ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

domenica 14 marzo 2021

È un mondo che ormai gira intorno al Papa, più che alla Santa Sed

IL SIGNORE VESTITO DI BIANCO È PAPA?



I Cristiani muoiono come cani nelle terre dell’Islam, ma colui che secondo alcuni ostinati è il vicario di Cristo non li difende.
Nei lontani tempi della mia infanzia, sessant’anni fa, alla fine della Messa leggevano il primo magnifico pezzo del Vangelo di San Giovanni. Ce lo leggevano in latino e noi lo capivamo, perché se vai a Messa tutte le domeniche e la Messa oltre che essere completamente diversa da quella attuale, è anche celebrata in  latino, dopo un po’ il latino lo impari.
In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio, e il Verbo era Dio. Il Verbo è Gesù Cristo. Presso Dio c’era Gesù Cristo, non Maometto, quindi chi afferma che Cristo e Maometto sono pari grado, o parenti, addirittura fratelli sta contraddicendo il Vangelo. C’è anche il particolare che uno dei due è risorto, e l’altro no, che marca una differenza non così trascurabile, Sempre in quel primo magnifico pezzo del Vangelo di San Giovanni è specificato che solo coloro che credono in Cristo, e solo loro, sono resi dal credere in Lui, figli di Dio. Non basta essere creature umane, è specificato con molta chiarezza. Credere nel nome di Cristo ci fa nascere non dal sangue né dalla volontà della carne e nemmeno la volontà dell’uomo, ma da Dio. I nostri fratelli sono coloro che credono in Cristo. Musulmani e buddisti possono essere degnissime persone, ma non sono nostri fratelli. Solo chi crede in Cristo lo è. Quando incontriamo un non cristiano noi dobbiamo renderlo un nostro fratello convertendolo. E se non lo facciamo violiamo la verità che rende liberi, violiamo la volontà di Cristo.
Ripetere queste righe a ogni Messa rendeva chiaro  nella mente dei sacerdoti oltre che dei fedeli il fatto che sono nostri fratelli solo coloro che sono nostri fratelli in Cristo e che è un peccato per un cristiano non convertire cioè non rendere gli altri fratelli. Chi non è con me è contro di me, e chi non raccoglie con me, disperde, afferma Cristo, in una frase riportata identica nei tre Vangeli sinottici. I margini per il dialogo inter religioso non ci sono. Se credi in Cristo sei con Lui, se non ci credi sei contro di Lui. Non ci sono posizioni neutre, giustamente, e non ci sono posizioni unitarie. Cristo afferma di essere venuto a portare la divisione, è quanto di più divisivo esista, perché o credi in Lui o sei contro di Lui. Chi vuole l’unità con le altre religioni è contro Cristo, nega l’unicità di Cristo.
Eppure la nuova chiesa 2,0 è andata in Iraq per parlare con le gerarchie islamiche fraternamente, (ovviamente senza mascherina che è per i servi, non per le élite): in questa maniera ha negato il Vangelo.
Bergoglio ha detto che l’Ayatollah Al Sistani è stato una luce per lui. Per un cristiano l’unica luce è Cristo. Come può essere una luce per un cristiano qualcuno che non riconosce la divinità di Cristo? Bergoglio  salutato invocando Allah. Il Primo comandamento è stato violato.  La fantasiosa, affermazione che il Dio degli ebrei sia lo stesso di Gesù Cristo e sia lo stesso degli islamici, è fantasiosamente falsa. Ebrei e Musulmani non credono nella trinità, e quindi non è lo stesso nostro Dio, perché in principio era il Verbo, che era presso Dio. Nel notevole libro Tra nichilismo e Islam. L’Europa come colpa di  Gianni Baget Bozzo e Raffaele Iannuzzi troviamo scritte queste righe fondamentali.
 “La creazione è un concetto fondamentale del Cristianesimo proprio come realtà altra da Dio, anche se in Dio ha la sua origine e il suo fondamento. Per l’islam la creazione esiste solo come produzione costante della volontà divina: Dio è l’unica causa di tutti gli eventi. Il concetto di natura non ha quindi alcuna parte nel pensiero islamico, che non riconosce – differentemente dal Cristianesimo – alcuna autonomia alle causalità create”. Nella religione islamica, a rigore, il problema del male non si pone, come non si pone il problema del libero arbitrio: male è l’infedele, “un nulla che si ribella contro l’unica causa del suo esistere”. Un nulla che deve essere annientato: “È questa la sottile forma di nichilismo che pervade il pensiero islamico e che, non a caso, ha trovato nelle azioni annichilenti, cioè nelle azioni di guerra, la sua forma propria di azione civile e sociale. Al tempo stesso, l’annullamento, la morte in battaglia, è il modo con cui il musulmano entra nello spazio secondo della creazione che non è, come per il Cristianesimo, la vita in Dio, ma solo un’esistenza premiata”.
