Comandamenti e Bergoglio
Prima parte
Udienza del 25 agosto 2021
La sola Fede e la Giustificazione: I Giudaizzanti,
Lutero e Bergoglio
Lutero e Bergoglio
Qualche giorno fa Francesco ha stravolto il significato dell’Epistola ai Galati di San Paolo, facendole dire che noi uomini siamo salvati solo dalla fede, che i Comandamenti ci aiutano sino a che non abbiamo incontrato Cristo, ma che una volta ricevuta la fede e incontrato Cristo essi non obbligano più. Insomma, la morale è temporanea, non è assoluta.
Per confutare queste espressioni materialmente e oggettivamente ereticali occorre innanzitutto studiare ciò che realmente ha insegnato San Paolo sui rapporti tra fede e grazia.
Introduzione
Nell’Epistola ai Galati S. Paolo insegna che il Giudeo-cristianesimo vorrebbe costringere i convertiti al Vangelo ad abbandonare Cristo e a rimpiazzarlo con l’osservanza delle cerimonie legali antiche.
La salvezza invece, spiega l’Apostolo, si ottiene solo grazie alla fede (vivificata dalla carità) in Cristo.
Nel capitolo II l’Apostolo qualifica i Giudaizzanti come “falsi fratelli intrusi” (v. 4) “che si erano infiltrati per spiare la libertà nostra, che abbiamo in Gesù Cristo e renderci schiavi (v. 4).
Il loro scopo era d’imporre la Legge cerimoniale giudaica come necessaria alla salvezza, abolendo la grazia che rende liberi dal peccato, in Gesù Cristo, dandoci la forza di osservare i Comandamenti di Dio.
I Giudaizzanti o Giudeo/cristiani più che a Cristo credevano al vecchio cerimoniale mosaico, ma San Paolo spiega che l’antico cerimoniale è oramai – con l’avvento di Gesù – incapace di santificare, esso è stato rimpiazzato dalla grazia di Cristo in virtù dei suoi meriti.
“Se, la giustificazione vien dalla Legge cerimoniale, certamente Gesù è morto invano o senza scopo” (v. 21).
Il Giudeo-cristianesimo è l’annullamento radicale e totale del Sacrificio di Gesù e della grazia cristiana che ne deriva, in breve è l’apostasia e la distruzione del Cristianesimo apostolico. “Se vi lasciate circoncidere, Cristo non vi gioverà a nulla” (V, 2).
Commento ai Galati Capitolo III
Col capitolo III inizia la parte dogmatica dell’Epistola ai Galati sui rapporti tra la Legge e la Grazia.
L’Apostolo, sin dal primo versetto del capitolo III, si meraviglia della leggerezza con cui i Galati, dopo essere stati evangelizzati e dopo aver creduto a Cristo, accettano di ritornare sotto la schiavitù della Legge cerimoniale ebraica.
Il problema sollevato dall’Epistola ai Galati non è, soprattutto e innanzitutto, quello dei rapporti tra Grazia e Opere, come le farà dire Lutero; o meglio, questo è un problema successivo a quello sollevato dall’Apostolo in polemica soprattutto contro l’errore dei Giudeo/cristiani, i quali predicavano la necessità anche per i Cristiani di sottomettersi alla Legge Cerimoniale ebraica.
Lutero non ha fatto altro che ricalcare le orme dei Giudaizzanti, trasponendo e ribaltando il problema della necessità della Legge cerimoniale in quello della inutilità della Legge morale a vantaggio della sola Fede. Bergoglio ha ripreso Lutero e ha irritato i rabbini.
San Paolo qualifica i Galati, che vorrebbero tornare alla Legge cerimoniale ebraica, come «insensati » e ritiene pure che essi siano stati quasi « ammaliati o stregati » (v. 1) per poter sostenere un errore così pacchiano; tanto più che egli aveva loro predicato l’efficacia divina della morte redentrice di Cristo, per cui era impensabile ritenere che, per salvarsi dopo il Calvario, fosse ancora necessaria la Legge cerimoniale ebraica.
Infatti, i Galati hanno iniziato a vivere nello Spirito o nella grazia di Dio solo quando hanno cominciato a credere alla fede predicata loro dall’Apostolo (v. 2).
L’assurdità notata da San Paolo è proprio il fatto che i Galati, i quali hanno iniziato a vivere nella grazia di Dio dopo aver creduto a Gesù (e praticato i Comandamenti divini), avrebbero poi potuto pretendere di potersi « perfezionare » spiritualmente con pratiche «carnali» o cerimoniali puramente esterne, ossia tramite la circoncisione (v. 3), come insegnavano i Giudaizzanti (IV, 10-11).
