Pio XII e il Natale del 1943
Il Natale del 1943 fu a Roma, occupata dai nazisti, uno dei più duri Natali del tempo di guerra. Vigeva il coprifuoco e le Messe di Natale vennero abolite. Pio XII celebrò una sola solenne Messa nel pomeriggio del 24 dicembre a San Pietro.
Quel giorno il Papa pronunciò un discorso al Sacro Collegio e alla Prelatura Romana, di cui riportiamo i passi principali.
Pio XII inizia ricordando una espressione cara ai cristiani: “un cuor solo e un’anima sola”. “Questo «cor unum et anima una», che riuniva i primi seguaci di Cristo, fu l’infiammata arma spirituale del piccolo gregge della Chiesa primitiva, il quale, senza mezzi terreni, con la parola, con l’amore disinteressato e col sacrificio anche della vita, iniziò e condusse a termine la sua vittoriosa azione di fronte ad un mondo ostile. Contro la forza di resistenza, di zelo, di disprezzo dei patimenti e della morte di un tal cuore e di una tale anima non valsero e s’infransero le arti e gli attacchi delle potenze avverse, che ne combattevano l’esistenza, la dottrina, la diffusione e il consolidamento”.
“Così dall’unione dei cuori e delle anime di tutti i fedeli si formava come un cuor solo e un’anima sola, che la propagazione della fede attraverso i tempi estese e ancora estende per tante regioni e popoli; e un così bel vincolo di cuori e di anime da tutte le terre e da tutti i lidi arriva fino a Noi, e più vivo e forte si rinnova nell’ora presente delle comuni afflizioni e invocazioni e delle comuni brame e speranze, mercé del divino Spirito Vivificatore e Santificatore, che fa e conserva la Sposa di Cristo, sempre la medesima nella sua unità e universalità, anche in mezzo ai rivolgimenti che sovvertono le Nazioni”.
Il Papa passa poi a descrivere la guerra e le sue dure conseguenze.
“Nel corso di quest’anno la tormenta della guerra si è avvicinata sempre più anche alla città Eterna; e dure sofferenze si sono abbattute su molti dei Nostri diocesani. Non pochi tra i più poveri hanno visto il loro focolare distrutto da attacchi aerei. Un Santuario, caro al cuore della Roma cristiana e vero gioiello di una venerabile antichità, fu colpito e ricevette ferite difficilmente sanabili”.
Le rovine, aggiunge il Papa, non sono solo materiali, ma anche economiche: “Se l’interruzione e la paralisi della normale produzione di ciò che è necessario alla vita avesse a procedere col ritmo presente, è da temere che, nonostante le sollecite cure delle competenti Autorità, il popolo di Roma e gran parte della popolazione italiana, tra non molto tempo, verrebbero a trovarsi in condizioni di indigenza, quali a memoria d’uomo non si sono forse mai avverate e sofferte in questa terra già tanto provata”.
Pio XII tuttavia invita alla tranquillità spirituale e morale: “A tutti, e in particolare agli abitanti dell’Urbe, raccomandiamo instantemente di conservare la calma e la moderazione e di astenersi da qualsiasi atto inconsulto, che non farebbe se non provocare ancor più gravi sciagure.”
Soprattutto, afferma il Papa, non bisogna scoraggiarsi nelle difficoltà.
“In mezzo a tali perturbamenti ben s’intende quanto convenga ad ognuno di mantenersi franco e coraggioso nella pratica morale della vita, mentre non pochi cristiani, anche fra quelli che sono al servizio della Chiesa e del santuario, si lasciano sgomentare dalla tristezza dei tempi, dall’amarezza delle privazioni e degli sforzi richiesti, dalla catena di delusioni, che si stringe e si abbatte su di loro; talmente che non sfuggono al pericolo di smarrirsi d’animo e di perdere quella freschezza e agilità di spirito, quella robustezza di volontà, quella serenità e quella letizia dell’osare e portare a termine ciò che si imprende, senza di cui non è possibile una feconda opera di apostolato”.
Nell’avversità del tempo presente, tempo di guerra e di miseria il Pontefice invita “i pusillanimi, gli sfiduciati, gli spossati” a volgere “uno sguardo al presepio di Betlemme e al Redentore, che dà inizio al rinnovamento spirituale e morale del genere umano in una povertà senza esempio, nella quasi totale separazione dal mondo dei potenti di allora”. Questa visione “deve ricordare e ammonire che le vie del Signore non sono le vie illuminate dalla falsa luce di una saggezza puramente terrena, ma dai raggi di una stella celeste ignota alla prudenza umana. Dalla grotta di Betlemme quando si rivolga l’occhio alla storia della Chiesa, tutti dovrebbero convincersi che ciò che fu detto del divino suo Fondatore: « Sui eum non receperunt » (Io. I, 11), è rimasto sempre la divisa dolorosa della Sposa di Cristo nel corso dei secoli, e che più volte i tempi di dura lotta prepararono vittorie grandiose, d’importanza definitiva per lunghe epoche avvenire”.
