ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

martedì 13 luglio 2021

Ci sentiamo migliori. Quasi certamente non lo siamo

Inventarsi le partite per raggirare i divieti

 

Il trucco c'è e si vede. Lo abbiamo visto nelle gimkane, nei caroselli, nei bagni di folla, nella coppa Uefa portata in giro con un bus aperto  per le vie di Roma come la Madonna pellegrina. Lo abbiamo visto perfino nell'incontro a Palazzo Chigi con un Draghi beato, sorridente e smascherato, come se la vittoria fosse sua. In Mattarella che nello stadio di Wembley pareva un gufo rannicchiato col complesso di inferiorità, ma  che poi ha alzato le braccia rinsecchite in segno di esultanza dopo il primo goal di pareggio verso la squadra inglese.  


Per non dire degli abbracci visti a Palazzo Chigi, con un menagramo  in mascherina come Speranza messo  finalmente  lì nell'angolo in disparte (nessuna telecamera se lo filava manco di striscio).  Quel che voglio dire è semplice: se solo il calcio permette di disobbedire (come è giusto) a tutti i divieti liberticidi che ci hanno angariato in tutti questi 16 mesi, allora calcio sia! A Genova hanno sfondato i cordoni dei divieti sul numero chiuso per avere accesso ai maxischermi della piazza principale. Hanno tentato di mettere al pubblico,  la clausola di "mascherina, distanziamento, Green Pass", o altra App, ma non ci sono riusciti. Irrefrenabili! I tifosi  hanno sfondato transenne e picchetti. Del resto molti  governatori e i sindaci  hanno "consentito" l'installazione di  maxischermi per le partitelle secondarie come Ucraina, ,Svizzera, Portogallo ecc.  E allora come è possibile poi negare ai tifosi l'accesso alla finale Inghilterra contro Italia? Bisogna avere lo stesso sadismo di quelli che negavano la partita a Fantozzi proponendogli per l'ennesima volta la proiezione del film sovietico "La Corazzata Potemkin" con sottotitoli in lingua bulgara! E del resto, il regime comunista e tiranno è sempre quello delle assurdità idelogiche.

Ho guardato i comportamenti dei tifosi da una piccola angolazione e li ho pure fotografati. Il baretto della piccola borgata marinara che mi ha ospitato durante le vacanze si è allestito a proprie speso il maxischermo ex-aequo con i ristoratori vicini. Poi  hanno allungato i tavoli, permettendo ai tifosi di portarsi la "schiscietta" da casa. L'importante era consumare bibite. Sembrava di essere tornati ai primi tempi della televisione in Italia dove la  brava gente semplice si riuniva in quei bar nei quali c'era un teleschermo per i quiz di Mike Bongiorno.  La finale è andata avanti fino a tardi con tempi supplementari e  i rigori. I boati, le parolacce contro gli inglesi, i cori sgangherati e tutto l'armamentario di prammatica delle partite di calcio. Grido liberatorio finale con la parola "Goal!" prolungata, bottiglie di spumante che si stappavano, mortaretti, bengalini e fuochi d'artificio lanciati sull'acqua, baci abbracci, saltelli insieme con lo slogan "chi non salta un Inglese è " e così  via. 

Due cose: sono stata umanamente contenta per la vittoria degli Azzurri, ma sotto sotto si è fatto largo il sospetto che sia stata la vittoria di "questa Ue" che detesto,  e che la "nazionale" di calcio si sia prestata ad un gioco più grande di lei,  contro i perfidi albionici della Brexit umiliati a casa loro. E del resto parla chiaro la copertina del giornale scozzese "The National" che ritrae il ct  Roberto Mancini in costume da "Braveheart". Ma ce n'è anche per loro, gli Inglesi.


I loro hoolingan che hanno picchiato selvaggiamente gli italiani, fischi all'inno di Mameli, il tricolore calpestato, si sono sfilati in fretta la medaglia d'argento dei "secondi arrivati", hanno abbandonato il campo e nessuna autorità inglese ha mostrato quel che si chiama "spirito  sportivo"., rimanendo lì sul podio, a fare da padrone di casa.  Sì, ce n'è anche per loro perché potevano risparmiarsi l'inginocchiamento ipocrita e stupido dei BLM, tanto più che poi nei loro social hanno violentemente attaccato i loro tre calciatori negretti, rei di aver fatto perdere la  loro squadra ai rigori. E allora a che gioco ipocrita giochiamo? Inginocchiarsi in solidarietà di gruppi marxisti violenti e promotori dell'iconoclasta  "cancel culture", per poi attaccare i loro stessi giocatori di colore nati in territorio britannico? E poi che razza di Brexit volete fare con un paese che permette perfino la sharia islamica nei loro tribunali? 


