioni, Biden ha ribaltato la sua posizione pochi giorni dopo.
7. In Senato, la Harris ha votato due volte contro il Born-Alive Abortion Survivors Protection Act, un disegno di legge che richiede ai medici di fornire la stessa assistenza ai bambini che sopravvivono ad aborti falliti come farebbero con qualsiasi altro neonato.
8. Nel 2018, durante l’udienza al Senato per la nomina di Brian Buescher a servire come giudice distrettuale nel Nebraska, Harris ha attaccato Buescher, insinuando che il suo coinvolgimento nei Knights of Columbus, (Cavalieri di Colombo), un’organizzazione caritatevole di fraternità cattolica, lo squalificasse dal servizio come magistrato. L’incidente ha condotto l’intero Senato ad approvare una legislazione che condannava qualsiasi tipo di test religioso per i candidati alla magistratura.
9. Abbondano i rapporti sul ruolo della Harris nel modo in cui veniva gestita la crisi degli abusi sessuali del clero all’interno della Chiesa cattolica quando lei era procuratore distrettuale di San Francisco. I fascicoli del personale ottenuti dai pubblici ministeri dell’Arcidiocesi di San Francisco sulla crisi degli abusi sessuali risalenti a decenni fa mostrano che il suo ufficio non ha perseguito alcun sacerdote. Da allora ha sostenuto che quei documenti non erano soggetti alle leggi sui registri pubblici.
10. Proprio mentre la “Proposition 8” stava passando nel 2008 in California, una misura di voto che proibiva il “matrimonio” tra persone dello stesso sesso nello stato, la Harris ha annunciato la sua campagna per diventare procuratore generale della California. Pur servendo lo stato come procuratore generale per sei anni, e nonostante il successo del provvedimento, la Harris non ha mai difeso questo divieto in tribunale. Nel 2013, una sentenza in un caso separato (Hollingsworth contro Perry) ha sostenuto che la Corte Suprema degli Stati Uniti ha confermato una decisione del tribunale federale del 2010 che invalidava la “Proposition 8”, consentendo la ripresa delle unioni dello stesso sesso nel Golden State.
11. Anche se recenti sondaggi del pubblico americano mostrano che la maggioranza degli americani concorda con diverse restrizioni all’aborto, la Harris insiste che non dovrebbe essercene nessuna, assumendo la guida del movimento contro il divieto di aborto a 20 settimane.
12. Nel 2015, nella sua qualità di procuratore generale della California, la Harris ha contribuito a definire la legislazione nota come “Reproductive Facts Act” che costringerebbe i centri pro-life e di aiuto alla gravidanza a pubblicizzare le cliniche abortiste e spiegare che lo stato della California fornisce aborti gratuiti o a basso costo. È stata citata in giudizio e ha perso in Corte Suprema tre anni dopo.
13. Harris ha co-sponsorizzato la legge denominata “The Equality Act” nel 2018, mettendo a repentaglio la libertà di parola e i diritti di protezione della coscienza. (La legge costringerebbe, inoltre, gli ospedali cattolici a praticare interventi per il cambio di sesso, ad aprire agli uomini i bagni riservati alle donne e a obbligare le ragazze e le donne a competere nelle gare di atletica con ragazzi e uomini ed altro – N.d.T.). Vorrebbe anche mutilare la Legge sul ripristino della libertà religiosa del 1993, un duro colpo per la protezione della libertà religiosa.
14. Harris ha partecipato a redigere una proposta di legge nel 2019 chiamata Do No Harm Act, che indebolirebbe le ragionevoli protezioni del Religious Freedom Restoration Act – protezioni che richiedono, per qualsiasi restrizione governativa dell’espressione religiosa, di dimostrare la necessarietà della restrizione e di utilizzare i mezzi meno restrittivi. Cambiare questo modello renderebbe più difficile per molte istituzioni mantenere la propria identità religiosa.
(Traduzione a cura di Vincenzo Fedele)
BIDEN: UN PACIFISTA? IL CURRICULUM È QUELLO DI UN GUERRAFONDAIO
Michele Crudelini
“Joe Biden è rassicurante, per questo ha vinto”, ha affermato Beppe Severgnini. “L’uomo giusto per gli Stati Uniti”, ha detto Giovanna Botteri. “L’uomo del dialogo, dell’inclusione e della moderazione”, ha dichiarato infine Oliviero Bergamini.
La narrazione fallace dei media mainstream
Insomma i media mainstream sono concordi nel descrivere il probabile futuro Presidente degli Stati Uniti come un personaggio calmo e pacifico, da cui quindi ci si dovrà attendere una politica rassicurante. Un’ipotesi che appare però troppo semplicistica e che probabilmente è diretta conseguenza del lungo sospiro di sollievo fatto dalle penne mainstream alla notizia della sconfitta di Donald Trump, un autentico incubo per il giornalismo liberal progressista.
Buoni e cattivi esistono però solo nelle fiabe, mentre nella realtà ci sono personaggi dalle sfaccettature più imprevedibili e molto spesso vale il proverbio che l’abito non fa il monaco. Donald Trump ne è un esempio, perché al netto di un portamento aggressivo, di toni minacciosi ed offensivi, nei 4 anni di presidenza il tycoon non ha dato inizio a nessun conflitto armato. In netta discontinuità con le precedenti amministrazioni.
Dal Kosovo all’Iraq: tutte le guerre di Biden
La carriera politica di Joe Biden dovrebbe invece suggerire maggiore prudenza prima di affibbiare etichette più di propaganda che reali. Nell’arco della sua carriera Joe Biden è stato infatti tutt’altro che pacifista. Fin da quando nel 1999 da Senatore fu il principale sponsor della Kosovo Resolution. La risoluzione che richiese e ottenne l’autorizzazione a condurre operazioni militari e lancio di missili contro la Repubblica Federale di Jugoslavia. Operazione che portò all’uccisione di oltre 500 civili.
Dalla penisola balcanica al Medio Oriente, la propensione al conflitto di Joe Biden non è cambiata nel tempo. Nonostante la guerra in Iraq sia stata intrapresa da una Presidenza repubblicana, Biden, allora capo al Senato del comitato sulle relazioni internazionali, contribuì in prima persona ad allineare i democratici alla linea interventista di Bush junior.
Ritengo che questa sia una marcia verso la pace e la sicurezza
Queste le parole di Biden poco prima dell’intervento americano in Iraq. Nel 2015, dopo dodici anni di conflitto e mezzo milione di morti civili, Biden ha chiesto scusa per quest’errore di valutazione. Certo, meglio tardi che mai, ma la rappresentazione di un uomo “del dialogo e della moderazione” inizia decisamente a traballare.
Trump unica eccezione all’interventismo americano
Perché questa linea interventista è stata una costante anche sotto la Presidenza Obama, quando più volte Joe Biden, come vicepresidente, ha auspicato un cambio di regime in Siria, da attuare se necessario anche con l’uso della forza. La storia recente americana dovrebbe quindi insegnarci che democratico non è sinonimo di pacifista, anzi.
L’intervento militare, spesso ingiustificato, fallimentare e causa solo di sofferenze sulla popolazione civile locale, è stato una costante di tutte le presidenze americane, democratiche e repubblicane, con un’unica eccezione. E cioè Donald Trump. Con buona pace dei media mainstream, la possibile presidenza Biden segnerà un ritorno al passato della politica estera americana, tutt’altro che pacifica e moderata.
https://www.byoblu.com/2020/11/11/biden-un-pacifista-il-curriculum-e-quello-di-un-guerrafondaio/
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