RATZINGER "PAPA MODERNISTA"
Appuntamento settimanale con Don Curzio Nitoglia e Francesco Lamendola. Gli argomenti trattati in questa puntata sono: Papa Ratzinger , Cattolicesimo, modernismo, tradizionalismo, Viganò, Radio Spada, Filosofia, Kant, Hegel, Cartesio, Concilio Vaticano II, nuova messa, messa in latino, Lefebvre, Williamson, Dottrina, Teologia, riti woodoo, satanismo, Giovanni paolo II, Ecumenismo, magia, simboli, rituali, Antitradizione, satanismo.
IL SIMPOSIO
Ratzinger Papa modernista. Simposio con Don Curzio e il Prof. Lamendola
Fonte: Il Decimo Toro del 17 Marzo 2021
IL REGNO DELL’INIQUO E’ GIA’ TRA NOI – di Luigi Copertino
IL REGNO DELL’INIQUO E’ GIA’ TRA NOI
ed ha il volto del capitalismo finanziario
Una favola moderna
Nella favola cinematografica “Pretty woman” il protagonista, Richard Gere, trova nell’amore di una prostituta, Julia Roberts, la forza di cambiare trasformandosi da finanziere speculatore in imprenditore. Fino a quel momento la sua attività era stata quella di comprare, a due soldi, aziende in difficoltà per poi, incurante della sorte dei lavoratori e del know-how accumulato, smembrarle e rivenderle a prezzo maggiorato. Gere nel film ha interpretato il tipo umano dello speculatore che fa profitto – un profitto appunto speculativo – sulla pelle di chi produce, di chi crea e fa crescere le aziende ossia imprenditori e lavoratori che a livelli differenti lavorano in esse.
Nella finzione filmica Richard Gere riesce nel suo sporco gioco tramite le proprie conoscenze nel mondo della finanza e della politica in modo da iugulare gli imprenditori presi di mira per costringerli a svendere ed a cedere alle sue offerte ricattatorie. Quando incontra la Roberts, Gere è alle prese con due imprenditori navali, padre e figlio, che cercano di sottrarsi al suo ricatto perché nutrono speranza in una commessa governativa che avrebbe dato loro ossigeno. Gere riesce a bloccare l’appalto grazie ad un senatore che gli è debitore del finanziamento della campagna elettorale e quindi dell’elezione. Costretto a cedere, l’imprenditore navale senior chiede a Gere di non smembrare la sua azienda per preservare il posto di lavoro dei suoi dipendenti che avevano contribuito a farla crescere.
Naturalmente Gere dà una formale assicurazione, in merito, mentre già pensa al profitto che avrebbe ricavato dallo spacchettamento, senza il minimo scrupolo per la sorte dei lavoratori e delle loro famiglie. Perché lui non gestisce aziende, lui è un finanziere, uno speculatore, che fa denaro dal denaro, ossia senza alcuna preoccupazione per la base reale e produttiva. Il tipo umano rappresentato nel film da Gere non ha il gusto di fare, di creare qualcosa di buono ed utile per il bene comune, né quello di dare lavoro al prossimo e vedere prosperare i propri progetti investendo il denaro nella produzione. Per lo speculatore il denaro immobilizzato in concrete realtà produttive è denaro infruttuoso, sterile o sterilizzato. La prospettiva finanziaria vive della fecondità autogena del denaro, della moneta auto-riproduttiva, che cresce in quantità ed in valore fittizio senza troppi legami con le esigenze della produzione reale e quindi in modo sempre più indipendente dal lavoro umano.
Nella favola filmica, l’amore della Roberts rende possibile la trasformazione dello speculatore che ora inizia a capire l’essenza nichilista e distruttiva della manipolazione finanziaria dell’economia. Sicché non solo, per la rabbia di un repellente avvocato suo socio d’affari, Gere risparmia l’azienda navale ma offre al suo proprietario di entrare in società con lui perché «Finora – così dice, più o meno – le aziende sono stato capace solo di smembrarle, ora invece voglio costruire qualcosa di buono». Una favola, naturalmente – non a caso il film si chiude con un Gere che romanticamente torna dalla Roberts emulando un cavaliere nell’atto del salvataggio della sua principessa per essere lui stesso salvato da lei –, e tuttavia una favola moderna che, come le antiche, nasconde una profonda verità etica la quale rimanda alla Verità metafisica.