Ovviamente non condivido neanche lo spirito di  pavida accondiscendenza dell'inginocchiamento dei nostri. La Fiesta, ma che bella ma che bella questa Fiesta andrà avanti ancora a lungo. Dopotutto un po' di sabbia negli occhi serve a non farci pensare a quello che verrà e a quel che hanno in mente per tenerci ancora al guinzaglio.  Ma insomma, per il momento siamo al carpe diem. E già che ho citato il tormentone della Carrà, vale la pena di sottolineare che la "Carrambata" funebre in memoria della Raffa nazionale, è  andata avanti per una settimana con Virginia Raggi che ha consentito processioni su processioni di curiosi davanti  al feretro della soubrette , ospitato in Campidoglio. Tanto per non dimenticare: la Raggi fu quella  che istigò alle delazioni se a Villa Borghese c'era qualche malcapitato  che violava "il lockdown".  Detta istigazione alla delazione è stata fatta anche per le mascherine. I parenti delle vittime bergamasche (e non solo) non hanno potuto porgere nemmeno l'estremo saluto ai propri cari a causa di protocolli  volutamente disumani e crudeli. In compenso, ad una celebrità conosciuta solo in tv , sono stati  permessi interminabili cortei e affollamenti. La Raggi si vergogni. 

Ma consoliamoci.  Domani dopo gli "assembramenti" dell'allegra "variante Azzurra", saranno già in agguato i soliti lugubri  bollettini  sanitari con i corvacci menagrami dei virologi a cui l'onda lunga calcistica ha rubato loro la scena in tv. E' stato bello credere per un momento di esserceli tolti dalle palle, per il tramite del Pallone! 

S. Enrico

Pubblicato da Nessie 

https://sauraplesio.blogspot.com/2021/07/inventarsi-le-partite-per-raggirare-i.html

Tifo

E’ da ieri sera che sto cercando di capire perché tifo Italia.

Oh, c’ero anch’io davanti al televisore. E certo, anch’io ho esultato al quinto rigore. Ma mentre impazzavano i festeggiamenti e persino le campane del vicino campanile suonavano a festa, mi domandavo: perché?

Non è che conosca qualcuno di quei signori in azzurro. Non mi arriverà un bonus speciale in banca. Nessuno dei miei problemi troverà una soluzione grazie alla loro vittoria. Eppure ne sono felice, e con me tanti.

Ecco un primo punto. Abbiamo vinto pure l’europeo di softball femminile, ma per quello non ci sono stati cortei di clacson strombazzanti. Forse non è solo importante vincere, ma la gioia sembra anche essere direttamente proporzionale a quanta altra gente esulta. La felicità è tanto maggiore quanto è condivisa con chi ci sta accanto. Perché avessero esultato gli inglesi non sarebbe stata la stessa cosa.,

Si direbbe che fare il tifo per chi ti sta vicino, con chi ti sta vicino, rientri in ciò che possiamo chiamare umano. Tenere per la propria tribù, per il proprio popolo, per il proprio paese: se la mia comunità vince, si dimostra migliore delle altre, di riflesso anch’io sono esaltato con i vincitori. Ci sentiamo migliori. Quasi certamente non lo siamo, ma è così che funzioniamo noi uomini.

Diceva Aristotele che sono solamente le bestie e i superuomini che vivono da soli, che non hanno bisogno d’altri. Non conosco superuomini. Tifare per qualcuno lontano da noi, per l’estraneo, è innaturale: può farlo solo chi crede in cose innaturali, in ideologie che hanno prosciugato l’umano che è in lui.

E non potevo fare a meno di chiedermi: è forse questo che vuol dire amare il proprio prossimo? Desiderare che chi ci sta accanto sia felice. Che le cose gli vadano bene; che so, che vinca pure un Europeo.

https://berlicche.wordpress.com/2021/07/12/tifo/

Il chiasso intorno alla Nazionale. Che forse vogliono farci dimenticare di essere uomini?



di Corrado Gnerre per il C3S

Adesso stiamo un po’ esagerando.

Si, stiamo esagerando con questa vittoria della Nazionale di calcio e dei suoi cosiddetti “eroi” che vengono trattati quasi come se avessero fatto chissà quale impresa per difendere, al prezzo della vita, i sacri confini. A tal proposito, mi sembra che tutto questo sia un’offesa per coloro che la vita l’hanno veramente persa in passato, combattendo e non semplicemente dando calci ad una sfera di cuoio, che per quanto possa essere faticoso -vi confermo- è anche molto divertente. E non mi sembra che per qualsiasi soldato possa essere stato divertente combattere.

