La «Traditionis custodes» non esiste. (Scherzo di mezza estate, un po’ per celia un po’ per non morire)
https://i0.wp.com/www.radiospada.org/wp-content/uploads/2021/07/EFDBB18A-C6F9-4BC6-9B41-B25CD587076C-1280x640.jpeg (immagine aggiunta)Traditonis custodes non esiste nel senso che non c’è da nessuna parte un testo del papa che cominci con queste parole. (Perlomeno, io penso che non esista giacchè stamattina sono andato a cercarlo dove dovrebbe trovarsi, cioè qui: https://press.vatican.va/content/salastampa/it/bollettino/pubblico/2021/07/16/0469/01014.html e non l’ho trovato).
Da sempre, come è noto, i documenti della Santa Sede vengono intitolati con le prime due o tre parole del testo, nella lingua in cui il testo originale è scritto. Quando tale lingua era il latino, come un tempo accadeva quasi sempre, il titolo era ovviamente in latino, ma per esempio la Mit brennender Sorge di Pio XI si chiama così perché fu scritta in tedesco e la Notre charge apostolique di Pio X porta il suo bel titolo francese perché è in quella lingua che fu composta. In base a questa regola, che tutti conoscono, ci si aspetta dunque che una lettera apostolica che inalbera il fiero e altisonante titolo di Traditionis custodes sia scritta nella lingua di san Girolamo e di Agostino. Invece no: sul sito del Vaticano si trova sì una Custodi della tradizione in italiano e anche una Guardians of the tradition in inglese (qualificata come traduzione ufficiale) ma non l’epistola latina che cerchiamo noi.
In realtà questo non è un caso isolato, ma piuttosto un’evenienza abbastanza ormai frequente, anche se non proprio una regola. Per limitarci ad una veloce scorsa dei soli motu proprio dell’attuale pontefice, essa si verifica anche per Antiquum ministerium, del 10 maggio scorso; Ab initio, del 21 novembre 2020; Aperuit illis, del 30 settembre 2019; Vos estis lux mundi del 7 maggio 2019; Sanctuarium in ecclesia, dell’11 febbraio 2017; e infine per Fidelis dispensator et prudens, del 24 febbraio 2014. Tutte belle etichette latine su un vaso vuoto. Al titolo latino corrisponde invece un testo nella lingua di Tertulliano e di Ambrogio nei casi di Authenticum charismatis, del 1 novembre 2020; Communis vita, del 19 marzo 2019; Summa familiae cura, dell’8 settembre 2017; Magnum principium, del 3 settembre 2017; Maiorem hac dilectionem, dell’11 luglio 2017; De concordia inter codices, del 31 maggio 2016; Mitis et misericors Iesus, del 15 agosto 2015 e Mitis iudex Dominus Iesus, dello stesso giorno. Quindi, se non sbaglio i conti, il sottostante sette volte non c’è e otto volte sì. Ci sono poi diversi casi in cui il motu proprio non ha titolo (e quasi sempre nemmeno il testo latino) e pochi casi in cui è lodevolmente titolato in italiano ciò che in italiano (e non in latino) è stato scritto: ad esempio Imparare a congedarsi, del 12 febbraio 2018. Se allarghiamo un attimo lo sguardo ad altre categorie di documenti pontifici, notiamo ad esempio che la Costituzione Apostolica Episcopalis communio, del 15 settembre 2018, risulta tuttora priva della traduzione in latino, e lo stesso vale per l’Esortazione Apostolica Christus vivit, del 25 marzo 2019, ma persino per la Evangelii Gaudium, del 24 novembre 2013 (che pure nel sito ufficiale del Vaticano risulta tradotta in un sacco di lingue, tra cui bielorusso e neerlandese).
Non so perché questo accada: forse in Vaticano faticano a star dietro alle traduzioni perché anche da loro sono ormai troppo pochi quelli che sanno scrivere in latino; forse non ne vedono l’utilità, dal momento che ormai il latino, di fatto, non è quasi più niente nella chiesa cattolica, benché mantenga formalmente lo status di lingua ufficiale: chi mai leggerà le traduzioni latine di quei documenti? Francamente, l’impressione che mi sono fatto è che il latino sia diventato ormai un faticoso orpello, un pedaggio che si paga sempre più malvolentieri e con ritardo anche di anni.