Antonio e Shylock
Ne “Il mercante di Venezia” William Shakespeare fa dire al protagonista, Antonio, in polemica con l’usuraio di turno che i suoi denari non sono montoni. L’usuraio shakesperiano si chiama Shylock. Lasciamo perdere, perché qui non ha importanza, il fatto che egli sia ebreo. Non ci importa adesso stabilire se si tratta di un ricorrente e secolare stereotipo oppure se, invece, questo stereotipo corrispondesse, all’epoca del grande drammaturgo inglese, ad una effettiva tipologia storica. Ci interessa invece evidenziare quanto sotteso dal protagonista della commedia shakesperiana. Antonio, infatti, vuol dire che il denaro non può riprodursi come i montoni, non può produrre da sé, senza investimenti reali, altro denaro. In altri termini, Antonio nega che il denaro possa riprodursi per autogenesi come vorrebbero gli usurai. Lo Shylock del suo tempo ed il Richard Gere del film odierno.
Nelle parole di Antonio è riflessa la tradizionale concezione sulla sterilità del denaro, quindi sull’illiceità del prestito ad interesse, che la Cristianità aveva ereditato senza dubbio dall’aristotelismo ma innanzitutto dalla propria radice ebraica. Il Cristianesimo, infatti, ha universalizzato il divieto di praticare l’usura e l’obbligo etico del patto di solidarietà che il Vecchio Testamento prescriveva per i membri del Popolo di Dio ossia tra soli ebrei. Entrati tramite Cristo anche i pagani nell’Alleanza del Dio di Abramo è ormai evidente che il Popolo di Dio, ovvero ora la Chiesa madre di tutti i popoli, comprende potenzialmente tutte le genti, non solo gli ebrei.
Al di là delle secolari diatribe su cosa fosse o meno interesse, e quindi prestito ad interesse, la questione essenziale che si celava dietro le dispute stava nella negazione che il denaro possa produrre altro denaro indipendentemente dalla sua connessione con le attività produttive, con il lavoro, con l’economia che oggi chiameremmo reale. Infatti, lo stesso Aquinate distingueva tra investimento e prestito ad interesse e sappiamo come la teologia sia storicamente alla radice della riflessione economica. L’economia, quale scienza umana, deriva direttamente dall’etica. Per questo quando si è preteso di separare l’etica dallo Spirito e quindi l’economia medesima dall’etica ogni freno all’avidità umana fu tolto.
Legittimità ed illegittimità del capitale
C’è, dunque, un capitale frutto del lavoro che è legittimo ed un capitale frutto della speculazione improduttiva che è moralmente e socialmente illegittimo. L’intuizione profonda sulla legittimità del capitale quando esso deriva dal lavoro – quello dell’imprenditore e insieme quello dei lavoratori – è stata la costante idea guida, nel loro sviluppo, delle correnti del pensiero sociale moderno, dal socialismo non marxista (Proudhon, Mazzini, Lassalle, Sorel, Avigliano, Labriola, Sismondi, Owen, Fourier, etc.) a quelle cristiane (Toniolo, Adam Müller, W. E. von Ketteler, Manning, De La Tour Du Pin, Ozanam, etc.), perfino quelle liberali (Einaudi).
«… si è trovato il pretesto … – scriveva nel 1939 Pierre Drieu La Rochelle – per abolire i beni accumulati con il lavoro o ereditati. Si distrugge così, con il peggio del capitalismo, anche il residuo meno malvagio dell’economia patriarcale, che sosteneva la possibilità della cultura e dell’indipendenza dello spirito».
Qui sta l’essenza del problema. La finanza, che dovrebbe essere soltanto uno strumento al servizio dell’economia reale, senza alcuna pretesa di distaccarsene, è diventata egemone, non più solo localmente ma ormai su scala globale. L’economia gira non più per produrre quanto necessario alla vita umana ma per accumulare profitti speculativi ed accrescere bolle finanziarie gonfie di valori fittizi, dematerializzati, avulsi dall’originaria base reale, parassitari come tutte le rendite improduttive. Bolle che poi, quando esplodono, fanno ricadere i loro effetti distruttori sull’economia reale, quella produttiva, quella della povera gente che si guadagna da vivere con il sudore della fronte, compresi i piccoli e medi imprenditori.