 Cristo è morto per noi così da renderci, attraverso la fede in lui, figli di Dio. Nell’Islam noi siamo servi di Allah, non figli.
È venuto quindi il momento di lasciar perdere la paura, il terrore di uno scisma, l’orrore di picchiare ulteriormente su una santa madre Chiesa che rantola per terra in mezzo a pozzanghere arcobaleno, e invoca un vaccino fatto su cellule di feti umani abortiti volontariamente come unica salvezza. Il momento è venuto di unirci alle voci sempre più insistenti che spiegano l’assoluta irregolarità, per usare un termine eufemistico, dell’elezione a Papa del signore che ha appena dichiarato un ayatollah la sua luce e ha salutato in nome di Allah.
Sono sempre più numerosi gli avvocati che analizzando il testo dell’abdicazione di Sua Santità Benedetto XVI non possono che rilevare che quel testo sta negando l’applicazione. Ora si è aggiunto  anche l’avvocato Taormina. Il Cardinal Pell ha affermato che il Papa che abdica deve tornare vescovo o cardinale, se sua Santità Benedetto XVI continua a vestire di bianco e a comportarsi da Papa vuol dire che è Papa: la sede non era vacante all’elezione di Bergoglio, quindi elezione  invalida.  Marco Ansaldo, giornalista de La Repubblica nel libro “Un altro papa. Ratzinger, le dimissioni e lo scontro con Bergoglio” , sottolinea l’incompatibilità delle due visioni e la falsità dell’immagine edulcorata di due Papi felici e concordi, dando un’involontaria ma potente coltellata all’idea che il passaggio non sia avvenuto sotto coercizione.
Frà Alexis Bugnolo, uno dei maggiori latinisti al mondo ha esaminato la Declaratio di rinuncia di Benedetto XVI, rendendosi conto che è invalida, oltre che infarcita di errori ortografici nella prima edizione. Il Papa non rinuncia, ma dichiara di rinunciare, formula che non vuol duire nuulla, e non rinuncia al Minus papale, cioè all’essere Papa. L’Avvocatessa argentina Acossa ha scritto 300 pagine che affermano l’invalidità.
Sul suo ottimo blog Marco Tosatti, ripubblica un formidabile articolo dii Sergio Russo in commento alle affermazioni del Papa, l’unico, fatte al Corriere della Sera: c’è un solo Papa.
Dal quotidiano Libero e dal suo blog, Andrea Cionci articolo dopo articolo ha raccolto tutte le prove, ha ricostruito tutti i passaggi, perché non ci posano più avere dubbi.
Sempre più numerosi sono i sacerdoti che celebrava la messa una cum Benedetto, molti degli Stati Uniti, qualcuno in Italia. Don Enrico Roncaglia, è uno di coloro che non celebra la messa in unità con Francesco, ha pagato carissima questa sua scelta. Mi ha parlato del profondo dolore di un sacerdote nel celebrare la messa, la Santa Messa in unità con un supposto Papa che nega il Vangelo praticamente ogni giorno, e che arrivato al soglio pontificio con una elezione clamorosamente dubbia, un dolore  che è diventato intollerabile davanti al Vangelo contraddetto, ai Comandamenti violati al punto tale che questo sacerdote ha rinunciato tutto, alla casa, lo stipendio e soprattutto  alla sua parrocchia, dove era amato dai suoi parrocchiani,  dove poteva celebrare in una magnifica chiesa del ‘600 incastonata tra le montagne. “Ma – ricorda Don Enrico- la propria coscienza è molto più importante di qualsiasi cosa, perché essere fedeli a Cristo è molto più importante della casa, della sicurezza, addirittura dell’affetto dei parrocchiani. Noi sacerdoti siamo i figli prediletti della Madonna, noi non possiamo mentire”.
Sono sempre più numerosi i sacerdoti sia in Europa, ma soprattutto negli Stati Uniti che fanno la stessa scelta. Lo scisma c’è già. Chiediamo ai cardinali ancora fedeli alla Chiesa di prenderne atto e di intervenire. Non lasciate soli i sacerdoti coraggiosi che, figli prediletti della Madonna, stanno pagando prezzi enormi per la verità. Lo scisma c’è già. Raccogliete attorno a voi il piccolo resto con una fede impavida e guidatelo.