Badate bene, tutto questo lo dice chi -come il sottoscritto- è un grande appassionato di questo gioco. Il calcio, malgrado i vari snaturamenti che sta subendo negli ultimi tempi, rimane pur sempre il gioco più bello del mondo (gli altri sport gli fanno un baffo!), ma anche quello che meglio esprime, ovviamente da un punto di vista simbolico, il grande mistero della vita e che può perfino aiutare ad annunciare, soprattutto ai più giovani, alcuni temi della Fede. D’altronde è per questo che scrissi  Il Catechismo del Pallone. Di cui spero al più presto di farne un aggiornamento.

Dicevo, non solo sono un appassionato di questo sport, ma sono anche convinto che il calcio aiuti  a conservare un certo spirito identitario. Al di là di molte sue manifestazioni che -lo confesso- mettono a dura prova la mia salute epatica: pagamenti esorbitanti dei calciatori, giri di affari enormi, look degli atleti da far invidia agli antichi masai… fino ad arrivare a patetici inginocchiamenti per allinearsi al politicamente corretto. Comunque -dicevo- uno sport che aiuta a preservare un certo spirito identitario, che non è poco per i nostri tempi in cui tutto si sta dissolvendo nella melassa globalista.

Eppure -lo ripeto- non se ne può più. Il presidente della FGCI, Gravina, ha affermato che la vittoria della Nazionale vale circa un punto di PIL. Un articolo del Sole 24 ore addirittura ha detto che, in proiezione, potrebbe valere ben il 10% dell’export.

Insomma, il nocciolo della questione è l’aspetto economico.

Tutto questo can-can in favore della vittoria di Chiellini e compagni serve per risollevare la nazione, risollevarla moralmente e soprattutto economicamente. E più se ne parla, meglio è. Più se ne parla, e più ci saranno conseguenze benefiche.

Ma è triste se una nazione, per risollevarsi, abbia bisogno di qualche vittoria pallonara. Questo lo dico non perché sia talmente fiori dal mondo e sciocco da ritenere che l’aspetto economico non sia importante. Tutt’altro. Bensì perché mi sembra che tutto questo serve perché non ci si vuole accorgere di altro. E cioè che non c’è vittoria calcistica che tenga. Infatti, quando ormai la dissoluzione di un popolo e di una società è talmente alta, qualsiasi spettacolo serve solo per alimentare l’illusione. Un’illusione alienante secondo cui a certi, grandi, problemi non ci si deve pensare. Che …va tutto bene Madama la Marchesa.

E se eventualmente questa illusione funzionasse, allora vuol dire che lo stato d’intelligenza della nazione è tutt’altro che roseo.

Lo sport, quello vero, deve servire non a far dimenticare la vita e i suoi problemi, ma a significarla. Era così nel medioevo con i suoi palii e le sue giostre. Era così un tempo dove esso era sempre ordinato a qualcos’altro. Si pensi all’importanza che gli si dava negli oratori, dove fungeva da introduzione e arricchimento per una crescita dei ragazzi che invece era tutta centrata sul fondamento spirituale.

Oggi no. Lo sport vale un punto di PIL.

Lo sport è un’industria e non è più per i ragazzi e la loro crescita, ma di fatto per ciò che può portare nelle tasche di ognuno.

Lo sport non è più un gioco. Un gioco da intendersi ovviamente non nella versione edulcorata, tutt’altro. Un gioco in cui si deve vincere, perché la vita esige la vittoria finale. Lo sport, insomma, come riscoperta continua del proprio essere uomo, della propria virilità, del proprio spirito eroico, e non semplicemente degli istinti più bassi del consumatore.

Perciò Friedrich Schiller in Dell’educazione estetica dell’uomo scrive così: “L’uomo gioca soltanto quando è uomo nel significato più pieno del termine, ed egli è interamente uomo soltanto quando gioca.”

Oggi, invece, viene il dubbio che lo sport serva al contrario, serva proprio per farci dimenticare di essere uomini.

Pedagogia della medaglia d’argento


    Ha fatto molto discutere l’atteggiamento di gran parte dei calciatori inglesi dopo la finale degli Europei. Al momento della premiazione, si sono sfilati subito la medagli d’argento, in un gesto di disappunto. In proposito ecco un contributo apparso sulla pagina Facebook dell’Associazione pedagogica Mud.

***

Premessa: questo post non parla di calcio. Il calcio è uno spunto per parlare di educazione.

