ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

lunedì 1 febbraio 2021

“Sempre” e “mai”

Comunione in bocca, un divieto che divide

Mons. Arthur Roche, Segretario della Congregazione per il Culto Divino, ha “risolto” un contenzioso tra un fedele e il suo vescovo, Richard F. Stika. Il fedele aveva chiesto di sospendere l’ordine del vescovo di Knoxville di non dare la Santa Comunione sulla lingua, ma esclusivamente sulla mano; la Congregazione ha detto picche. Una risposta che non convince affatto: ecco perché.


Il 13 novembre scorso, il Segretario della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti, S. E. Mons. Arthur Roche, ha “risolto” un contenzioso tra un fedele e il suo vescovo, Mons. Richard F. Stika. Il fedele aveva richiesto alla Congregazione di intervenire per sospendere l’ordine del vescovo di Knoxville di non dare la Santa Comunione sulla lingua, ma esclusivamente sulla mano; la Congregazione ha risposto picche al povero fedele, sostenendo la facoltà dell’ordinario di stabilire norme provvisorie in tempi di emergenza. Il riferimento esclusivo, presente nella risposta di Roche (scaricabile qui), è un passaggio della lettera che Sua Eminenza, il Cardinale Robert Sarah, Prefetto della medesima Congregazione, aveva pubblicato il 15 agosto dello scorso anno. Lo stessa Stika aveva “cinguettato” trionfante di aver ricevuto una lettera del Cardinal Sarah (vedi qui) che lo avrebbe sostenuto circa la facoltà di un ordinario di proibire la Comunione sulla lingua in tempi di pandemia, guerre, etc.

C’ è da dubitare che Mons. Roche abbia ricordato a Mons. Stika che nella medesima lettera era contenuto anche un appello ai vescovi, affinché riconoscessero «ai fedeli il diritto di ricevere il Corpo di Cristo e di adorare il Signore presente nell’Eucaristia nei modi previsti, senza limitazioni che vadano addirittura al di là di quanto previsto dalle norme igieniche emanate dalle autorità pubbliche o dai Vescovi». L’intendimento era chiaro: le autorità pubbliche mai hanno proibito – e nemmeno lo porrebbero – di ricevere l’Eucaristia in bocca; ergo, cerchiamo di non essere più realisti del re. Roche, però, deve avere la memoria assai corta, visto che tre mesi dopo la pubblicazione di questa raccomandazione, in quel di novembre, si è scordato di far presente al vescovo di Knoxville che la lamentela del fedele doveva essere risolta a monte, ossia ripristinando il suo diritto di ricevere l’Eucaristia «nei modi previsti».

D’altra parte, c’era da aspettarsi che, di quella lettera, l’unico paragrafo che avrebbe fatto scuola sarebbe stato quello sulla via sicura dell’obbedienza, un paragrafo che rischia di orientare verso un’idea volontaristica dell’autorità, che, a quanto pare, può decidere anche in barba alle leggi superiori. Il Codice di Diritto canonico pare però andare in altra direzione, dal momento che il can. 838, dopo aver ricordato al § 1 che «regolare la sacra liturgia […] compete propriamente alla Sede Apostolica e, a norma del diritto, al Vescovo diocesano», precisa che «al Vescovo diocesano nella Chiesa a lui affidata spetta, entro i limiti della sua competenza, dare norme in materia liturgica, alle quali tutti sono tenuti» (§4). Inoltre si ricorda che «da parte del legislatore inferiore non può essere data validamente una legge contraria al diritto superiore» (Can. 135 - §2).  Il Vescovo non è superiore al diritto e la sua competenza reale non lo trasforma in una monarca assolutista.