L’economia reale, quella delle piccole e medie realtà produttive, è un’economia dei produttori ed in quanto tale più sociale. Nella medio-piccola azienda l’imprenditore ed i lavoratori sono a stretto giro di gomito, si conoscono, si comprendono, sono entrambi consci che la loro vita dipende dalle sorti dell’impresa. Non è certo esclusa, come in tutte le realtà umane, la possibilità del conflitto interpersonale ma è anche vero che in tali realtà il conflitto è gestibile in modo più diretto e quindi risolvibile in modo più pragmatico. Si tratta di uomini reali che si guardano negli occhi, faccia a faccia, e che possono anche mandarsi reciprocamente a quel paese ma che, laddove prevalga il buon senso, finiscono per reciprocamente capirsi, e venirsi incontro, perché, pur nella differenza dei ruoli lavorativi (di direzione e di esecuzione), appartengono entrambi allo stesso ceto produttivo.
La finanza speculatrice, quella che fa denaro da denaro, al contrario non è un mondo di uomini per uomini ma è il mondo dell’impersonale potere del capitale anonimo che – nonostante sia questa la strada dell’annientamento economico, l’avidità è ciò che in esso regna – vuole svincolarsi dal lavoro, quindi dall’uomo, fino a sostituirlo oggi con l’automazione in modo che la produzione, così robotizzata, possa essere sottomessa alle sue immorali pretese di virtualizzazione ed auto-costruzione della realtà. Non solo autocostruzione della realtà intesa nel senso sociale ed economico del termine ma anche di quella intesa nel senso ontologico di “creazione”. Perché ciò che muove la finanza è l’antica, primordiale, ribelle, pulsione a “non servire” ma a “farsi servire” in un delirio di auto-deificazione.
Origini e sviluppo del capitalismo finanziario
Alle origini – contenuta in accettabili limiti da mille vincoli di natura etico-religiosa, politica, corporativa – l’attività bancaria, nella quale si espresse inizialmente la finanza, doveva muoversi tra le strette maglie di una fitta rete di obblighi sociali che la costringevano a non distaccarsi troppo dall’attività produttiva reale. Questo, in una costante tensione, è stato tra alti e bassi lo scenario dei secoli moderni, fino all’ultima parte del secolo scorso. Già latenti in precedenza, le pulsioni emancipatorie della finanza hanno tuttavia trovato definitiva affermazione nel passaggio al terzo millennio travolgendo, grazie alla globalizzazione, l’ultimo argine che era costituito dallo Stato quale agente della coesione nazionale. Emancipandosi dallo Stato, la finanza ha proclamato il suo insindacabile e globale dominio sopra tutto e tutti.
Essa ora controlla l’intero mediasistem globale e suo tramite crea l’etàt d’ésprit, la narrazione ufficiale, che le consente di ampliare il consenso al proprio dominio. Controlla anche tutte le piattaforme digitali sicché è in grado di censurare qualunque voce avversa al suo potere mondiale. In un mondo nel quale anche il denaro sta per diventare virtuale e nel quale la sua circolazione dipenderà dai circuiti informatici, sicché chi sarà espulso da essi non potrà “né vendere né comprare”, il domino del capitale finanziario multinazionale si appalesa ormai come il nuovo volto del totalitarismo appropriato all’epoca post-moderna che è epoca oltre-statuale. Il vecchio capitalismo produttivo è stato sostituito dal nuovo capitalismo finanziario. Un capitalismo dispotico nel potere ma rivoluzionario e libertario nei costumi che sta creando un Mondo Nuovo con la collaborazione dei governi. I quali infatti vanno adempiendo i suoi desiderata per comprimere la crescita demografica, espellere in nome della “creatività digitale” il lavoro umano dai processi produttivi, mantenere in uno stato di passiva rassegnazione le masse, distanziate dal controllo sanitario, garantendo loro un reddito universale di cittadinanza funzionale da un lato all’abbrutimento inoperoso degli uomini e d’altro al sostegno della domanda per la produzione automatizzata. Tutto questo ha uno scopo chiaro ed evidente che è quello di consolidare il potere della sovrastruttura finanziaria riducendo lo spazio e l’autonomia dell’economia produttiva a quel tanto che necessita ancora. Fino a quando – questo è il sogno del tecnocrate finanziario, novello Faust – la tecnologia non consentirà l’eliminazione totale anche di questo residuo produttivo senza che la sovrastruttura cada nel vuoto da essa stessa provocato.
