Lettera / Io, infermiera sospesa dal servizio perché non mi piego all’obbligo di vaccino, ricorrerò alla giustizia, mi affido al Signore e non odio nessuno
Cari amici di Duc in altum, la lettera che qui vi propongo ha bisogno di ben pochi commenti. Bellissima testimonianza di coraggio, fede e coerenza, arriva da un’infermiera sospesa dal lavoro (e dallo stipendio) perché si oppone all’ideologia vaccinista. Noterete però che nelle parole di questa professionista, che ha dedicato una vita alla sua missione, non c’è traccia di livore o risentimento. C’è invece una grande serenità. Un esempio per tutti.
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Caro dottor Valli,
sono un’infermiera ligure che è stata recentemente sospesa dall’Ordine professionale e dal servizio per, come dicono loro, inadempienza all’obbligo vaccinale DL44/21 ora L.76/21.
Il mio nome non importa ai lettori (anche se Lei lo conosce), perché la mia vicenda è uguale a quella di centinaia di operatori sanitari sospesi solo in Liguria. A onor del vero i sospesi sono una piccola quota rispetto alle migliaia che hanno scelto di non sottoporsi alla “vaccinazione” anti-Covid. Le ragioni di questa scelta sono numerose: sia sanitarie (perché io tengo alla mia salute e a quella degli altri, cui ho dedicato la mia vita e il mio impegno professionale) sia di altro tipo. Tra le ragioni non sanitarie c’è quella che qualunque cosa propugnata con la menzogna, la coercizione e il ricatto non promette nulla di buono. E i fatti lo dimostrano: ormai non si contano più i colleghi vaccinati con doppia dose che si sono tuttavia infettati e ammalati, così come quelli che hanno avuto reazioni avverse al vaccino.
Ma torniamo a noi. Cosa significa la sospensione prevista dalla legge 76 e così solertemente comminata dalle aziende sanitarie (ma si dice che siano state le Regioni a spingere)? Con tale tipo di sospensione, il sanitario viene sospeso dall’Ordine professionale e dal servizio, fino all’adempimento dell’obbligo, al termine della campagna vaccinale (finirà mai? In Israele si parla di quarta dose), o al 31 dicembre 2021, salvo proroghe. Veramente la legge prevedeva che il datore di lavoro “adibisce il lavoratore, ove possibile, a mansioni, anche inferiori, diverse”, ma non ci hanno neppure provato.
Bene. Essendo sospesa dall’Opi, l’Ordine degli infermieri, attualmente io, come tutti gli altri colleghi, non posso in alcun modo lavorare come infermiera (sarebbe esercizio abusivo della professione), ma neppure posso cercare un altro lavoro in regola, perché ho un contratto in esclusiva con la Asl e ne resto dipendente. Quindi restano solo due possibilità: cedere al ricatto o dare fondo ai risparmi. Per fortuna gli italiani sono un popolo di risparmiatori e tutti trarremo di che vivere dal gruzzolo che, nel mio caso, ho messo via in trent’anni di onorato servizio. In realtà ci sarebbe anche una terza via, cui il governo di fatto ci spinge: il lavoro nero. Ma non è accettabile. Noi il torto lo abbiamo subito, non vogliamo farlo.
Che dire? Ci sono famiglie, parlo della Liguria, in cui madre e padre sono stati sospesi e hanno tre bambini. Se avessimo ucciso un paziente saremmo sospesi in via cautelativa, ma avremmo diritto a un assegno alimentare. Invece non ci spetta neppure il reddito di cittadinanza.
La solidarietà tra di noi non si è fatta attendere e chi può aiuta gli altri con iniziative private o attraverso raccolte fondi come quella “Adotta un sanitario”, indetta dal sindacato Cub.
Io personalmente sono più che certa delle parole di Nostro Signore: “Per la vostra vita non affannatevi di quello che mangerete o berrete, e neanche per il vostro corpo, di quello che indosserete; la vita forse non vale più del cibo e il corpo più del vestito?” (Mt 6, 25). E ancora: “Non abbiate paura di quelli che uccidono il corpo, ma non hanno potere di uccidere l’anima; temete piuttosto colui che ha il potere di far perire e l’anima e il corpo nella Geenna” (Mt 10,28).
