LA PANDEMIA
Schiavi del vaccino
Nessuno sa quanto duri la copertura dei vaccini anti-Covid, anche se con tutta probabilità dovrebbe non superare i 9-12 mesi. Il che vuol dire che è illusorio pensare che con il vaccino attualmente in circolazione si risolva tutto. La prospettiva verso cui ci stanno portando è quella di un sistema di vaccinazione continua.
Uno degli argomenti più diffusi a favore della vaccinazione di massa anti-Covid è che si tratta dell’unico modo per uscire da questa situazione di pandemia e lockdown. Che sia rassegnazione o convinzione poco conta, fatto sta che c’è una generale convinzione che una volta vaccinata la stragrande maggioranza della popolazione, si potrà chiudere questo lungo capitolo di sofferenza. E le diffuse reazioni avverse – febbre alta, spossatezza, malessere generale per alcuni giorni – diventano un prezzo accettabile da pagare per riconquistare la normalità.
C’è però un doppio calcolo sbagliato in tutto questo. Anzitutto dalle élite che ci governano non è previsto il ritorno alle condizioni di vita pre-Covid, ci è stato detto esplicitamente in tutte le salse. Anche il presidente del Consiglio Mario Draghi, nel discorso programmatico del governo, pronunciato al Senato lo scorso 17 febbraio, ha detto molto chiaramente – rifacendosi alla Parola della Scienza – che «uscire dalla pandemia non sarà come riaccendere la luce». Ma di questo avremo ancora modo di parlare.
Qui invece vorremmo soffermarci sul secondo calcolo sbagliato, quello dei vaccini. Ciò che abbiamo di fronte infatti non è l’ipotesi di un vaccino una tantum che sradica una malattia, ma l’introduzione a una logica vaccinale tendenzialmente senza fine. Qui non c’entra essere no-vax – non lo siamo affatto – ma è una pura questione di logica e buon senso.
I vaccini che stanno venendo inoculati hanno infatti una copertura limitata. Quanto? Nessuno lo sa. L’Istituto Superiore di Sanità (ISS) afferma che «le osservazioni fatte nei test finora hanno dimostrato che la protezione dura alcuni mesi, mentre bisognerà aspettare periodi di osservazione più lunghi per capire se una vaccinazione sarà sufficiente per più anni o servirà ripeterla».Ma la possibilità di una copertura pluriennale del vaccino, ventilata dall’ISS, non trova riscontro nelle dichiarazioni delle case farmaceutiche interessate. Sia Pfizer che Moderna, a proposito della “durata della protezione” affermano: «La durata della protezione offerta dal vaccino non è nota; sono tuttora in corso studi clinici volti a stabilirla». Per quanto riguarda Astrazeneca invece non si dice proprio nulla.Dunque, non si sa. Ed è per questo – spiega il Center for Control Disease degli Stati Uniti – che chi ha fatto il vaccino deve comunque continuare a indossare la mascherina e mantenere il cosiddetto distanziamento sociale. In ogni caso nessuno scommette su una copertura che duri oltre i 9-12 mesi. Ciò significa che a meno che il coronavirus decida di togliere spontaneamente il disturbo, la prospettiva più probabile è una vaccinazione annuale. Peraltro, anche ammesso che si raggiunga – secondo gli ultimi impegni assunti dal governo – l’immunità di gregge per settembre grazie alla campagna vaccinale, ecco che a quel punto sarà già ora di ricominciare da capo, visto che nel frattempo sono già passati nove mesi.
Inoltre per le tante varianti del virus che sono in giro e che fanno paura (anche se non è verificata la maggiore pericolosità), è tutto da dimostrare che i vaccini già in distribuzione siano ugualmente efficaci: tutto è da vedere, ma anche qui lo scenario probabile è quello di una continua rincorsa alle varianti e relativa somministrazione sistematica di vaccini.Anche il probabile passaporto vaccinale, già introdotto dalla Cina e che potrebbe presto diventare realtà nell’Unione Europea (la proposta verrà presentata il 17 marzo), ha senso solo in funzione di una vaccinazione continua; altrimenti a settembre-ottobre, per i primi che si sono vaccinati, il passaporto sarà già sorpassato.