Papa Francesco, come è cambiata l’informazione religiosa otto anni dopo?



L’elezione di un Papa è sempre
, e per forza, un cambiamento di epoca. Un nuovo Papa, per i giornalisti che si occupano di informazione religiosa e in particolare di Vaticano, significa una nuova rete di contatti, un nuovo modo di interpretare le situazioni, un nuovo linguaggio da decifrare. Con l’elezione di Papa Francesco, otto anni fa, a tutto questo si aggiungeva una difficoltà ulteriore: il Papa che veniva “dalla fine del mondo”, come lui stesso ebbe a dire, non aveva nemmeno intenzione di utilizzare il linguaggio che si era da sempre utilizzato in Vaticano. Aveva altri criteri, altri linguaggi, altri modi di vedere.

Tutto, nella informazione religiosa degli ultimi otto anni, si è giocato in fondo su questo equivoco. Abbiamo continuato ad usare paradigmi vecchi per raccontare quello che c’era, senza considerare il reale linguaggio di chi c’era. Ed è stato un errore che probabilmente hanno fatto tutti. Spesso non per dolo, ma semplicemente perché non si vedeva la possibilità di fare altrimenti.

L’informazione religiosa è stata per anni condizionata dal dualismo tra “Concilio reale” e “Concilio dei media”, secondo la felice espressione di Benedetto XVI nell’ultimo incontro con il clero romano prima della rinuncia. Questo dualismo ha creato due fronti contrapposti, due ideologie che sono diventate ideologie narrative, e che sono state nutrite anche all’interno di movimenti cattolici, organismi parrocchiali - insomma in tutti quei posti di formazione da cui poi i media hanno attinto per trovare giornalisti capaci di raccontare la religione e in particolare il Vaticano.

Non viene niente di buono dall’ideologia previa, e nemmeno dal dualismo. Si crea una polarizzazione, e questa polarizzazione crea gruppi di interesse frammentati e particolari. Frammentati, perché composti da poche persone, e spesso divise tra loro. Particolari, perché hanno interessi particolari: alcuni pensano solo al problema liturgico, altri solo a quello sociale e via dicendo.

Sono gruppi, però, che si sono formati in Vaticano. Ne conoscono i linguaggi. Ne utilizzano le chiavi di lettura. È da questo dibattito che nasce la candidatura di Jorge Mario Bergoglio a Papa. Una candidatura che nasceva in un linguaggio preciso, e che di quel linguaggio si nutriva.