Domenica sera, al termine della finale degli Europei, abbiamo visto i giocatori della nazionale inglese togliersi la medaglia d’argento appena ricevuta, a volte senza nemmeno averla guardata. Non intendiamo con questo articolo biasimare i giocatori, tantomeno gli inglesi come popolo, né è nostra intenzione innalzare gli italiani su un piedistallo. Guardiamo invece al gesto, indipendentemente da chi lo ha compiuto, tanto più che non è la prima volta che lo osserviamo dopo una finale: che si tratti di calcio, di rugby o di altre discipline, di atleti di qualsiasi nazionalità, il rifiuto dell’argento sta diventando sempre più una routine. Una routine trasmessa però in mondovisione, davanti agli occhi spalancati di giovani che osservano, si interrogano e vogliono spiegazioni.

Perché rifiutare l’argento che ti viene donato? Innanzitutto la medaglia d’argento è un simbolo, e un simbolo parla chiaro. Ma cosa dice questo simbolo? Dice, a te atleta, alla tua squadra e a tutti, che sei arrivato secondo. Già, dice che non hai vinto, che non ti sei affermato come il migliore in assoluto. Dice che qualcuno è stato migliore di te in un frangente, in una partita, in un ambito, in un momento. E questo brucia, delude, può mettere rabbia e tristezza. Se la comunicazione si fermasse qui renderebbe quel rifiuto se non giustificato, almeno più comprensibile.

Ma l’argento non dice solo questo: intanto si tratta di un metallo prezioso, che viene dall’antichità. E i nostri avi non erano stupidi, non davano un materiale prezioso a chi non valeva niente. Questo metallo prezioso dice il grande valore dell’impegno e della fatica nel percorso che ti ha portato a quel secondo posto. Dice che quella fatica non è stata sprecata: essa viene riconosciuta ugualmente, a te a i tuoi compagni. Dice che, se anche non sei stato il migliore, puoi stare di fronte a questa situazione come una persona di valore, che può tenere la testa alta ed essere comunque orgogliosa di sé. Una persona, o un gruppo, che può ancora fare strada per imparare e crescere, può intraprendere nuove strade e nuovi percorsi. Da qui potranno nascere nuove gioie, nuove delusioni, nuova vita insomma.

Spesso sbagliamo ad ascoltare questo messaggio, ci fermiamo alla prima parte della comunicazione e la storpiamo: “Non sei arrivato primo? Allora non vali niente”. E spesso i nostri giovani crescono in questo clima altamente competitivo.

Non sembra verosimile? Qualche settimana fa, ai bordi di un campetto dove stavano giocando bambini di sei anni, ho sentito un padre vantarsi con altri genitori di aver promesso al figlio tre euro per ogni gol segnato. Ora, per quale motivo giocherà questo bimbo? Per divertirsi? Per segnare tutti i gol della squadra? Per guadagnare 3, 6, 9 euro? A quale prezzo? E come guarderà questo bambino il compagno che non riesce a segnare?

Concepire unicamente la vittoria come opzione soddisfacente porta con sé un carico di frustrazione continua e di disillusione che sembra indiscutibile. La statistica, ancor prima dell’educazione, ci dice una cosa semplice: uno solo arriva primo. Nella vita di ciascuno accade molto più spesso di non vincere piuttosto che di affermarsi come vincitore: non per questo io non valgo nulla. Tutte le medaglie d’argento, di bronzo e di legno che la vita mi offre mi dicono che mi sono messo in gioco, che a volte ho fallito ma ho cercato di apprendere e di rialzarmi. Per questo è importante accettarle, perché mi insegnano che il tragitto da me compiuto, magari insieme ad altri compagni di vita, di lavoro, di studio, amici, continua ad avere grande importanza al di là degli applausi e del riconoscimento per essere arrivato primo, per aver svettato al di sopra di altri.

Vincere è bellissimo, è una goduria, si gioca (e si vive) anche per quello. Però come educatori dovremmo parlare sempre più spesso della possibilità, e dell’importanza, della sconfitta e dell’errore non come della fine dei giochi (e della vita), ma come un passaggio fondamentale dell’esperienza verso l’età adulta, da vivere a maggior ragione nel gioco, nello sport e nella scuola.

Forse (forse!) avremo ragazzi maggiormente disposti alla collaborazione, meno arrendevoli e sfiduciati di fronte a esperienze che sembrano difficili (quanti giovani, con una bassa autostima, abbandonano la scuola o semplicemente non leggono un libro perché sembra troppo difficile? “Non ce la farò, tanto vale non provarci nemmeno” sembrano dirci). Forse (forse!) avremo giovani più pronti ad affrontare la vita, che è fatta sì di vittorie, ma anche di tante sconfitte altrettanto importanti e feconde.

Teniamocela stretta quella medaglia d’argento.

Fonte: Associazione Mud

https://www.aldomariavalli.it/2021/07/13/pedagogia-della-medaglia-dargento/

Nessun commento:

Posta un commento

Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.