Sono in atto – lo hanno chiamato “Great Reset” – ampi processi di ristrutturazione capitalistica i cui contorni vanno chiaramente delineandosi nel senso sopra descritto. Un’accumulazione in alto di potere transnazionale che si impone in basso per il fatto che è il capitale volatile, virtuale, a decidere come, quando, dove ed a che condizioni temporaneamente allocarsi, sicché Stati e governi sono lì a supplicarlo che scelga il loro territorio rendendosi disponibili a qualunque sua richiesta pur di assicurarsene i favori.
Personalità ed impersonalità
Laddove il vecchio capitalismo era sostanzialmente personificato, anche quando aveva connotazioni borsistiche e azionarie, il nuovo capitalismo ha portato all’estremo l’impersonalità già latente nel vecchio. Un tempo si sapeva che la Fiat, società anonima, faceva capo alla famiglia Agnelli e tutti conoscevano l’avvocato Gianni Agnelli. Tutti conoscono un Silvio Berlusconi benché anche Mediaset sia una società anonima. Lo stesso dicasi per i grandi capitalisti del passato come Henry Ford o la famiglia Krupp. Persino i grandi finanzieri di un tempo avevano nomi e cognomi, dai Rockefeller ai Rothschild eredi dei più antichi Fugger. Oggi, invece, l’anonimato e l’impersonalità del capitale sono aumentati fino a fargli assumere connotazioni di autonoma consistenza indipendentemente dal fattore umano. E’ vero che anche nella nostra epoca i grandi managers digitali, padroni delle reti informatiche, ed i grandi finanzieri hanno nome e cognome, come Mark Zuckeberg, George Soros o Bill Gates, e tuttavia essi sembrano, nonostante il loro potere e la loro popolarità, piuttosto agiti che agenti, piuttosto strumenti di un “altro” potere che sta dietro di loro. Un potere senza volto, un potere anonimo. O meglio un Potere extraumano, oscuro, che nasconde il suo volto ed il suo nome dietro una maschera di suadente filantropia umanitaria.
«Quando parliamo del capitalismo – scriveva José Antonio Primo De Rivera in “Filosofia dissidente” – non parliamo della proprietà privata. La proprietà privata è il contrario del capitalismo; la proprietà è la proiezione diretta dell’uomo sulle sue cose: è un attributo elementare umano. Il capitalismo ha sostituito questa proprietà dell’uomo con la proprietà del capitale, dello strumento tecnico della dominazione economica. Il capitalismo, mediante la concorrenza terribile e diseguale del grande capitale contro la piccola proprietà, ha annullato l’artigianato, la piccola industria, la piccola agricoltura: ha collocato – e va più che mai collocando – tutto in potere dei grandi trusts, dei grandi gruppi bancari».
Una descrizione magistrale del capitalismo anonimo come esso già appariva negli anni ’30 del XX secolo. Oggi questi caratteri di impersonalità egemonica sono diventati ancora più evidenti e raffinati grazie alla finanziarizzazione integrale dell’economia e grazie alla nuova tecnologia virtuale. Ma la radice di questo anonimato, ormai completamente emersa, è antica. Lo dicevamo: essa era embrionalmente già presente agli albori umanistico-rinascimentali del capitalismo benché all’epoca, e fino al XX secolo inoltrato, era trattenuta nella sua potenzialità emancipatoria, anti-realistica e dematerializzante. Questo freno è venuto progressivamente meno con il passare dei secoli.
L’Anonimato in titoli azionari
Lo strumento principale, accanto alla moneta fiat, per lo sviluppo del capitalismo finanziario ed anonimo è stato il titolo azionario mediante il quale la proprietà concreta, personale, fu trasformata in un valore creditizio da giocare in borsa. Fino al medioevo si conoscevano soltanto forme societarie di persone, a contenuto personale, nelle quali la “communio”, ovvero la condivisione del capitale, aveva forma di comproprietà tra i soci, ossia tra gli associati, mediante il contratto di società, nella medesima impresa in quanto persone fisiche. Certo, si svilupparono ben presto sistemi di riduzione del rischio e della responsabilità sociale, separando il patrimonio conferito nella società da quello generale del socio e dei suoi eredi. Ma comunque il carattere personale dell’impresa sociale restava basilare.