Di Bergoglio, si sapeva che era arrivato secondo al Conclave (non si sarebbe dovuto sapere, ma si è saputo attraverso la pubblicazione dei ‘Diari’ del conclave di uno dei porporati in Sistina). Di Bergoglio, si era cominciato a parlare già nei primi Anni Duemila, e infatti si trova ancora in rete uno dei primissimi profili fatto da Sandro Magister, che aveva subito fiutato la situazione (se non ci credete, cliccate qui). Bergoglio doveva rappresentare, in qualche modo, quel cambio di passo che non si era avuto con Benedetto XVI. Era un tornare indietro per guardare avanti, nelle intenzioni dei porporati che da più tempo erano invischiati nelle cose di Curia.

Da qui, viene anche la necessità di creare intorno a Bergoglio un cambio di narrativa, come spiegarono quattro cardinali americani al Wall Street Journal poco dopo l’elezione (l’articolo si può trovare qui). E il cambio di narrativa doveva marcare una discontinuità forte.

Questo cambio di narrativa era favorito dal fatto che i media cercano notizie e si cibano di novità. Tutto quello che fa un nuovo Papa viene enfatizzato, ogni gesto viene ponderato ed esaltato. Di Papa Francesco si fece subito vedere che pagava personalmente la residenza di via della Scrofa dove era stato prima del Conclave, mentre lui stesso mostrò il suo lato pietista, tipicamente latino americano, chiedendo al popolo di benedirlo prima di dare la benedizione, andando poi subito a Santa Maria Maggiore il giorno successivo all’elezione e infine celebrando Messa nella parrocchia di Sant’Anna in Vaticano la domenica dopo l’elezione.

Il Papa latino americano portava nella Chiesa il vento nuovo della Chiesa dell’America Latina che voleva un vescovo presente in mezzo al popolo, che fosse vicino al popolo, e che nutrisse il popolo della sua vicinanza. Un po’ come Juan Domingo Peron, che togliendosi la camicia davanti ai descamisados si dimostrava uno di loro, ma così facendo dimostrava anche di abbassarsi al loro livello, quindi di essere comunque un capo. In fondo, ogni popolo ha la sua storia, i suoi linguaggi, i suoi modi di essere.

Eppure, tutto questo non poteva nemmeno essere raccontato. Quando lo studioso di populismo sudamericano Loris Zanatta parlò di “Papa populista”, fu subito attaccato come se avesse offeso il Papa. Era il 2016. Nel frattempo, Papa Francesco ha portato avanti il suo lavoro esattamente usando i criteri, i linguaggi e i pensieri che gli vengono dalla sua storia, che è rimasta intatta. È un Papa che non si è fatto toccare da Roma e dal Vaticano, ma piuttosto ha cercato di cambiare Roma e il Vaticano a sua immagine, a partire da quando, sulla Loggia Centrale appena elettto, si presentò al mondo senza la mozzetta, la mezza mantella degli ecclesiastici che copre solo le spalle, di velluto rosso e bordata di ermellino. La stola rossa, invece, la aveva voluta adoperare soltanto per la benedizione alla città di Roma e al mondo, ma poggiandosela sulle spalle e togliendosela da solo, sfilandola, in entrambi i casi, dalle mani del cerimoniere Marini.

Gesti, questi, che hanno dimostrato in fondo il suo essere latino americano. Perché in America Latina, il leader è l’istituzione, ci sono generazioni di leader, mentre la lunga storia europea ha portato alla consapevolezza che l’istituzione è sempre di più delle persone che la governano.

In questi otto anni, l’informazione religiosa ha deciso spesso di ignorare la profondità della storia, di andare a fondo nel pensiero del Papa. Lo si è fatto, a volte, e spesso lo si è fatto solo in funzione critica. Non lo si è fatto in funzione analitica. Ci si è sempre divisi in gruppi, e così facendo si è persa la visione di insieme.

Tuttora, c’è chi esalta tutto di Papa Francesco, e vira tutti i suoi giornali e articoli su tematiche che sembrano affini al Papa argentino, e chi invece lo critica sempre, e trova ogni pretesto per criticarlo. Non si è formato, in questi otto anni, un giornalismo basato sulle idee che prescindono il pontificato, e che dovrebbero raccontare la Chiesa. Ci sarebbe voluto un sano distacco, che invece difficilmente c’è stato.