Perciò l’Apostolo chiede loro: se Dio ha dato ad essi lo Spirito, ossia la grazia santificante, tramite le «opere della Legge cerimoniale» (v. 5) oppure tramite «l’obbedienza alla Fede che è stata loro predicata?».
Se essi sono stati giustificati dal cerimoniale ebraico, dovrebbero possedere la grazia, lo Spirito Santo o la carità soprannaturale anche i Giudei increduli che non hanno la fede in Cristo. Invece «senza la fede è impossibile piacere a Dio»; infatti, la giustificazione inizia con l’adesione alla fede dalla intelligenza mossa dalla volontà umana spinta dalla grazia, ma la fede da sola «è morta» (Giac., II, 15) e deve essere perfezionata o vivificata dalla carità, ossia dalle buone opere, cioè dall’obbedienza alla Legge naturale e divina dell’Antico e del Nuovo Testamento, che ci fa conoscere la Volontà di Dio, disobbedendo alla quale l’uomo non può essere buono. Per cui già s’intravede la soluzione, che si trova in nuce qui, del problema sofisticamente sollevato da Lutero, secondo cui basta la fede senza le buone opere, ossia senza l’obbedienza alla Volontà divina a rendere buono l’uomo.
Attenzione! si tratta della fede viva, ossia informata dalla carità, che santifica o giustifica intrinsecamente e realmente l’uomo, tramite la grazia santificante che è una partecipazione limitata e finita alla vita divina.
L’Apostolo nega questo asserto con l’esempio di «Abramo che “credette in Dio e ciò gli fu imputato a giustificazione” (Gen., XV, 6). Perciò quelli che hanno accolto la fede sono figli di Abramo» (v. 6-7). San Paolo asserisce chiaramente che la giustificazione di Abramo iniziò a partire dalla sua fede, ma non che la fede in sé (senza la carità o le buone opere) meriti la giustificazione; infatti, la grazia di Dio ci spinge alla fede, che vivificata dalla carità ci unisce a Dio e ci rende grati a Lui. Quindi, l’atto di fede di Abramo, mosso dalla grazia divina e reso vivo dalla carità soprannaturale (Amore di Dio e del prossimo), fu giustificante.
Perciò, spiega l’Apostolo, Abramo fu reso giusto dalla sua fede e dalla carità, ossia dalle buone opere che mettono in pratica quanto la intelligenza crede.
Con ciò egli confuta l’errore giudaizzante secondo cui per la giustificazione è indispensabile l’osservanza della Legge cerimoniale giudaica. Invece, Lutero ribalterà circa 1500 anni dopo completamente l’asserto giudaizzante e dirà che la fede da sola basta anche senza la carità o i Dieci Comandamenti a giustificare l’uomo e Bergoglio ha ripreso Lutero, condannato dal Concilio di Trento.
Ma, come posso io essere caro a Dio e buono se pur credendo a quanto è rivelato nell’ordine teoretico o dai princìpi, poi nella vita pratica lo rinnego facendo il contrario di quanto Dio vuole che io faccia? Ossia, se faccio il male sono cattivo e quindi non posso pretendere di essere buono.
Certamente posso pentirmi e correggermi e ridiventare grato e caro a Dio, ma se voglio perseverare nel male allora non posso nel medesimo tempo essere buono: voler peccare e pentirsi sono due concetti contraddittori.
Chi agisce bene è buono, chi agisce male è cattivo: « Agere sequitur esse ». Voler agire male e pretendere di essere buono è una contraddizione, anzi è il principio di contraddizione (bene = male ; male = bene) applicato dall’ordine speculativo a quello pratico (fare il bene = fare il male). Ecco la conclusione pratica della negazione del principio d’identità e non-contraddizione che arriva sino alla negazione della sinderesi (« bonum faciendum, malum vitandum »). Questa negazione e impugnazione della sinderesi ci porterebbe al peccato contro lo Spirito Santo, ossia l’impenitenza finale che non potrà essere perdonata - non perché Dio non sia onnipotente - ma perché la volontà umana pone un ostacolo alla conversione e al pentimento e quindi al perdono da parte di Dio.
Perciò i «veri figli di Abramo» sono « quelli che avranno creduto » (v. 7) che Cristo è Dio e avranno osservato i Suoi Comandamenti, proprio come ha rivelato Gesù: «Non chi dice: “Signore, Signore” entrerà nel Regno dei Cieli, ma chi avrà fatto la Volontà del Padre Mio». Quindi, la vera discendenza spirituale di Cristo e di Abramo si estende anche ai Pagani che, pur non essendo di razza semitica o abramitica, sono credenti in Cristo e praticano i suoi Voleri o Comandamenti.
Non si può dire di credere in Dio se si nega la Volontà di Dio, la quale fa una sola cosa con l’Essere divino, in cui non ci sono composizioni ma solo l’assoluta semplicità.