Pio XII si rivolge quindi alle anime generose.
“Se Ci è lecito di penetrare nella visione dei disegni di Dio, dei quali è luce il passato, le ardue e cruente condizioni dell’ora presente altro forse non sono se non il preludio di una aurora di nuovi svolgimenti, nei quali la Chiesa, mandata a tutti i popoli e per tutti i tempi, si troverà di fronte a doveri ignoti ad altre età, che solo animi coraggiosi e risoluti a tutto potranno portare a compimento : cuori non timorosi di assistere al ripetersi e rinnovarsi del mistero della Croce del Redentore nel cammino della Chiesa sulla terra, senza pensare ad abbandonarsi con i discepoli di Emmaus ad una fuga dalla amara realtà; cuori consapevoli che le vittorie della Sposa di Cristo, e specialmente le definitive, sono preparate e ottenute in signum cui contradicetur, in contrasto, cioè, con tutto quello che l’umana mediocrità e vanità si studiano di opporre alla penetrazione e al trionfo dello spirituale e del divino.”
Il Santo Padre continua così il suo appello:
“Se oggi dobbiamo portare aiuto al nostro tempo, se la Chiesa ha da essere per gli erranti e per gli amareggiati dalle angustie spirituali e temporali dei nostri giorni quella Madre che aiuta, consiglia, preserva e redime; come potrebbe essa attendere a tanto bisogno, se non disponesse di una acies ordinata, reclutata tra le anime generose, che al di sopra della cara visione del neonato Bambino non temono né dimenticano di sollevare lo sguardo al crocifisso Signore, consumante sul Calvario il sacrificio della sua vita per la rigenerazione del mondo, e ritraggono come forza e valore nel loro vivere e nel loro operare la legge suprema della Croce?”.
Le parole con cui Pio XII conclude il suo discorso del Natale 1943 sono di fiducia nelle infallibili promesse divine.
“Noi preghiamo per il genere umano, avvinto e legato nelle catene dell’errore, dell’odio e della discordia, quasi in una prigione da lui stesso costruitasi, ripetendo la invocazione della Chiesa nel sacro Avvento: O clavis David et sceptrum domus Israel; qui aperis, et nemo claudit; claudis, et nemo aperit: veni, et educ vinctum de domo carceris, sedentem in tenebris et umbra mortis!
“O Chiave di Davide e Scettro della casa d’Israele, che apri e nessuno chiude, chiudi e nessuno apre: vieni e conduci fuori dal carcere il prigioniero che siede nelle tenebre e all’ombra della morte”.
Queste parole della Sacra Scrittura risuonano ancora oggi con la loro forza perenne. Anche oggi, come allora, siamo prigionieri delle tenebre, ma nelle tenebre, riponiamo tutta la nostra speranza nel Santo Bambino di Betlemme, nella sua Divina Madre e in san Giuseppe capo della Sacra Famiglia, chiedendo loro la forza per essere una vera acies ordinata che combatte “cor unum et anima una” per amore della Chiesa e della Civiltà cristiana.
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Tutti i volti del Dio bambino
Re o pastore, avvolto in fasce o in vesti splendenti, sorridente o serio, ricciuto o quasi calvo, dormiente o sveglio, benedicente o con le braccia incrociate, Gesù bambino ci guarda. E ci parla. Lo fa da secoli, da innumerevoli opere artistiche più o meno nobili, più o meno elaborate. Un’immagine così comune che, a volte, corriamo il rischio di non notarla. Ma lui, il bimbo nato a Betlemme, sta lì, e ci aspetta. Aspetta di incrociare il nostro sguardo, di ascoltare la nostra preghiera, di accogliere la nostra supplica.
A Gesù bambino nell’iconografia e nel culto è dedicato il bellissimo libro di Michele Dolz Il Dio bambino (Ares, 408 pagine, 24 euro), nel quale l’autore, docente di Storia dell’arte cristiana alla Pontificia università della Santa Croce, conduce una minuziosa esplorazione lungo la storia, dalle origini della devozione fino ai giorni nostri, accompagnandoci in una galleria all’insegna della bellezza e della tenerezza.