In nome della situazione di emergenza, la Congregazione per il Culto Divino ha ammesso invece la possibilità non di bilanciare diritti e necessità impellenti, bensì di rovesciare di 180 gradi tutti i pronunciamenti che la medesima Congregazione aveva espresso negli anni passati, inclusa la lettera del 2009 che, in piena pandemia di suina, ribadiva la norma chiarissima presente in Redemptionis Sacramentum, al n. 92, ossia che «ogni fedele ha sempre diritto a scegliere se desidera ricevere la Sacra Comunione in bocca». Nella Notifica La Santa Sede, al n. 7, si affermava lo stesso intangibile diritto: «Non si obbligheranno mai i fedeli ad adottare la pratica della Comunione sulla mano, lasciando ad ogni persona la necessaria libertà di ricevere la Comunione o sulla mano o sulla bocca», in quest’ultimo caso, laddove il vescovo si sia avvalso del corrispondente indulto.

Come è accaduto in ambito civile, anche in quello ecclesiastico l’emergenza è diventata il pretesto per schiacciare i più elementari diritti dei fedeli. Secondo Roche, che viene dalla scuola di Piero Marini, ammira le posizioni liturgiche di Andrea Grillo, ma all’occorrenza, Benedetto XVI regnante, sapeva dichiararsi camaleonticamente ratzingeriano, l’emergenza permetterebbe di cambiare anche il vocabolario, svuotando di significato gli avverbi “sempre” e “mai”. Curioso che nei numerosi testi che difendono il diritto del fedele di ricevere la Comunione in bocca, mai a nessuno sia venuto in mente di circoscrivere questo diritto, con espressioni tipo “salvo diversa disposizione dell’Ordinario”, oppure “eccettuate situazioni di emergenza”. E dire che non è la prima volta che la Chiesa, nella sua storia, deve affrontare epidemie contagiose e ben più mortali di quella in atto.

La ragione di frenare i contagi sembra però sufficiente a congelare qualsiasi logica. Ad essa però obiettiamo che una situazione di emergenza non può sospendere qualsivoglia diritto e a prescindere dalla fondatezza delle ragioni addotte. Ora, che la Comunione in bocca sia più pericolosa di quella sulla mano, o del semplice stare all’interno di una chiesa, non è affatto pacifico. Molti medici hanno espresso il proprio parere a riguardo, ricordando che non ci sono ragioni evidenti per sostenere una cosa del genere. Dopo quasi un anno, si è capito che i contagi avvengono in luoghi “saturi” di virus, dove si rimane a lungo: ospedali, RSA, domicili, parzialmente la scuola; oppure tramite contatti prolungati e ravvicinati con persone contagiose (che non sono necessariamente i semplici positivi). Che ci si possa contagiare attraverso una particola, lasciata cadere sulla lingua del fedele dalla mano del sacerdote in uno, massimo due secondi, è quanto di più fantasioso si possa pensare. Ritenere poi che questa pratica possa essere addirittura all’origine di veri e propri focolai, è fantascienza.

Le persone entrano ed escono dai supermercati, salgono su treni, autobus ed aerei stipati di gente, vanno in ospedale (in assoluto uno dei luoghi più contagiosi), si incontrano, magari proprio sul piazzale della chiesa, e chiacchierano a lungo, etc., e il problema sarebbe ricevere la Comunione in bocca? Tanto più che è possibile ragionare su come venire incontro a questo diritto, senza urtare la preoccupazione di altri fedeli, che potrebbero temere il contagio. Si potrebbe, per esempio, disporre che quanti intendono comunicarsi sulla lingua si accostino dopo gli altri; oppure prevedere per loro, in occasione di celebrazioni particolarmente frequentate, la distribuzione della Comunione dopo la Messa. Insomma il vescovo dovrebbe bilanciare questo diritto con la situazione emergenziale e non sopprimerlo del tutto.