Con l’età moderna, a partire soprattutto dal XVII secolo, si sviluppano le società anonime nelle quali i soci non sono più comproprietari del capitale sociale ma soltanto creditori di una quota di utile aziendale, proporzionale al conferimento finanziario, mentre il capitale assurge al rango di una fittizia persona giuridica, non esistente nella realtà concreta ma solo nella realtà giuridica. La società anonima, quale persona giuridica, infatti esiste soltanto nell’astratto mondo del diritto anch’esso vieppiù emancipatosi, lungo i secoli, dalla concretezza comunitaria sottostante. Nella società anonima non i soci ma la persona giuridica è proprietaria del capitale sociale, benché essa sia poi amministrata da un ristretto gruppo di persone egemone sulla massa dei piccoli conferitori di capitale. Per controllare la società anonima, infatti, basta controllare la fetta più cospicua di capitale, anche non maggioritaria nel caso in cui il resto sia frammentato in una miriade di azioni diffuse ma non aggregate.
Questa trasformazione della società imprenditoriale fu resa possibile dall’introduzione dell’“azione” che non è un titolo di proprietà ma un titolo di credito. Il suo possesso garantisce all’azionista soltanto un diritto sull’utile aziendale esercitabile, come titolo di credito nei confronti della persona giuridica, distinta dal socio, nella quale consiste astrattamente la società. E’ evidente il carattere di impersonalità dello strumento azionario che, infatti, è stato pensato proprio per passare facilmente di mano in mano. Deresponsabilizzando, però, i suoi possessori rispetto alle sorti dell’azienda perché, se non sono comproprietari del capitale aziendale, quel che per essi maggiormente conta è il valore che le azioni godono sul mercato dei capitali ovvero nel gioco di borsa. La stessa “borsa” era in origine nient’altro che la piazza del mercato organizzata per lo scambio di beni reali, di merci effettive. Ben presto essa, a partire dal XVII secolo, diventò il luogo della quotazione di valori puramente finanziari, rappresentati documentalmente da obbligazioni e titoli di credito di vario genere, che consentivano di vendere e comprare valori reali sottostanti ma lucrando non dalla riscossione di questi ultimi bensì sul differenziale di scambio, variabile quotidianamente, dei titoli rappresentativi. I “contratti derivati”, forme di assicurazione dal rischio speculativo ed essi stessi strumenti di manipolazione dello scambio virtuale, nascono qui. Come da qui nascono anche le prime forme, già più mature, di finanziarizzazione dell’economia.
Economia anti-umana
Certo, agli inizi, un legame tra il valore borsistico delle azioni e la redditività dell’azienda sottostante sussisteva, sicché il valore di scambio delle azioni dipendeva anche dal valore dell’impresa e dai risultati imprenditoriali. Questo è vero, seppur ormai in minima misura, anche oggi. L’innovazione fu ben accolta perché consentiva di convogliare la liquidità dei mercati verso gli investimenti capitalistici consentendo alle imprese di accedere ad ingenti risorse di denaro liquido, di diventare così sempre più grandi, potenzialmente senza alcun limite, fino a raggiungere impersonali dimensioni multinazionali e globali, superando la dimensione artigianale e piccolo-imprenditoriale del tradizionale assetto realistico dell’economia premoderna. Ma con il passar dei secoli il legame tra l’elemento finanziario e quello patrimoniale delle imprese, quindi anche il legame tra impresa e personalizzazione dei suoi assetti societari, si è divaricato sempre di più fino a quasi completamente rompersi. Il capitalismo finanziario, impersonale ed anonimo, è stato il risultato di questa rottura.
Come si vede, si tratta di uno sviluppo dell’economia del tutto anti-umano nella misura in cui tende ad eliminare, con costante accrescimento, il fattore uomo per sostituirlo con gli impersonali meccanismi finanziari di mercato che ne rivelano, a chi ha occhi per vedere (“egli è stato omicida fin dal principio”, Gv. 8-44) la criptica natura sulfurea. Nell’attuale mondo globale, nel quale il capitale finanziario è un assoluto dominus, non ci si può meravigliare se la piccola attività economica, concreta, umana, sta morendo a favore dei grandi complessi anonimi. Non solo la produzione ma anche lo scambio commerciale ormai non passa più per il piccolo esercizio e neanche per il grande magazzino, che pure è stato l’antesignano del commercio elettronico odierno, ma per la piattaforma virtuale di Amazon, e simili multinazionali, nelle quali i lavoratori non hanno più diritti perché costantemente sotto la minaccia della delocalizzazione aziendale.