Non si può pretendere di piacere a Dio se gli disobbediamo e facciamo il contrario di quel che Lui vorrebbe che facessimo. Questo è il sofisma luterano e bergogliano; proprio come i Giudaizzanti sofisticando ritenevano che i Pagani dovessero farsi Ebrei, sottomettendosi alla circoncisione e alla Legge cerimoniale, per poter essere accetti a Dio.
Bergoglio ha ripreso l’eresia luterana, non ha suscitato reazioni da parte di Vescovi cattolici; ma siccome, involontariamente, ha leso anche il primato del cerimoniale giudaico, i rabbini hanno levato la loro voce per ricordare che secondo loro per piacere a Dio occorre rispettare le cerimonie giudaiche, ossia essere Ebrei che per loro non è una questione di buone opere e neppure di fede, ma di etnia; per Lutero (e Bergoglio) solo di fede, mentre per la Chiesa romana di fede e di opere.
Tuttavia, già Gesù aveva polemizzato con essi, quando aveva risposto loro: «Il vostro padre è il diavolo » (Gv., VIII, 44), ossia voi dite di essere figli di Abramo, ma lo siete solo carnalmente, in quanto discendete dalla sua razza, però spiritualmente Abramo credeva nel Messia venturo; mentre i Farisei e i Sadducei del tempo del Messia lo hanno rinnegato e lo hanno messo a morte; quindi essi sono « bugiardi e omicidi » come il diavolo che è il loro padre spirituale.
Quel che salva, in fondo, non è la razza (Giudaizzanti), non la sola fede informe (Lutero/Bergoglio), ma la fede che deve essere vivificata dalle buone opere. Questo è il succo della parte dogmatica dell’Epistola ai Galati.
È totalmente abusivo fare come Lutero e Bergoglio e dire che la sola fede senza i Comandamenti basta a salvarci l’anima.
Perciò San Paolo annuncia chiaramente : «Popolo di Dio» saranno non più solo i Giudei, ma - come rivelato sin dalla Genesi - tutti coloro («Omnes Gentes» Gen., XII, 3) che crederanno in Cristo e osserveranno la Sua parola, proprio come aveva detto Lui : «Non chi dice Signore, Signore entrerà nel regno di Dio, ma chi farà la Volontà del Padre Mio che è nei Cieli».
Al versetto 10 inizia la parte che Lutero farà sua per far dire a Paolo il contrario di quanto avesse scritto. Infatti, l’Apostolo scrive: «Tutti coloro che si appellano alle opere delle Legge (cerimoniale) stanno sotto la maledizione».
Secondo l’Apostolo ciò vuol dire soltanto che la Legge, di per sé, è fonte di maledizione perché nessun uomo con le sole proprie forze naturali e senza l’aiuto della grazia divina può osservarla.
Infatti, la Legge ci fa conoscere ciò che è bene e ciò che è male, ma non ci dà la forza di fare il primo ed evitare il secondo, poiché è solo la grazia soprannaturale che ci spinge ad agire soprannaturalmente bene, spingendoci a uniformarci alla Legge naturale e divinamente rivelata.
Siccome la Legge è divina, ogni sua trasgressione è biasimevole e condannabile.
Perciò appellarsi da sé soli, senza il soccorso della grazia, alle opere della Legge significa condannarsi alla maledizione e alla punizione. Come si vede non è la svalutazione della Legge divina o naturale, ma la presa di coscienza che la morale non può essere vissuta integralmente senza l’aiuto della grazia specialmente dopo il peccato originale.
Tuttavia l’Apostolo specifica, prevenendo il Luteranesimo e confutandolo anticipatamente, che anche la Legge potrebbe dare la vita eterna se accompagnata alla fede, ma a condizione di osservarla integralmente con l’aiuto di Dio.
Infatti, egli scrive al versetto 12: «Chi fa queste cose [osserva i Comandamenti], costui vivrà per esse (Lev., XVIII, 5)», ma ciò non è possibile alle sole forze naturali senza la grazia soprannaturale, che muove prima alla fede e poi alla carità, ossia alle opere buone soprannaturalmente.
Perciò, è necessario che Qualcuno più grande della Legge, poiché Autore di essa, dia all’uomo la forza soprannaturale di credere e di osservare la Legge integralmente (vv. 13-14).
Costui è solo e soltanto «Cristo», unico Redentore del genere umano, che «ci ha riscattati dalla maledizione della Legge, divenendo Lui stesso maledizione a favore nostro» (v. 13).
Cosa significa tutto ciò? Non che Gesù abbia commesso il peccato perché Dio per sua natura è impeccabile. Infatti, il Verbo, incarnandosi e assumendo una natura umana simile alla nostra tranne che nel peccato, ci ha dato la forza divina di vincere il male con il bene.