In effetti, quando si prova a ragionare, con quei sacerdoti particolarmente zelanti nel rifiutare l’Eucaristia ai fedeli che la chiedono sulla lingua, sulle ragioni sanitarie di questo divieto, in gran parte convengono che esse non sono così evidenti e rigorose; a quel punto, però, iniziano una filippica sul fatto che comunque la Comunione sulla mano è la pratica più antica, più giusta, più adatta, più tutto; svelando in questo modo la ragione ideologia sottesa a questo rifiuto: la pandemia è una ghiotta scusa per imporre quanto non si è riuscito a fare altrimenti. Con tanti saluti all’insegnamento della Chiesa e al Diritto canonico, i quali evidentemente, secondo Roche, in tempo di emergenza possono essere tranquillamente liquidati.

Luisella Scrosati

https://lanuovabq.it/it/un-anno-di-lockdown-cosi-abbiamo-abdicato-alla-liberta

CON IL PRETESTO DEL VIRUS

Un anno di lockdown. Così abbiamo abdicato alla libertà

È da un anno che viviamo in un regime sanitario, con restrizioni alla libertà senza precedenti in spregio alla Costituzione. E non se ne vede la fine. E se l'Italia ha toccato il punto più elevato, il fenomeno della "libertà in cambio della salute" interessa gran parte dei paesi occidentali. È il segno che la cultura della libertà, dei diritti e dell'uguaglianza ha perso i suoi fondamenti, non ultimo come conseguenza della secolarizzazione radicale ormai consolidata che ha svuotato le istituzioni liberaldemocratiche dei loro presupposti religiosi e culturali, ovvero la prevalenza della persona e della società rispetto al potere, della libertà e della dignità rispetto alla vita puramente fisiologica.



Un anno fa il governo Conte bis istituiva per decreto legge lo stato di emergenza sanitaria a causa del virus Covid-19.

Iniziava così un periodo assolutamente inedito per l'Italia dal punto di vista politico e giuridico. Sotto la spinta di un allarme sanitario che fino ad allora era stato tenuto estremamente basso, fino alla sottovalutazione, ma che tra febbraio e marzo sarebbe rapidamente lievitato fino a essere dipinto come un pericolo apocalittico, veniva bruscamente messo tra parentesi - per non dire in soffitta - l'ordinamento costituzionale italiano, che non prevede alcuno stato di emergenza per motivi sanitari. Allo stesso tempo veniva adottata una raffica di provvedimenti restrittivi delle libertà personali e delle attività economiche e sociali di incidenza tale che non era mai stata raggiunta né durante epidemie del passato, né durante la dittatura fascista, né in situazioni di guerra o di minacce terroristiche.

Non solo: quelle restrizioni venivano attuate attraverso una tipologia giuridica del tutto inusuale, mai usata in passato in simile entità e con simile peso: il decreto del presidente del Consiglio dei ministri (Dpcm). Tale provvedimento amministrativo, privo di  valore di legge in sé e destinato originariamente ad un uso esplicativo di leggi e decreti, in questo caso ha riempito di contenuti (divieti, chiusure, limitazioni di diritti, persino raccomandazioni) il decreto legge originario, e quelli susseguitisi nei mesi successivi, che erano invece pure “scatole” vuote; e davano all'esecutivo una delega praticamente illimitata di azione.

Lo stato di emergenza così configurato, già di per sé estraneo all'ordinamento costituzionale e difficilmente compatibile con un ordinamento liberaldemocratico, è stato successivamente reiterato più volte fino ad oggi – caso unico al mondo - e attualmente è ancora prorogato fino al 30 aprile, con serie probabilità di durare ulteriormente, nella acquiescenza praticamente totale della classe politica, opposizioni comprese.