In tutta questa vicenda, a dispetto del clima malevolo e dell’odio instillato ad arte nelle persone, io assaporo una grande pace che viene dall’essere totalmente nelle mani di Dio.
Ricorrerò alla giustizia, perché chi ha fatto torto al povero e alla vedova abbia modo di riparare già su questa terra e possa aver salva l’anima.
Faccio mie le parole di Giovannino Guareschi di ritorno dal lager tedesco, dove trascorse due anni come internato militare italiano: “Per quel che mi riguarda, la storia è tutta qui. Una banalissima storia nella quale io ho avuto il peso di un guscio di nocciola nell’oceano in tempesta, e dalla quale io esco senza nastrini e senza medaglie ma vittorioso perché, nonostante tutto e tutti, io sono riuscito a passare attraverso questo cataclisma senza odiare nessuno. Anzi, sono riuscito a ritrovare un prezioso amico: me stesso”.
“Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati” (Mt 5,6).
Quindi, come diceva don Orione: “Ave Maria, e avanti!”, e di tutto ringraziamo la Divina Provvidenza.
Con stima
Un’infermiera ligure
Genova, 10 settembre 2021
Il “decreto” della curia milanese illogico e canonicamente infondato
Siamo ancora grati per essere stati ricevuti dal Presidente della CEI al quale è stato consegnato il documento, con cui abbiamo espresso l’urgenza di un intervento più deciso in linea con il presupposto di libertà di coscienza e morale, rispetto alle fughe in avanti di alcune realtà ecclesiastiche verso un obbligo vaccinale inesistente e inesigibile.
Inevitabilmente, e come da copione, sono tuttavia subito spuntati i corifei a gestire mediaticamente tali fughe (rif. articolo pubblicato in data 8/9/2021 su Avvenire https://www.avvenire.it/chiesa/pagine/la-cei-in-parrocchia-e-bene-essere-vaccinati) con commenti a dir poco “spaventosi”, addirittura indicando che “avere parrocchie sicure è la priorità della Chiesa italiana”, esaltando e forzando una lettura fuorviante del nuovo documento della CEI, anche al di là di ogni decente interpretazione.
Da ultimo e senza troppa sorpresa, anche la diocesi di Milano, nella persona del Vicario generale, si è subito distinta con un documento (rif. https://www.chiesadimilano.it/avvocatura/files/2021/09/Decreto-del-Vicario-Generale-circa-alcune-misure-di-contrasto-alla-pandemia-9-settembre-2021.pdf) che, tuttavia, non riesce ad essere inquadrato canonicamente.
Infatti, non può essere un “decreto generale” che è una legge (can. 29), perché questo spetta al solo vescovo che agisce personalmente (can. 391 § 2) nella sua potestà legislativa, che non può essere delegata se non nei casi esplicitamente previsti (can. 135 § 1). Non può essere neanche un “decreto generale esecutivo” (can. 31 e 32), che può essere emanato dalla potestà esecutiva, come il Vicario generale, perché tale forma di decreto si riferisce a leggi già esistenti e ne urge l’osservanza e ne determina i modi (can. 32), perché non vi è nessuna legge canonica sul merito.
Non si tratta neppure di una “istruzione” (can 34) emanata da “coloro che godono della potestà esecutiva” (can. 34 § 1) “entro i limiti della propria competenza” (ibidem) dato che la natura dell’istruzione è di chiarire “le disposizioni di legge e […] i procedimenti nell’eseguirle”, per il motivo che, ancora una volta, non esiste una legge canonica in materia da chiarire e in base alla quale dare disposizioni per l’esecuzione.
Non è neanche un “decreto singolare” (can. 48), in questo caso un “precetto” con il quale “si impone a una persona o a persone determinate qualcosa da fare o omettere” (can. 49), perché tale decreto serve, come in questo decreto milanese, per “urgere l’osservanza di una legge”; ma, ancora una volta, nella materia specifica di cui si tratta non esiste alcuna legge canonica che urge l’osservanza di tale “legge”.
In ogni caso, il decreto singolare può essere emanato “entro i limiti della propria competenza” (can. 35): e pone il problema di quale sia il limite della competenza del Vicario generale.