Nella II Epistola ai Corinti (V, 21) l’Apostolo esprime il medesimo concetto scrivendo in maniera anche più forte che Cristo è diventato per noi «peccato» affinché noi diventassimo «Giustizia di Dio in Lui».
Attenzione! Ciò non significa che Gesù abbia abrogato la Legge morale naturale e divina o addirittura che abbia fatto Lui stesso il peccato, come Bergoglio in un’omelia a S. Marta ha fatto dire a San Paolo che “Gesù si è fatto peccato, serpente e diavolo” (cfr. L'Osservatore Romano, Anno CLVII, n.79, 05/04/2017) stravolgendo radicalmente il significato di quanto l’Apostolo aveva scritto.
Infine al versetto 14 San Paolo riepiloga e completa i concetti precedenti.
Perciò l’Apostolo insegna che il vero discendente di Abramo è solo Cristo, che ci salva mediante la grazia la quale ci muove alla fede, che deve essere tuttavia vivificata dalla carità (v. 18).
Infatti, egli cita la Genesi (XII, 7) in cui è rivelato che “le promesse furono fatte da Dio ad Abramo e alla sua discendenza”, per cui san Paolo chiosa: «La Scrittura non dice “ai suoi discendenti”, come se si trattasse di molti, ma di uno solo “e alla sua discendenza”, cioè Cristo». Quindi, solo aderendo a Cristo e alla sua grazia, che ci muove alla fede e alle opere soprannaturalmente meritorie, si è veramente e spiritualmente discendenti di Abramo. Ognuno che ha la fede e la mette in pratica, tramite l’osservanza della Legge divina, è incorporato a Cristo tramite la grazia santificante.
Cristo è l’unico erede in cui assumono valore e realizzazione le promesse fatte ad Abramo ed è per l’incorporazione in Cristo che tutti gli uomini - tramite la grazia, la fede e le buone opere soprannaturali - erediteranno anch’essi la promessa divina.
Ora, a partire dal versetto 19, l’Apostolo si chiede quale sia la funzione e l’utilità della Legge, se si è giustificati tramite la grazia che ci porta alla fede e alla carità soprannaturale.
La risposta è che la Legge ha la sua ragion d’essere, la sua utilità e necessità. Infatti, non si può mettere Legge contro grazia, fede contro morale, credo contro Comandamenti come hanno fatto Lutero e Bergoglio.
La Legge costituisce un ponte tra la promessa di Dio e la realizzazione della promessa (Cristo). Infatti, la Legge fa sentire all’uomo che da solo con le sue pure forze naturali non poteva osservare la Legge, ma che aveva bisogno di Cristo il quale gli avrebbe dato la grazia o la forza per credere e osservare la Legge.
Ciò non significa, come diceva Lutero, che la Legge è causa del peccato o che Dio lo causi positivamente, ma soltanto che tramite la Legge - la quale ci fa conoscere ciò che è bene e ciò che è male, ciò che dobbiamo fare e ciò che non dobbiamo fare - l’uomo può desiderare la grazia divina, che fortifica l’intelligenza per credere ciò che il Signore ha rivelato e la volontà per fare ciò che Dio ha comandato.
La Legge ha fatto capire ancor meglio all’uomo il senso del peccato e la sua incapacità con le sole sue forze naturali a osservare tutta la Legge; quindi Dio ha dato la Legge per suscitare nella volontà dell’uomo il desiderio di ricevere la grazia divina che lo aiutasse a osservare i Comandamenti fortificandolo dall’interno, ma siccome la Legge da se sola non può dare la vita soprannaturale, ossia non può santificare interiormente e realmente gli uomini, allora Dio ci dà la grazia che ci porta alla fede viva e così ci rende capaci di osservare la Legge morale e ci santifica.
La Legge non ha la capacità da sola di salvare, giustificare e santificare l’uomo, ma solo di fargli conoscere ciò che è bene e ciò che è male, di modo che debba sapere ciò che può fare e ciò che deve non fare. Tuttavia, per fare realmente il bene e fuggire il male l’uomo deve essere aiutato dalla grazia santificante, che porta alla fede vivificata dalla carità.
Però, continua l’Apostolo (v. 23-24) proprio questa incapacità della sola Legge fa in modo che essa reclami la grazia affinché l’uomo possa osservare i Comandamenti e arrivare all’unione con Dio tramite la fede in Cristo vivificata dalle buone opere soprannaturali.
Perciò la Legge ha guidato gli uomini verso Cristo e ha permesso che essi si unissero a Lui con la fede e le buone opere.
Nel prossimo articolo vedremo il capitolo IV dell’Epistola ai Galati in 31 versetti.
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