Attraverso esso, sono stati in vario modo limitati o impediti la libertà personale, quella di circolazione sul territorio nazionale, quella di impresa, quella di riunione e associazione, quella di culto. Sono state forzosamente chiuse o limitate attività economiche che forniscono servizi essenziali alla vita sociale, come ristoranti, bar, negozi, centri estetici, cinema, teatri, sale da concerto, locali da ballo, strutture turistico-alberghiere. È stata confinata a distanza quasi per tutto il periodo l'attività didattica di scuola e università (anche qui caso unico al mondo). È stata impedita l'attività culturale, chiudendo musei e mostre d'arte e siti archeologici, impedendo convegni, dibattiti, eventi. È stata provocata una recessione che per il 2020 ha superato il 10%, con la chiusura di centinaia di migliaia di aziende e la perdita di più di un milione di posti di lavoro, al lordo dei licenziamenti impediti finora dal blocco, e a fronte di centinaia di migliaia di lavoratori in cassa integrazione a spese del bilancio pubblico, e di un ingente aumento della spesa pubblica, del deficit, del debito per “ristori” e bonus a pioggia, che non ha portato alcun serio contrasto al disastro economico e sociale in atto.

Si sono concentrati inoltre poteri altrettanto ingenti nelle mani di un commissario straordinario che ha dato prova solo di straordinaria inefficienza; in un comitato tecnico-scientifico formato da “esperti” scelti dal governo senza serio confronto, e le cui prese di posizione sul problema dell'epidemia sono variate nel tempo considerevolmente, pregiudicando la loro credibilità; e in task force composte da un numero sovrabbondante di consulenti non corrispondente ad alcuna necessità.

Il tutto giustificato dall'urgente esigenza, ritenuta prevalente rispetto a qualsiasi altro fine, di contrastare l'epidemia di un virus para-influenzale asintomatico o lieve in più del 90% di coloro che lo contraggono; che, dopo una prima fiammata a livello di letalità preoccupante (10-15%) ha assestato la percentuale di decessi in rapporto ai casi censiti al di sotto dell'un per cento, con la fondata probabilità che se si tenesse conto di tutti i contagi non registrati si scenderebbe anche al di sotto dello 0,1. Un virus, per giunta, la cui pericolosità è quasi tutta concentrata in una fascia di popolazione molto strettamente delimitata: gli anziani ultrasettantenni con alcune patologie pregresse (dai problemi cardio-vascolari al diabete all'obesità alle malattie respiratorie croniche), con un'età media delle vittime superiore agli 80 anni. Ciò che renderebbe relativamente semplice studiare interventi di prevenzione e terapia specificamente rivolti proprio a proteggere quella fascia.

Al contrario, si è scelto un regime di vera e propria paralisi della società, a tempo indeterminato, con ripercussioni drammatiche sul sistema sanitario nel suo complesso (abbassamento drastico del livello di contrasto a molte patologie di forte rilevanza sociale) e con esiti anche psicologici e culturali preoccupanti, ma che non è affatto certo abbiano conseguito risultati efficaci nel “mitigare” (come gli esperti di Stato amano dire) l'impatto del virus, se si confrontano con quelli ottenuti in paesi che hanno scelto strategie molto meno drastiche ed emergenzialiste.

Come è stato possibile tutto questo? Come è stato possibile che la classe politica italiana abbia con tanta leggerezza adottato misure dagli effetti così drammaticamente negativi, così stridenti con la democrazia liberale e l'economia di mercato, senza che in essa si sia sviluppato un dibattito approfondito? E soprattutto come è stato possibile che gran parte della società civile italiana abbia accettato tutto questo senza ribellarsi, senza opporsi, senza chiedere conto di queste scelte inaudite a governanti e rappresentanti parlamentari? E come è possibile che ancora lo accetti, nonostante il malcontento, il disagio, persino la disperazione generati da tale corso delle cose?

Si dice, generalmente, che il sentimento prevalente nell'opinione pubblica in questo annus horribilis sia stato la paura; che a fronte del dilagare di essa i cittadini abbiano preferito in massa la protezione e la sicurezza della “nuda vita” rispetto alla libertà e persino al lavoro, e che questo fenomeno non è stato proprio soltanto dell'Italia, ma di gran parte dei paesi occidentali.