Già ai tempi di san Girolamo la grotta di Betlemme era meta di venerazione. Le monache di tutti i tempi hanno tenuto con loro un’immagine del Bambino, e grandi artisti lo hanno raffigurato: da Mantegna a Guido Reni, da Zurbarán a Dalí. San Francesco si commuoveva nell’evocarlo; Erasmo da Rotterdam gli dedicò un poema in latino e sant’Alfonso Maria de’ Liguori compose per lui indimenticabili ninne nanne. Santa Teresa di Lisieux volle chiamarsi “di Gesù Bambino”; Edith Stein lo sentiva vicino nell’orrore del campo di sterminio; Padre Pio se lo vide apparire. San Josemaría Escrivá gli diceva: “Mi piace vederti piccolino, indifeso, per illudermi che tu abbia bisogno di me”. E san Giovanni Paolo II gli chiese: “Asciuga, Bambino Gesù, le lacrime dei fanciulli”.
Da Arenzano a Praga, da Roma alle Filippine, da Siviglia a Lima, da Lisieux a Venezia, da Parigi a Madrid, da Monaco di Baviera a Washington, la geografia disegnata da Gesù bambino ci richiama alla contemplazione, al ringraziamento, al silenzio.
La domanda che Dolz pone fin dall’inizio e che fa da filo conduttore dell’intera indagine è: perché il Bambino?
La risposta sta in un misto di stupore, meraviglia, gratitudine, adorazione. Il mistero del Verbo che si è fatto carne si mostra nel Gesù bambino in tutta la sua sconvolgente evidenza e semplicità. Davanti al bambino nato a Betlemme siamo presi da ammirazione nel senso più letterale: è quel mirari da cui viene anche miracolo.
E il fatto che i Vangeli in proposito ci forniscano notizie con il contagocce aumenta la nostra voglia di vedere, conoscere, esplorare. Quasi niente gli evangelisti ci dicono dell’infanzia di Gesù a Nazaret, ma noi sappiamo, e il Catechismo della Chiesa cattolica ce lo ricorda, che “tutta la vita di Cristo è rivelazione del Padre”.
Parole e azioni di Gesù, in ogni tempo della sua vita, sono già e sempre salvifiche, ancor prima del ministero pubblico. E se la Passione mette in rilievo la Redenzione, il piccolo Gesù ci pone a confronto con il mistero dell’Incarnazione. D’altra parte, “se Cristo avesse voluto ricevere culto ‘da adulto’, come è ora risorto e glorioso in Cielo, non sarebbe apparso sulla terra anche come Bambino né la sua infanzia avrebbe fatto parte del messaggio di salvezza contenuto nei Vangeli”.
Davanti a Gesù bambino si sta in contemplazione, e la contemplazione, insegna san Tommaso, è “intuizione della verità che termina in un moto affettivo”. I santi lo sanno bene, ed ecco perché tanti santi hanno voluto e vogliono stare in compagnia del Bambino Gesù. Un bambino che anche quando non è abbigliato come un principino noi veneriamo in quanto Re dell’universo, quel Re dei Giudei che i magi cercano seguendo la stella e che poi, quando sarà diventato grande, esorterà: “Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino!”. Re a tutti gli effetti, dunque, ma non nel modo umano. “Il mio regno non è di questo mondo” dice infatti Gesù a Pilato.
Fra le tantissime citazioni proposte da Dolz ne scelgo una tratta da sant’Ambrogio: “Egli volle essere un fanciulletto, affinché tu potessi diventare un uomo perfetto; Egli fu stretto in fasce, affinché tu fossi sciolto dai lacci della morte; Egli nella stalla, per porre te sugli altari; Egli in terra, affinché tu raggiungessi le stelle; Egli non trovò posto in quell’albergo, affinché tu avessi nei cieli molte dimore” (Ambrogio, Expositio evangelii secundum Lucam, 2, 41, PL 15, 1649).
Si diceva prima che i Vangeli non forniscono molte notizie su Gesù bambino. Numerose sono invece quelle proposte da alcune mistiche, come Maria Valtorta nel suo L’Evangelo come mi è stato rivelato, fluviale opera nella quale è restituita l’atmosfera di pace e di armonia che si respirava nell’umilissima casa della sacra famiglia. Ma anche santa Faustina Kowalska ebbe frequenti visioni di Gesù bambino nell’Ostia consacrata, come nella Messa di mezzanotte del 1934: “Durante l’offertorio vidi Gesù sull’altare; era di una bellezza incomparabile. Il Bambinello per tutto il tempo guardò verso tutti, tendendo le manine… È difficile esprimere la gioia che avevo nell’anima”.