Vero è che Milano ha visto un Prefetto come Ambrogio diventare vescovo, ma che il Vicario generale diventi Prefetto è una novità della quale non riusciamo che a meravigliarci.
Secondo il can. 479 § 1 la competenza del Vicario generale ha infatti la medesima estensione della potestà esecutiva di quella del Vescovo diocesano. E allora basterebbe verificare quali sono le competenze del Vescovo che, con non poca confusione, sono elencate in molti canoni, ma più precisamente, per quello che conta, ai canoni dal 381 al 389 e, in nessuno di tali canoni, vi è l’attenzione ad un presunto presupposto normativo riguardante l’emanazione di un atto amministrativo circa l’aspetto sanitario della diocesi.
Il canone 387 afferma, in via generale, che “il Vescovo diocesano […] si impegni a promuovere con ogni mezzo la santità dei fedeli […] e si adoperi di continuo affinché i fedeli si adeguino in grazia mediante la celebrazione dei sacramenti e perché conoscano e vivano il mistero pasquale”. Appunto: la “santità” e non la “sanità”.
In nessuna parte della normativa canonica appare il dovere normativo di occuparsi della gestione della sanità del territorio sotto la sua giurisdizione, e tutti gli altri obblighi descritti non vi fanno alcun riferimento e in nessun modo, posto che, ad esempio, non può certamente assimilarsi tale preoccupazione a quella circa la vigilanza sugli abusi nella disciplina ecclesiastica (can. 392 § 2); in ogni caso dovendosi precisare sempre che si parla di leggi ecclesiastiche e si regolamenta e tutela l’esercizio, ad esempio, “del ministero della parola, dell’amministrazione dei sacramenti e del culto dei santi e l’amministrazione dei beni” (ibidem).
In altre parole non è riscontrabile nessuna competenza del Vescovo diocesano in campo sanitario e, di conseguenza, nessuna competenza ne può discendere al Vicario generale per emanare un decreto singolare nella forma di un precetto (can. 49), con il quale addirittura si urga l’osservanza di leggi civili.
Tutto il resto è fuori dal diritto canonico e quindi fuorviante della verità.
In realtà la preoccupazione che ci preme sottolineare – che è la verità – è che si è perso il principio di legalità interno alla Chiesa per cui l’autorità può emettere atti solo dentro i limiti della propria competenza, e che in ogni suo atto l’autorità ecclesiastica debba allegare esplicitamente quo iure lo emetta.
Ciò che non è consentito, quindi, non è permesso; questo è il principio che sembra ormai oscurato a tal punto che assistiamo ormai da tempo all’emanazione di decreti da parte delle autorità ecclesiastiche su qualsiasi cosa, troppo spesso all’inseguimento di urgenze prettamente “civili” e non propriamente legate alla vita della Chiesa.
Con il documento della diocesi di Milano, dunque, resta il segnale che è un atto di potestà esecutiva, ma non è una legge per i fedeli, perché anche potendo costituire l’esercizio di una potestà esecutiva, “non urge” l’osservanza dei modi della legge ecclesiastica, ma di quella civile, per cui, in sostanza, non ha alcun valore vincolante.
A margine si noti anche l’irregolarità costituita dal difetto di firma del Cancelliere vescovile (can. 484 n. 2), la cui firma fa “pubblica fede” (can. 483 § 1), cioè garantisce la genuinità della provenienza dell’atto. Tale irregolarità può ingenerare dubbi nel fedele circa l’ufficialità dell’atto amministrativo e sospenderne, nel dubbio, l’osservanza.
Pertanto, si conferma ancora una volta un’ansia da prima fila per apparire nel mondo anche eccedendo la propria competenza nell’essere osservanti di leggi civili che non hanno alcuna pertinenza in sacris, di fatto permettendo ancora una volta l’abuso di legiferazione dello Stato in un campo esclusiva di competenza della chiesa.
Altrimenti non si spiegherebbe il voler a tutti i costi accelerare in un’interpretazione impossibile del pur discutibile ma apprezzabile eccesso di prudenza della CEI che, infatti, declina solo la possibilità per le Conferenze Episcopali regionali a formulare “messaggi o esortazioni”, e null’altro.