Ma se è così, questa considerazione apre un vero e proprio abisso nell'idea che avevamo delle società occidentali liberaldemocratiche. Guardando dentro questo abisso, si rabbrividisce a pensare che dunque forse la cultura delle libertà, dei diritti, dell'uguaglianza, della rappresentanza in Occidente è molto più superficiale, labile, priva di fondamenti culturali solidi di quanto fosse lecito attendersi: tanto che basta la psicosi provocata da un'epidemia non certo mortale come le pesti dei secoli scorsi, o come morbi ben più temibili manifestatisi in epoca contemporanea, per spingere popolazioni di consolidata tradizione democratica e costituzionale ad affidarsi ciecamente ai propri governanti, rinunciando ad ogni prerogativa e diritto di critica. Ben più di quanto sia avvenuto nel recente passato davanti, ad esempio, alla minaccia del terrorismo interno o internazionale. Inoltre la situazione italiana appare, tra i paesi occidentali industrializzati, quella di maggiore gravità da questo punto di vista. Siamo, infatti, il paese che ha visto la congiunzione al massimo grado tra la severità delle misure restrittive, la gravità della situazione sanitaria e i danni economici e sociali.

Per cercare di offrire una spiegazione plausibile della deriva emergenzialista diffusa a livello internazionale – ma controbilanciata da politiche più pragmatiche ed equilibrate adottate in molte nazioni, dall'Asia orientale alla Russia, all'India, ai paesi scandinavi – e all'interno di essa al “caso italiano”, si può soltanto pensare alla convergenza o stratificazione tra diversi fattori economici, politici, culturali che hanno trovato nell'insorgere dell'infezione da Covid-19 la loro catalizzazione.

Al livello più alto, l'emergenzialismo pandemico e la “dittatura sanitaria” ha favorito la saldatura fra tre nuclei di potere dominanti dell'economia mondiale: il capitalismo paternalistico/autoritario cinese, il mega-capitalismo hi tech di Silicon Valley e il dirigismo gerarchico dell'Unione europea. Tre nuclei interessati a incanalare il mercato globale all'interno di grandi concentrazioni oligopolistiche tecnologizzate intrecciate al potere politico e di consumi sempre più “smaterializzati”, che le politiche di “lockdown” hanno ampiamente favorito.

Ma tale disegno di riorganizzazione non avrebbe potuto avere successo se i processi di secolarizzazione radicale ormai consolidati in Occidente non avessero svuotato le istituzioni liberaldemocratiche dei loro presupposti religiosi, spirituali, culturali: la prevalenza della persona e della società rispetto al potere, e dunque l'invalicabilità dei limiti allo stesso, nonché la preferibilità della libertà e della dignità rispetto alla vita  puramente fisiologica.

Infine, nel caso italiano, e in misura minore in altri paesi, l'epidemia “narrata” allarmisticamente come “pandemia” ha rappresentato un provvidenziale strumento di rilegittimazione e ricompattamento per classi politiche e dirigenti sempre più screditate e poco riconosciute dalle società civili come efficacemente rappresentative; quindi un espediente per contrastare quella crisi delle democrazie di massa nota come “antipolitica” o “populismo”, attraverso il ricorso a soluzioni di governo che hanno mescolato elementi “tecnicistici” (gli “esperti”, i comitati tecnico-scientifici) alla rassicurazione offerta da poteri fortemente personalizzati e dall'appello sentimentale all'”union sacrée”, alla trincea, all'”andrà tutto bene”.

Droghe pesanti, che rischiano di dare luogo – e stanno dando luogo – a fenomeni di assuefazione, e in un prossimo futuro potranno portare, se la tendenza non si invertirà rapidamente, alla morte delle democrazie per “overdose”: o provocheranno, se le società civili usciranno dal loro torpore, drastici e rivoluzionari movimenti di “disintossicazione”. 

Eugenio Capozzi

https://lanuovabq.it/it/un-anno-di-lockdown-cosi-abbiamo-abdicato-alla-liberta

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