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venerdì 24 febbraio 2012

Profeti dei Bàal?

 


Ecumenismo cosmico, sta bene: ma quale?
di Francesco Lamendola - 23/02/2012


Da più parti, negli ultimi anni, dentro e fuori l’universo cristiano, si sente parlare della necessità di giungere ad un ecumenismo senza frontiere, ad un ecumenismo cosmico, che accolga ed abbracci tutte le grandi fedi religiose e tutte le principali dottrine filosofiche; anzi, a ben guardare, si tratta di una tendenza antica, che percorre tutta la storia del pensiero e della spiritualità occidentali e che è stata via via incarnata dalla Gnosi, dalla Rosacroce, dalla Massoneria.
La differenza è che, mentre un tempo si trattava di élite culturali, ora si parla di orientamenti abbastanza consistenti; e che mentre, un tempo, esse agivano nell’ombra, a un livello esoterico, ora si invoca l’ecumenismo cosmico alla luce del sole, come una necessità dei tempi, ossia come il logico prolungamento e, in un certi senso, come il coronamento, sul piano spirituale, di quel travaglio spirituale e materiale che, in politica, ha condotto all’affermarsi dell’idea democratica, tra il XIX ed il  XX secolo.

E così come, ai giorni nostri, l’opinione pubblica occidentale, e non essa soltanto, sembra dare per scontato che la democrazia debba essere il punto di arrivo dell’evoluzione politica interna di tutte le società umane (non importa se si tratta di una democrazia sostanziale o soltanto formale, all’ombra delle quale continuino ad espandersi e a prosperare i poteri occulti che di essa si servono per imporre un giogo non visibile e per sfruttare più tranquillamente i cittadini, mediante il loro stesso consenso), similmente i sostenitori dell’avvento di un ecumenismo cosmico tendono a dare per scontato il fatto che la realizzazione delle loro idee sia solo questione di tempo, che non esista alcuna alternativa credibile ad esse e che la loro verità sia talmente auto-evidente e talmente in sintonia con il comune sentire della popolazione mondiale, da non aver bisogno di alcuna particolare spiegazione o giustificazione teorica.
Non è un caso, infine, che sia i sostenitori della democrazia come unico sistema politico legittimato a governare i popoli, sia quelli dell’instaurazione di una super-religione che sintetizzi il punto di vista di tutte le fedi, auspichino che si possa instaurare quanto prima un governo mondiale unico, capace di assorbire tutti gli Stati e tutte le tradizioni e di imporre un unico sistema di leggi, che un’unica polizia mondiale dovrà far rispettare, a livello planetario, in esecuzione alle decisioni di un super-governo globale.
Nel caso dell’ambito culturale proprio del cristianesimo, le voci favorevoli ad un ecumenismo cosmico (che è, si badi, cosa completamente diversa dal dialogo interreligioso e anche dall’ecumenismo storico, ossia dal movimento che si propone di superare le divisioni createsi in seno alla Chiesa nel corso dei secoli, ma sempre limitatamente all’ambito cristiano) nascono all’interno della Chiesa stessa e riprendono alcune posizioni che furono prima del modernismo, poi del Concilio Vaticano II, in questo secondo caso, però, dilatandole e talvolta estremizzandole in direzione di un relativismo e di un vero e proprio indifferentismo religioso, per approdare a una sorta di deismo in versione contemporanea, risultante dall’incontro sincretistico di tutte le fedi, anche di quelle che sorsero, come la teosofia e l’antroposofia, in aperta polemica con il cristianesimo e specialmente con il cattolicesimo romano.
Non è un caso che uno dei maggiori esponenti di questa tendenza, il teologo svizzero Hans Küng - colpito dalla revoca della “missio canonica” fin dal 1979 -, fosse stato chiamato a partecipare al Concilio Vaticano II, in qualità di esperto, da papa Giovanni XXIII; da allora egli ha cercato di spingere sempre più avanti la frontiera della modernizzazione della Chiesa, non risparmiando aspre critiche sia a Giovanni Paolo II, sia all’attuale pontefice Benedetto XVI, da lui accusati di voler mantenere la Chiesa in una posizione di arretratezza, di chiusura e, soprattutto, di esclusivismo teologico e di eurocentrismo, e paragonando i provvedimenti di censura a carico di altri sacerdoti e teologi critici verso di essa, niente meno che alle “purghe” della polizia staliniana.
Coerentemente con le sue idee, Küng si è fatto anche propugnatore di un’etica mondiale, capace di sostituirsi a quella basata sulle diverse tradizioni religiose e culturali, al fine di individuare alcuni punti chiave, irrinunciabili per la sopravvivenza della famiglia umana nel suo complesso; tale proposta è stata da lui esposta nel libro «Progetto per un’etica mondiale», del 1990, prontamente tradotto in diverse lingue, compresa quella italiana.
All’esterno della chiesa cattolica e dell’ambito culturale cristiano si colloca la predicazione del mistico indiano Paramahansa Yogananda (morto nel 1952), fondatore della Self-Realization Fellowship, con sede a Los Angeles e ramificata in tutto il mondo. Yogananda era giunto negli Stati Uniti nel 1920, su mandate suo maestro spirituale Sri Yukteswar Giri, con lo scopo preciso di avviare una riconciliazione fra le due grandi tradizioni religiose dell’Oriente e dell’Occidente e di evidenziare le analogie e le convergenze tra la figura e la predicazione di Gesù Cristo e la figura e la predicazione di Krishna.