Il valore delle azioni in borsa ormai si misura sempre meno dalla redditività delle imprese quotate, che in genere sono le più grandi e di dimensioni transnazionali, e sempre più dal livello della libido speculativa che muove le borse. Un “rumor”, una svendita di azioni improvvisa e ben organizzata, una sapientemente orchestrata manovra di insider training tale da camuffarla per sfuggire alla debole ed impotente legislazione repressiva, sono capaci di provocare il panico inducendo milioni di piccoli azionisti ad accettare acquisti al ribasso da parte di chi ha interesse ad accumulare a basso costo per poi rivendere, lucrando speculativamente sul differenziale, in un momento successivo a prezzi maggiorati o anche da chi ha semplicemente interesse a controllare il mercato in posizione dominante.
In un contesto nel quale le quotazioni borsistiche devono crescere freneticamente, al solo scopo di consentire la speculazione sui differenziali dello scambio, è evidente che non si può attendere, onde conseguire l’aumento del valore dei titoli azionari, l’andamento naturalmente più lento della economia produttiva sottostante. Bisogna che il valore delle azioni delle imprese cresca se non proprio indipendentemente dalla redditività aziendale – ma è questo per gli speculatori lo scenario migliore – quantomeno camuffando tale reddittività. Ecco perché, a differenza di quanto accadeva un tempo quando un’ondata di disoccupazione preoccupava quale evidente segnale della diminuzione della domanda e quindi del valore azionario ancora connesso alla produzione, la finanziarizzazione estrema consente attualmente iniqui escamotage come quello di aumentare apparentemente la redditività aziendale abbassando i costi di produzione mediante licenziamenti di massa, magari sostituendo gli uomini con i robot. Se poi, come è oggi permesso, i Ceo management delle grandi multinazionali sono essi stessi azionisti, che guadagnano miliardi dal differenziale sullo scambio delle quotazioni azionarie, anziché essere premiati per la perfomance aziendale, è evidente che la corsa verso l’abisso del nulla economico diventa inarrestabile. Una corsa fino al disastro, folle nella sua irrazionalità, la cui molla propulsiva sta innanzitutto nell’avidità umana. Quando poi arriva il disastro esso, di solito, lascia cadaveri ovunque ma quasi mai fra gli speculatori.
Oblio della domanda ed indebitamento
In una economia egemonizzata dalla finanza non c’è posto per il problema della domanda. Non a caso il processo di finanziarizzazione dell’economia si è sviluppato in parallelo al contemporaneo ritorno, dopo la parentesi keynesiana tra anni ’30 e ’80 del XX secolo, delle dottrine e delle politiche economiche di segno offertista, che cioè non guardano alla domanda ma soltanto all’offerta. Nell’economia capitalista tradizionale il problema era quello di trovare sbocchi di mercato alla produzione e quindi quello di un congruo livello della domanda. Ci sono voluti un paio di secoli, a partire dal XVIII, per comprenderlo. Grazie a John Maynard Keynes venne abbandonata la fiducia scientifica nella legge del Say, secondo la quale l’offerta trova sempre spontaneamente il suo sbocco, e l’intero paradigma economico venne riformulato a partire dalla priorità della domanda rispetto all’offerta. Nel mondo pre-globale, non ancora interdipendente come l’attuale, nel quale quindi prevaleva la domanda interna, piuttosto che quella esterna, gli Stati praticavano politiche di sostegno della domanda tramite il conseguimento di adeguati livelli salariali e il diretto intervento pubblico anticiclico attraverso la spesa statuale di investimento in deficit. Il ritorno a politiche di contenimento della spesa pubblica e dei salari, inaugurate da Reagan e dalla Thatcher, ha gradualmente consentito al capitale finanziario di imporre la sua egemonia sulla produzione. Vediamo più da vicino come.