Dunque già questo basterebbe per capire che la prospettiva è quella di una vaccinazione continua. Ma c’è di più: abbiamo già avuto modo di rilevare che il Presidente della Commissione Europea, Ursula von der Layen, ha parlato di questo tempo come dell’inizio dell’«era delle pandemie». E Bill Gates, nella Lettera Annuale 2021 della Fondazione che porta il suo nome e quello della moglie, le fa eco facendo anche proposte (tra cui sistematici screening di massa) per intervenire in tempo nelle prossime pandemie.
Insomma, chi si vaccina ora – e che certamente avrà valutato che i benefici sono maggiori dei rischi - sia consapevole che è solo l’inizio, e che fatto il primo vaccino è giocoforza che seguiranno anche gli altri.
Riccardo Cascioli
https://lanuovabq.it/it/schiavi-del-vaccino
CURARE IL COVID
Clorochina, i medici smontano lo studio "negazionista"
Ennesimo studio, finanziato da Bill Gates, pretende di dimostrare che l'uso dell'idrossiclorochina in fase precoce sia inutile. Ma è pieno di limiti e gli scienziati che hanno condotto studi positivi scrivono alla rivista per confutarlo: «Una media di 6 giorni per l'inizio delle terapie non può essere considerata fase precoce». Sotto accusa anche l'esiguo numero di pazienti coinvolti e la mancanza di dati clinici sulle loro condizioni. «Il reclutamento è avvenuto via social e senza visite. Non può essere considerato attendibile».
Quando si vuole demolire l’uso dell’idrossiclorochina contro il covid si dice sempre che gli studi scientifici hanno dimostrato che nel migliore dei casi è inutile e nei peggiori dannosa. E con questa formuletta giornali ed esponenti del governo, ma anche l’Aifa, in tutti questi mesi hanno continuato così ad escludere il farmaco antimalarico dal novero delle terapie da proporre contro il Coronavirus.
Ma quegli studi – come abbiamo imparato dalla bocca di numerosi medici – sono viziati dal fatto che il trattamento a cui sono stati sottoposti i volontari contagiati è iniziato o troppo tardi, quando ormai il paziente era in ospedale, o troppo presto, quando una profilassi a base di HCQ era inutile. O in altri casi, si trattava di dosaggi sbagliati.
La sentenza del Consiglio di Stato del dicembre scorso però ha cercato di risolvere il problema. I giudici amministrativi, nel dare il via libera alle terapie, anche se off label, si sono serviti infatti di tre studi effettuati in Italia, ma anche di altri, che hanno certificato come, invece, una somministrazione di idrossiclorochina in fase precoce della malattia, a domicilio, abbia portato a risultati sorprendenti in termini di guarigioni e di mancati ricoveri.
Allora si è denigrato il lavoro di questi professionisti andando a dire che in realtà i loro studi non erano randomizzati, cioè non comprendevano il cosiddetto gruppo di controllo a cui veniva somministrato contemporaneamente placebo. In poche parole: tutti gli studi sulla clorochina in fase precoce a domicilio sono stati trattati come studi di serie B e sono stati sempre ignorati dagli enti regolatori e dal Ministero della Salute.
Mancava all’appello uno studio randomizzato, e non evidence based, sull’uso dell’idrossiclorochina in fase precoce. Il 27 febbraio è arrivato, anche se si riferisce a pazienti trattati nel corso della primavera scorsa. Ed è arrivato grazie alla Fondazione Bill e Melinda Gates che lo ha finanziato. Che cosa dice? Che somministrare in fase precoce idrossiclorochina è inutile tanto da essere terminato anzitempo per «futilità operativa» (leggi qui l'articolo).
Dunque, è arrivata definitivamente la parola fine sul farmaco da 6 euro sul quale sono pronti a scommettere tantissimi medici che stanno curando nel disinteresse delle istituzioni? Così sembrerebbe.
Invece no.