Il tutto mentre lo stesso panorama informativo si impoveriva. Le crisi di Tempi e Il Regno, la chiusura di Trenta Giorni, la scomparsa di molti giornali diocesani; le strette economiche che hanno costretto i media a dover cercare i click, e dunque spesso a pensare di non dover approfondire; una errata percezione del lettore, e del lettore cattolico, considerato come un papista o un anti-papista a prescindere, ma mai come persona  di Chiesa che vuole sentire parlare di Chiesa, persona  di fede che vuole sentire parlare di fede, persona cattolica che vuole capire il Vaticano, e lo vuole capire al di là delle urla sugli scandali e gli errori.

Otto anni di Papa Francesco, con il suo linguaggio nuovo ma anche differente, avrebbero dovuto formare generazioni migliori di vaticanisti, e giornalisti cattolici più credenti di prima. Perché tutti avrebbero dovuto imparare a comprendere il nuovo linguaggio senza rinnegare il vecchio, anzi valorizzandolo, apprezzandolo, anche difendendolo quando questo andava a scomparire. Perché le istituzioni vivono delle loro forme, le forme sono la sostanza delle istituzioni. Se le istituzioni vengono svuotate della loro storia e del loro modo di essere al mondo, non esistono più, diventano solo scatole vuote.

Otto anni di Papa Francesco hanno invece formato un giornalismo o propagandista o aggressivamente contro. Bergoglio era considerato divisivo in Argentina, c’è chi ha scritto che anche dopo i suoi anni da provinciale dei gesuiti, la provincia era divisa in pro-Bergoglio e anti-Bergoglio. Lo è stato anche a Roma, nel bene e nel male. E lo è anche quando intorno a lui si crea una comunicazione paracadute, che mira ad esaltarne le mosse e i gesti. È una comunicazione eternamente di crisi, un po’ come la Chiesa ospedale da campo.

E così, di fronte al mea culpa dei media, forse anche la comunicazione vaticana dovrebbe fare qualche mea culpa. Perché è una comunicazione che vuole essere trasparente, ma che non si mette in gioco. Non si mette in gioco perché da tempo mancano conferenze stampa su temi difficili e su questioni complesse, che siano quelle finanziarie alle decisioni di tipo liturgico o normativo, annunciate e praticamente sempre accompagnate da interviste pre-confezionate, ma mai da una conferenza stampa in cui tutti possano fare domande.

Si parla del Papa, e si parla dei temi del Papa. Si centra tutto sul qui ed ora, sul pontificato attuale, senza dare una profondità storica. Lo fanno i media, in generale, ma lo fa anche la comunicazione istituzionale e persino l’istituzione stessa – per esempio, con l’anno della Famiglia “Amoris Laetitia”, intitolato all’esortazione apostolica con il chiaro scopo di favorirne la recezione e renderla documento centrale nella pastorale.

È un mondo che ormai gira intorno al Papa, più che alla Santa Sede. È un mondo che gira intorno ai discorsi del Papa, più che alla tradizione della Chiesa. Forse sono solo i tempi. Di certo, i giornalisti che fanno informazione religiosa dovrebbero cercare qualcosa di più. Dovrebbero andare oltre le questioni della narrativa o della notizia. Dovrebbero provare a cambiare il modo di fare giornalismo. Il momento è ora.

Perché, in fondo, l’ottavo anno di pontificato sarà anche quello dei grandi cambiamenti. Ci saranno nuove persone, con un grande ricambio generazionale in Curia, e dunque nuovi linguaggi. Sarà il momento di andare oltre il contingente, per fare un giornalismo largo, profondo e preciso. La sfida più complicata, perché tutto questo dovrà anche essere fatto con la velocità resa necessaria dai mezzi di comunicazione di oggi.

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