La fallace narrazione che fossero state la spesa pubblica e il costo del lavoro troppo alto ad aver innescato l’inflazione degli anni settanta, la quale era invece dovuta all’impennata dei costi del greggio sul mercato internazionale, favorì la reintroduzione delle politiche d’austerità neoliberiste. Mentre l’inflazione durante gli anni ’80 andava scemando contestualmente al risolversi del blocco petrolifero, la pretestuosa azione antinflattiva, condotta su salari e spesa pubblica, alla medio-lunga, come sappiamo, si è tradotta in deflazione ossia in un nuovo crollo della domanda reso manifesto dalla crisi del 2007. Che la retrocessione della mano pubblica, quale guida degli animals spirits del capitalismo finanziario e strumento di contenimento delle pulsioni speculative, comportasse il rischio di un nuovo crollo della domanda mondiale era ben chiaro agli “incappucciati della finanza”, come li chiamava Federico Caffé, i quali avevano appreso la lezione del Grande Crash del 1929. Il crollo delle quotazioni azionarie, dopo anni di fittizio aumento del loro valore sempre più lontano dai valori reali della sottostante economia produttiva, intervenne nella settimana tra giovedì 24 e martedì 29 ottobre 1929 (rimasti alla storia come il giovedì ed il martedì “neri”). La sua causa principale fu la flessione della domanda che negli anni precedenti aveva seguito il tipico andamento di un graduale smottamento fino alla fragorosa ed improvvisa accelerazione della caduta dell’intera struttura economica del tempo.
Per questo gli “incappucciati”, negli anni ’80 e ’90, non volevano ripetere l’errore per poi ritrovarsi di nuovo addosso il fiato controllore dello Stato che imprigionasse nuovamente le loro, avide ed omicide, pulsioni al nichilismo economico. Le spinte capitalistiche verso l’interdipendenza dei mercati andavano mettendo in evidenza la difficoltà sempre crescente per gli Stati nazionali, a partire dagli anni ’80, a controllare la circolazione dei capitali. Le innovazioni tecnologiche dell’informatica stavano gradualmente consentendo al capitale di sottrarsi al vincolo della territorializzazione e quindi di denazionalizzarsi, fino a virtualizzarsi. L’interdipendenza economica, infatti, togliendo centralità alla domanda interna e conferendola a quella estera, consentiva il rafforzamento del “vincolo esterno” che oggi grava pesantemente sugli Stati. Se, infatti, le industrie nazionali traggono profitto principalmente dalle esportazioni, e non più dal mercato interno, è evidente che i sindacati, per difendere l’occupazione, sono costretti ad accettare politiche di contenimento salariale onde mantenere bassi i costi di produzione e spiazzare la concorrenza estera sul mercato globale (1).
La globalizzazione in atto dei mercati, dunque, anche con l’aiuto culturale della nuova sinistra “No Borders” ed “arcobaleno”, offriva al capitale finanziario il modo per tornare a dominare dopo che, nel XX secolo, esso aveva dovuto segnare una battuta d’arresto nella sua secolare corsa verso l’egemonia assoluta da sempre agognata. Ma il problema era quello di conciliare le politiche di contenimento dei livelli salariali e della spesa pubblica con la necessità di evitare la contrazione della domanda e non ricadere in un nuovo 1929. Come sostenere la domanda senza intervento pubblico ed invece praticando il contenimento dei salari, dato che la concorrenza internazionale, imponendo detto contenimento, finiva per contrarla? La reciprocità delle politiche mercantiliste, allo scopo di battere la concorrenza sui mercati internazionali in via di unificazione, comportava che ciascuno praticasse in casa propria la medesima ricetta di contenimento dei salari e di depressione della domanda interna. Ponendo così seri problemi di sbocco alla reciproca offerta sui mercati, pur interdipendenti. Come, infatti, sarebbe stato possibile trovare sbocchi alla produzione nazionale sul mercato estero se anche gli altri Stati praticavano il contenimento salariale per mantenere bassi i prezzi delle merci esportate? Come avrebbero i lavoratori/consumatori esteri comprato le merci nazionali, prodotte a costo del lavoro interno ridotto, se essi a loro volta vedevano al ribasso i propri trattamenti salariali?