Lo studio presenta in realtà diverse problematiche che i medici che hanno svolto ricerche sull’uso di clorochina precoce hanno evidenziato. I lavori di alcuni di loro sono serviti al Consiglio di Stato per emettere l’ordinanza in cui si sdoganava l’uso della clorochina. Ne è nata una lettera di prossima pubblicazione in cui gli specialisti lamentano il contenuto, la metodologia e i risultati dello studio che a loro giudizio contiene «pregiudizi e limiti».
Gli autori degli studi pro clorochina evidenziano in poche parole i tre grossi limiti della ricerca che già sui social viene spacciata come la pietra tombale sul farmaco nel trattamento del covid.
La prima grande criticità è rappresentata dall’arruolamento dei malati trattati: lo studio americano non tiene conto dei dati epidemiologici e anamnestici del paziente. Ad esempio, un iperteso o un diabetico ha più probabilità di contrarre una forma grave e questi fattori di rischio sono decisivi nel momento in cui si sviluppa la malattia. Nel selezionare i volontari non si sono tenuti in conto questi fattori. Così come non si è tenuto in conto lo stadio in cui si è iniziato il trattamento. Inoltre, fa difetto anche il numero del campione. Appena 231 pazienti, divisi in tre bracci: il primo trattato con idrossiclorochina, il secondo con idrossiclorochina e azitromicina (antibiotico) e il terzo, appunto, che ha ricevuto il placebo. Appena 77 pazienti per ogni braccio. Agli scienziati che lo hanno fatto notare alla rivista scientifica è parso un numero irrisorio, basti pensare che solo le tre ricerche, che hanno dato esito positivo, e sono state esaminate dal Consiglio di Stato, hanno coinvolto circa mille pazienti. Infine, l’età media dei pazienti: appena 37 anni, il che fa pensare che molti di loro, in condizioni di salute non gravi, sarebbero comunque guariti dal covid.
Il secondo fattore di critica della ricerca americana è legato all’assenza di una visita. I partecipanti – lamentano – sono stati selezionati attraverso una campagna social e non sono stati seguiti nella somministrazione del farmaco. Non sono state fornite le immagini radiografiche o le tac dei pazienti e tutto si è svolto a distanza. È questa una modalità di approccio abbastanza comune, ma non può essere considerata l’optimum, soprattutto in un contesto come l’attuale dove molto del Covid 19 non si conosce. Per capirci: i lavori vincenti in Consiglio di Stato svolti da Luigi Cavanna, Paola Varese e Alessandro Capucci, hanno trattato lo stesso numero di pazienti (350) e ha dato gli stessi sorprendenti risultati: solo il 5% di ospedalizzazione. Il tutto seguendo il paziente e curandolo con le rispettive equipe
Veniamo così al terzo problema, il più grave. Lo studio dice di essere stato effettuato su pazienti in trattamento precoce, ma quando si va a vedere la mediana dei giorni di inizio terapie, si scopre che è di 5,9 giorni, quasi sei. Secondo i medici si tratta di un periodo troppo lungo per un buon funzionamento di quel farmaco. Quasi una settimana non può essere un lasso di tempo considerato precoce dato che abbiamo visto che in una settimana di assenza di trattamenti attraverso la ben nota vigile attesa, l’evoluzione clinica della malattia da covid 19 può evolvere ben presto in complicanze, che il più delle volte necessitano un ricovero ospedaliero. In poche parole: le cure sono comunque iniziate troppo tardi, ragion per cui è fortemente problematico affermare che lo studio si basi su interventi in fase precoce.
In conclusione: forse qualcuno sperava di poter abbattere l’ultimo ostacolo e dimostrare così che l’idrossiclorochina non funziona neppure nel trattamento precoce della malattia, ma le osservazioni di chi invece ha curato e continua a curare con successo, messe nero su bianco in studi evidence based mai smentiti, restano ancora l’elemento più forte a sostegno della tesi dell’idrossiclorochina come farmaco anti covid nelle prime fasi della malattia, cioè 3-5 giorni.
Questo articolo potrebbe essere un boomerang per i detrattori del farmaco antimalarico e potrebbe aggiungersi agli altri già spacciati come definitivi, ma, come abbiamo visto, fuori target e per questo insufficienti a dimostrare alcunché.
Andrea Zambrano
https://lanuovabq.it/it/clorochina-i-medici-smontano-lo-studio-negazionista
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