Gioia, tenerezza, commozione. Come quelle trasmesse da sant’Alfonso nella celeberrima Tu scendi dalle stelle, composta e musicata a Nola nel 1754 e ancor oggi cantata nelle chiese e nelle case davanti al presepe, dove il “caro eletto Pargoletto” nasce, per amore, al freddo e al gelo.
Alla domanda “perché il Bambino?” si può dunque rispondere in molti modi. Ma il silenzio, o al più il canto sussurrato di una ninna nanna, sono forse le risposte più adeguate. Il Bambino ci chiede di spogliarci di noi stessi per diventare piccoli, come lui.
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IL NATALE DI NONNA CARLOTTA
Ritornavo dalla passeggiata pomeridiana con mio nonno, approfittando del sole di una giornata fredda di dicembre, a ridosso del Natale, lungo la strada di campagna che, costeggiando la chiesa, arrivava fino alla fontana con la vasca e la sponda in pietra inclinata, il lavatoio pubblico dove le donne di questo piccolo sobborgo, a ridosso delle mura del paese, andavano, con il canestro o la tinozza di zinco, a lavare i panni. Come tutte le strade di campagna era di terra battuta da centinaia di anni di carri trainati dai buoi con il carico di fieno, grano, paglia, farina, legna. Al centro vi cresceva l’erba che creava le due corsie per camminare, quando era asciutto e il percorso adatto per non infangarsi, dopo la pioggia. Mio nonno era alto con i capelli bianchi che gli davano un portamento che, unito al suo camminare impettito, lo faceva sembrare austero ma anche più burbero di quanto non fosse. Parlava poco, come tutte le persone anziane di allora, pesando le parole, con quella intonazione malinconica che faceva trasparire una sofferenza celata, un decoro semplice e onesto. Aveva trascorso molti anni della sua vita in America a Filadelfia lavorando in un grande calzaturificio e inviando alla famiglia i soldi per sopravvivere e per far studiare mio zio che, a ridosso della maturità classica, decideva di entrare in seminario per farsi sacerdote. Mi piaceva camminare su quella strada, perché arrivava in piena campagna in mezzo ai campi di grano appena spuntato, con i lunghi filari della vite sostenuta dagli aceri e il silenzio assoluto interrotto solo dallo stridio del falco, che mio nonno prontamente mi indicava. In questa stagione in cui fa già notte nel pomeriggio, ci andavo da solo, anche se con un certo timore, per vedere la via Lattea e immergermi in quel fiume di stelle affondato in un buio profondo che, nel giro di qualche anno, non avrei più rivisto. Rientriamo da una porta laterale, nella canonica, contigua all’abside del santuario dedicato alla Madonna. All’inizio della scala che portava al piccolo alloggio percepivo un lamento che, salendo, diventava più simile ad un pianto. Non avevo mai visto mia nonna piangere. Era nata alla fine dell’ottocento, aveva visto due guerre devastanti, un’epidemia violenta, una vita faticosa attraversata con la dignità solenne delle donne di una volta. Aveva atteso per otto anni il ritorno dell’altro figlio dalla guerra e non avrebbe mai superato il rammarico di non averlo riconosciuto, quando era rimpatriato, uno degli ultimi prigionieri rilasciati. Quelle donne raramente piangevano. Se ne stava accasciata su una sedia e mentre cercavo di capire che cosa fosse accaduto, mi accorsi che sul pavimento di mattoni c’erano due pezzi scuri, con attorno carboni e cenere sparsi, che subito riconoscevo come le due parti spaccate del ferro da stiro in ghisa. Adesso, dopo tanti anni, in un mondo completamente cambiato, non si capirebbe perché piangere per un vecchio elettrodomestico, così si chiama ora, rotto. Anzi, sarebbe l’occasione per rifarlo nuovo, supertecnologico, a vapore surriscaldato, magari ordinandolo su internet, farlo arrivare direttamente a casa, dopo aver viaggiato per diecimila miglia da un paese lontano da cui arrivano tutte, ma proprio tutte le cose che ci “contagiano” di felicità... Allora, invece, in pieno medioevo, soprattutto nei nostri paesi e nelle nostre campagne, prima dello tsunami della modernità, un ferro da stiro in ghisa, con il manico di legno e il coperchio per riempirlo di brace, uscito dalla bottega di un artigiano del luogo, con la base fornita da una fonderia poco distante, costituiva un piccolo patrimonio, come la pentola in rame stagnata, la graticola, lo scaldaletto, la lampada ad acetilene, il mortaio, il macinino, il setaccio. Nasceva un rapporto intimo