Verso il Mondo Nuovo
Ed è qui, in questo dilemma, che la finanza è riuscita ad incunearsi trovando un nuovo cavallo di Troia per sconfiggere lo Stato e tornare egemone. Retrocessa la mano pubblica, nello scenario globale, il sostegno alla domanda è stato realizzato mediante il ricorso al facile indebitamento dei privati e degli stessi Stati. A rendere la strategia ancora più efficace intervennero le unificazioni monetarie sovranazionali sullo stile dello Sme e dell’euro che, eliminando il rischio del cambio tra valute diverse, consentirono alle merci di trovare sbocchi all’estero attraverso una domanda alimentata dai prestiti che le banche d’affari globali, affiancate nell’operazione all’industria multinazionale, offrivano alle popolazioni indebitandole. Si venne così a creare un rapporto di dipendenza, basato sull’indebitamento, delle economie più deboli nei confronti di quelle più forti e prestatrici. Un modello di economia fondata sulla finanziarizzazione della domanda a debito che, come è noto, ha funzionato fino alla crisi del 2007-2015.
Detta crisi ha costretto ad una parziale revisione delle politiche economiche restituendo un minimo margine all’intervento pubblico ma – beffa aggiunta alla beffa! – al solo scopo di salvare le banche globali improvvisamente spiazzate dall’insolvibilità privata e dal rischio dei default statali. Strumenti come il Mes sono stati inventati al solo scopo di salvare le banche private addossando sui bilanci pubblici le loro perdite. La finanza mondiale, riunitasi in conclave nel cosiddetto Financial Stabilty Board, si è data tra il 2012 ed il 2015 una regolazione di pura facciata, senza tuttavia cambiare realmente il paradigma che l’ha resa egemone. La successiva pandemia, attualmente in atto, ha quindi posto le basi, come si diceva, per una ristrutturazione globale dell’economia mondiale che, nelle intenzioni degli “incappucciati”, dovrà portare l’umanità in un Mondo Nuovo, dal distopico sapore huxleyano ed orwelliano, facendo leva sulla paura della morte che attanaglia l’uomo post-moderno ateizzato da secoli di modernità irreligiosa ed ormai privato, oltre che di qualsiasi capacità di resistenza spirituale, anche di ogni certezza ed aspettativa di bene oltremondano.
Ecco perché, laddove non l’avete ancora capito, sappiate che il regno dell’Iniquo, annunciato dalle profezie escatologiche di tutte le tradizioni religiose, è già tra noi ed ha il volto del capitalismo finanziario globale.
Luigi Copertino
NOTE
- Perfino uno strumento di per sé eticamente giusto, perché inteso alla condivisione della ricchezza, ovvero il “salario di produttività” o “partecipazione agli utili” che dir si voglia, anche se teoricamente non si tratta esattamente della stessa cosa, è stato utilizzato allo scopo, distorcendone il fine autentico per piegarlo alle esigenze del mercantilismo. Al contenimento salariale, volto alla riduzione dei costi, si è fatto corrispondere un maggior ricorso a forme variegate di salario di produttività nell’intesa che, vincitrice l’azienda sui mercati esteri, i lavoratori si sarebbero ritrovati in busta paga migliori retribuzioni per la redistribuzione in loro favore di una quota dell’utile derivante dall’aumentata redditività aziendale ottenuta dalle esportazioni. Il punto dolente però è che il salario di produttività, in un tale contesto, non si atteggia più come, appunto, partecipazione redistributiva agli utili ma come compensazione dei mancati aumenti salariali di base onde rendere possibili aggressive politiche mercantilistiche volte ad egemonizzare le economie altrui in modo che le imprese possano conseguire all’estero, attraverso le esportazioni, quella redditività, da redistribuire, non più ottenibile dalla domanda interna. Nel contesto della guerra commerciale innescata dalla politica mercantilistica, la quota di utile redistribuita ai lavoratori, non più dipendente in via principale dalla domanda interna, deriva inevitabilmente dalla colonizzazione del mercato estero e quindi dalla subordinazione dei lavoratori degli Stati più deboli. In un contesto di asimmetrica interdipendenza globale, i maggiori guadagni, in termini di salario di produttività, conseguiti dai lavoratori dei sistemi economici più aggressivi vengono realizzati sulla pelle e le sofferenze dei lavoratori dei sistemi economici più esposti, per loro debolezza, all’aggressività dei primi.
https://www.maurizioblondet.it/il-regno-delliniquo-e-gia-tra-noi-di-luigi-copertino/
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