Tutto questo lo capisco e, pur senza approvarlo, lo trovo persino ragionevole, una volta che ci si è messi in una certa condizione. Ho meno comprensione, invece, per quello che mi pare un vezzo di gusto discutibile e persino lievemente ridicolo: infiocchettare con un formula latina, che dovrebbe dare una patina di “nobiltà tradizionale”, qualcosa che non c’entra niente. Come il titolo Traditionis custodes, appunto, che probabilmente a certe orecchie deve suonare molto bene, mentre alle mie suona falso come il menu di certi “ristoranti tipici” per turisti, dove con qualche richiamo folcloristico si spaccia per autentica cucina tradizionale italiana qualcosa di completamente ostico al nostro palato. “Parla come mangi” potrebbe dunque essere un buon consiglio, per non rischiare di fare la figura di quei nuovi ricchi di una volta i quali, per essere all’altezza del rango acquisito, compravano titoli nobiliari o accademici farlocchi. Sembrare dei parvenus, per gli esponenti di un’istituzione bimillenaria, sarebbe paradossale e imbarazzante. Perché mai una lettera pensata e scritta in italiano, e oltretutto destinata a limitare il più possibile le messe in latino, dovrebbe essere titolata in latino? Chiamiamola Custodi della tradizione e chiudiamola lì.
Questa era la parte scherzosa e lieve del post di oggi. Quella più seria (ma altrettanto inutile) è una minima riflessione sull’insipienza dell’eliminazione del latino dalla vita della chiesa cattolica che fu compiuta dopo il concilio Vaticano II e contro la volontà di quel concilio. Chiariamoci subito: io sono assolutamente esente da ogni forma di latinolatria; non credo che il latino sia una lingua sacra (tutte le lingue umane lo sono, in un certo senso, perché Dio le parla), che abbia poteri magici e che non se ne possa fare a meno. Se il latino nella chiesa non ci fosse stato, saremmo tranquillamente andati avanti senza. Però c’era. E che la chiesa abbia – senza alcuna valida ragione, anzi senza neppure pensarci bene – letteralmente buttato via nel giro di pochi anni un patrimonio millenario che fino ad allora era stato gelosamente custodito mi pare una tale stoltezza da non trovare umanamente una spiegazione adeguata, anche a livello di una semplice considerazione del tutto “orizzontale” e “pragmatica”. Si pensi, tanto per fare un esempio molto “laico”, ad una ditta internazionale che abbia dirigenti, quadri intermedi, dipendenti, sedi e clientela sparsi in tutto il mondo e provenienti da ogni parte del mondo. Si immagini che tale ditta conti, nel patrimonio aziendale, su una propria e collaudata lingua comune, condivisa da tutti i dirigenti e dai quadri, e parzialmente accessibile anche ai dipendenti e alla clientela. E ora si immagini che, proprio alla vigilia dell’esplosione del fenomeno della globalizzazione, quando il bisogno di strumenti di comunicazione universali sta per farsi sempre più impellente e quindi quell’asset diventa più che mai strategico, quella ditta di punto in bianco se ne privi, senza alcuna contropartita, contro la volontà del consiglio di amministrazione e senza che alcun amministratore delegato lo abbia formalmente deciso. Che ne penseremmo?
Bene, a me pare che sia pressappoco ciò che è accaduto nella chiesa cattolica, a partire dalla metà degli anni Sessanta. Il concilio aveva detto: «L’uso della lingua latina, salvo diritti particolari, sia conservato nei riti latini» (Sacrosantum Concilium, 36. 1), invece la riforma liturgica postconciliare lo ha di fatto eliminato. (Sì, esiste la messa novus ordo in latino: ma chi mai la dice? E perché mai qualcuno dovrebbe farlo?). Una volta eliminato il latino dalla liturgia, si è pensato: perché mai tutti i preti dovrebbero studiarlo? E così, a cascata, il latino è progressivamente sparito dalla vita della chiesa, sino a ridursi alla miserevole condizione attuale, di pedaggio malsopportato dalla burocrazia vaticana e/o di pennacchio da esibire per darsi delle arie. In questo modo la chiesa si è privata – senza ragione, ripeto – di un possente fattore di unità e di integrazione culturale che nel mondo di oggi sarebbe stato di incalcolabile valore. Se mi è permesso il paragone irriverente, ha fatto “in alto” quello che “in basso” facevano, negli stessi ani e con assai minor colpa, quei poveri parroci di montagna che svendevano ad antiquari senza scrupoli gli arredi antichi della chiesa e della canonica per comprarsi in cambio il tavolo di formica coi piedi in acciaio inox, che sembrava moderno e tanto bello.
Vabbé, ormai è fatta ed è inutile piangere sul latino versato. Però sia chiaro almeno che è stata una sciocchezza.
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