con loro, quasi a prolungamento delle mani e della mente, collaboratori dell’essenziale di una vita fatta solo di bisogni primari e perciò elevati. Lo aveva usato a lungo il giorno prima, per stirare le camice di mio zio, tutte senza colletto, da indossare sotto la tonaca e il collarino, mentre teneva il camino acceso, approfittando del fuoco per cuocere le erbe per la cena e poi per l’acqua bollente da tenere in caldo per riempire le bottiglie di ottone, con le quali scaldarsi i piedi nel letto. Quello stesso pomeriggio avevo aiutato mio zio, in chiesa, a sistemare il presepio, dopo aver raccolto il muschio più fresco e avermi fatto scegliere il bambinello per la notte di Natale. Erano statue giganti, rispetto alle mie, alcune in carta pesta, dai lineamenti delicati, lo sguardo mite e adorante. Era un Natale speciale perché le pareti interne, il soffitto e i mosaici dorati, erano stati fatti ripulire da mio zio e il santuario appariva risplendente, in piena armonia con la bellissima statua bianca della Madonna adornata di una corona d’oro. Ero felice anche perché mia nonna avrebbe preparato le frittelle con lo strutto di cui andavo matto. Ma adesso non sapevo che cosa dire a lei, affranta, che si era ancora di più abbattuta quando mio nonno gli disse che lo avrebbe ricomprato al mercato di un paese lì vicino. Non si dava pace per il fatto che le fosse sfuggito senza riuscire a riprenderlo. Ma non aveva il tempo per continuare ad affliggersi perché quel pomeriggio doveva preparare le ostie, con lo stampo arroventato e la pastella di acqua e farina. Mi piaceva aiutarla a staccare le ostie perché mi gustavo gli scarti. Non era stata una serata come le altre perché mia nonna non aveva superato lo sconforto e, dopo la cena frugale e le preghiere recitate da mio zio, davanti al caminetto, mi aveva preparato per andare a dormire. Il mio letto, accostato alla parete, nella camera dei nonni, aveva un materasso di sfogli di granturco, nel quale mi piaceva sprofondare, soprattutto in quelle serate gelide, dopo le prime nevicate invernali.
La mattina dopo era ancora una giornata serena e fredda e, attraversando la chiesa per uscire sulla piazzetta inondata dal sole, avevo notato mia nonna seduta davanti al presepio, in silenziosa venerazione. Non la vedevo quasi mai in chiesa, se non per assistere alla messa e, qualche volta, alla recita del rosario. Pensai che fosse per consolarsi del ferro da stiro. Il pomeriggio le tenevo ancora compagnia, mentre preparava altre ostie che servivano per i numerosi giorni di festa che si avvicinavano, quando sentimmo rintoccare la campanella del portone della canonica. Rimasi in cucina, mentre mia nonna scendeva le scale per andare ad aprire. Si aspettava una delle solite persone che volevano parlare con mio zio, invece si trovò davanti un signore che non aveva mai visto, non molto anziano, con una barba curata, dall’aspetto gradevole e pacato, gli occhi scuri, come pure i capelli ondulati fin quasi sulle spalle. Era vestito in modo insolito, con un mantello di lana grezza, marrone scuro, ma ciò che la colpiva di più, era il fatto che non indossava i pantaloni ma una tunica lunga fino ai sandali, di foggia mai vista. Sorrideva mentre le porgeva una scatola di legno, lucido come il comò della sagrestia. Non aveva avuto il tempo di ringraziarlo e di chiedergli chi fosse perché si era subito dileguato. Ammiravo la scatola poggiata sul tavolo della cucina, mentre mia nonna la guardava sorpresa, non immaginando che cosa potesse contenere. Si capiva che era fatta da una mano esperta, le pareti non erano perfettamente lisce ma dava un’idea di solidità anche per gli incastri magistrali tra le parti in legno, come sapevano fare i falegnami di una volta. Aveva un coperchio con cerniere di ferro battuto, chiuso con un incastro. Finalmente decise di aprirlo, con un leggero sforzo. C’era della paglia che, una volta smossa, mostrava un manico di legno che mia nonna afferrò con impazienza. Si sedette e cominciò a piangere, stavolta per la sorpresa e la gioia, quando scoprì che si trattava di un ferro da stiro, identico a quello rotto, ma nuovissimo.
La lasciai sola, avevo voglia di correre lungo quella strada, fino al lavatoio e, attraversando a passo svelto la navata del santuario, passai accanto al presepio e mi parve che San Giuseppe mi avesse sorriso.
Claudio Gazzoli
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