Pur potendo anche qui individuare un vero e proprio vulnus nella riserva finale del documento CEI, in cui fa salva la facoltà di ogni vescovo a svolger le attività in presenza “in condizioni di sicurezza e nel rispetto della normativa vigente”.
Facoltà che, sommessamente, non ci pare provenga infatti da alcuna norma di diritto canonico, posto che la normativa vigente in Italia non chiede nulla, né può chiedere nulla, alla Chiesa e per sue le attività pastorali.
Tale ennesimo pasticcio di produzione non necessitata, ancora una volta e come da subito paventato, aumenterà gli abusi a danno dei fedeli. Anche se fosse pure la CEI – che tuttavia non ne ha il potere – a dare a ogni vescovo la “facoltà […] di definire criteri […] nel rispetto della normativa vigente”, ebbene questa normativa civile vigente non prevede alcun green pass, non solo per le celebrazioni, ma neppure per le attività ecclesiali.
Pertanto, sia pure in modo insufficiente rispetto alla richiesta di chiarimento proposta da Iustitia in Veritate, il documento della CEI è “apprezzabile” nella sua sostanziale prudenza nel non invadere e produrre nuovi ambiti prescrittivi non fondati, né necessitati, pur dovendo notare l’ingiustificata paura di fondo, forse motivata dalla preoccupazione di poter individuare possibili contagi in ambito ecclesiastico, e forse nell’illogica convinzione di acquisire con ciò maggiore tutela ed evitare la responsabilità civile circa possibili richieste di risarcimento nel caso di contagio avvenuto presuntamente nelle strutture parrocchiali.
Ciò emerge con evidenza nella clausola nella quale, con sorpresa, apprendiamo che tutta quella minuziosa serie di categorie indicate e di misure di prevenzione, non sarà attuata con una medesima minuziosa attività di controllo; infatti conclude la Nota allegata al “decreto”: “Non sono previste specifiche misure di verifica. Non è richiesto, pertanto, che venga mostrato o consegnato un certificato di vaccinazione o di guarigione o di esenzione dalla vaccinazione e neanche l’esito di un test diagnostico.”
E ciò, chiaramente, vanifica il fine sanitario del documento e ne rivela la vera preoccupazione, che non è la “sanità” dei fedeli ma la preoccupazione per la responsabilità civile della Diocesi.
E, quindi, potendo certamente affermare che anche tale presunta giustificazione sarebbe illogica, irrazionale e senza alcuna evidenza sanitaria o scientifica rispetto alla sua eventuale dimostrabilità a differenza di altri luoghi di potenziale contagio (mezzi pubblici, ristoranti, centri commerciali…etc).
Il “documento” della diocesi di Milano, pertanto, appare inqualificabile nel quadro giuridico, una fuga in avanti irrazionale e non necessitata, cioè, come prima detto, una inusitata voglia a superare anche i limiti della legge canonica per manifestare ed apparire più realisti del re, che addirittura viola lo stesso provvedimento della CEI.
In ogni caso un provvedimento infondato ed illogico che non farà altro che alimentare maggiore paura, trasmettere un ulteriore irrazionale invito allo svuotamento delle chiese e alla fuga dalla vita pastorale dei fedeli, già mortificata da quasi due anni di abusi alla libertà di culto e religiosa, con il pretesto della normativa emergenziale.
Non sfugge dunque che l’Arcivescovo si sia ben guardato dal fare proprio questo documento siglandolo con la sua firma. Evidentemente Sua Eccellenza lascia a sé stesso lo spazio per intervenire davanti alle prevedibili proteste dei parroci e dei fedeli, sia in diritto che in fatto, e porsi come super partes in questa materia che forse avrebbe richiesto una maggiore ponderazione, come auspicato dallo stesso documento della CEI.
Iustitia in Veritate non può quindi che esprimersi contro il documento della diocesi di Milano del 9 settembre 2021 a firma di S. E R. Mons. Franco Agnesi, Vicario generale e la sua modalità di “legiferazione” sottesa, chiedendo all’Arcivescovo di Milano di farsi portavoce dell’esigenza di non affliggere ulteriormente i fedeli e di provvedere, per quanto necessita, al ritiro del documento o alle opportune rettifiche e correzioni del caso.
Fonte: iustitiainveritate.org
iustitiainveritate@gmail.com
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