Egli voleva mostrare che, in fondo, cristianesimo e induismo non dicono cose essenzialmente diverse, ma, al contrario, si servono di nomi e concetti diversi per indicare un’unica divinità ed un unico cammino dell’uomo alla ricerca di essa; e la prospettiva “ecumenica” del suo messaggio è stata uno dei fattori del suo successo strepitoso. Ancora oggi i suoi discepoli e ammiratori sono numerosi e sparsi in tutto il mondo, anche se è difficile quantificarli; in ogni caso, la sua influenza è stata molto più vasta di quello che non possa risultare dai semplici dati numerici, per il suo fascino personale non meno che per l’afflato universalistico della sua dottrina. Il suo libro «Autobiografia di uno Yoghi», la cui prima edizione è apparsa negli Stati Uniti nel 1946, è stato uno dei più grandi successi editoriali mondiali e una autentica rivelazione per una intera generazione di lettori occidentali, specialmente giovani, assetati di spiritualità dopo il terribile trauma della seconda guerra mondiale.
A mezza strada, se così ci si può esprimere, fra l’ecumenismo cosmico di Hans Küng, che muove dall’interno della Chiesa cattolica, e quello di Yogananda, che muove dall’esterno di essa, si colloca quello di un frate domenicano indiano deceduto nel 2011, padre Anthony Elenjimittam, formatosi in Italia e in Inghilterra negli anni del secondo conflitto mondiale, il quale, partito dal desiderio di conciliare la dottrina cattolica con alcuni elementi essenziali della religiosità indiana, giunse ad assumere posizioni apertamente critiche verso quella che egli riteneva la chiusura della gerarchia romana e a proporre un punto d’incontro di tutte le maggiori tradizioni religiose e filosofiche dell’Asia e dell’Europa, comprese la teosofia, l’alchimia, l’esoterismo, fra le quali non vedeva opposizione inconciliabile, ma sostanziali convergenze di fondo.
Padre Elenjimittam era convinto che, dietro il velo dei diversi linguaggi, dei diversi riti sacri e delle diverse tradizioni, vi fosse un unico sforzo della mente e dell’anima umana per elevarsi a Dio, sola Realtà ultima; e, conformemente alla tradizione del suo Paese natale, considerava il mondo materiale come illusorio e, quindi, profondamente sbagliato ogni realismo filosofico nei confronti di esso. Inoltre, convinto che la Chiesa cattolica avesse imboccato la strada giusta solo con il Concilio Vaticano II, egli criticava il dogma dell’infallibilità papale e tutti quegli aspetti del cattolicesimo che potevano recare pregiudizio all’apertura verso le altre chiese e verso le altre religioni, in particolare il concetto della creazione ex nihilo, sia del mondo sia delle anime individuali, l’accentuazione del culto mariano e l’eternità dell’Inferno.
Scrittore prolifico e instancabile conferenziere, buon conoscitore di Patanjali, dello Yoga e del Buddhismo, padre Elenjmittam ha trovato anche il tempo di occuparsi di una istituzione per l’infanzia abbandonata a Bombay, da lui fondata nel 1957, nella quale i bambini venivano educati in uno spirito di cosmopolitismo e di fratellanza universale, secondo le idee dell’ecumenismo cosmico e sempre nella prospettiva di una umanità futura libera e unita.
Notiamo di sfuggita che il caso di padre Elenjmittam non è stato eccezionale nell’ambito della Chiesa cattolica indiana; si direbbe, anzi, che l’antichità è l’autorevolezza della tradizione religiosa di quel Paese sia tale da sospingere alcuni sacerdoti e teologi indiani a cercare quasi naturalmente delle corrispondenze fra la dottrina cattolica e la religiosità del Subcontinente: citiamo solo due nomi tra i più conosciuti, quello del gesuita Anthony De Mello (morto nel 1987) e quello del sacerdote spagnolo, ma di cultura indiana, Raimon Panikkar (morto nel 2010), scrittore e psicologo il primo, teologo e traduttore dei testi sacri indiani, il secondo.
De Mello, come Elenjimittam, ha rappresentato una posizione di frontiera e, poco dopo la sua morte, alcune proposizioni contenute nei suoi scritti sono state dichiarate incompatibili con la religione cattolica dalla Congregazione per la dottrina della fede; Panikkar, invece, pur dichiarando di sentirsi cattolico al cento per cento e anche indù al cento per cento, non è mai incorso in alcuna censura ecclesiastica formale, forse anche per una sua maggiore attenzione a distinguere gli aspetti tecnici della teologia.
Ma, per non allargare troppo il nostro discorso, limitiamoci qui, per ora, ad approfondire alcuni aspetti del pensiero di padre Elenjimittam, che, per certi versi, è stato il più diretto ed esplicito nell’esporre le sue idee sincretiste e che ha lasciato dietro di sé, in Italia e altrove, alcuni gruppi di meditazione e di preghiera fedeli alla sua memoria e alla suggestione della sua ricca e spiccata personalità.
Scrive, dunque, nella sua biografia spirituale «Ecumenismo cosmico, attraverso un cattolicesimo indo-buddista (Autobiografia di un monaco domenicano indiano», Anthony Elenjimittam (titolo originale: «Cosmic Ecumenism via Hindu-Buddhist World (An Autobiography o fan Indian Domenican Monk»Aquinas Publications, Bombay, 1984; traduzione italiana di Swami Saravadananda Saraswati, Meditation Center, Torino Leumann, 1985, pp. 61-63):

«Durante tutti i miei anni di studio all’Angelicum fui interiormente sottoposto ad un penoso tiro alla fune tra le mie profonde convinzioni e molte delle cose che mi venivano insegnate o imposte dall’alto. La maggior parte delle lezioni di teologia consisteva nell’ascoltare gli appunti preparati dai rispettivi professori, note per lo più preparate sull’autorità dei passati Concilii della Chiesa, de Padri e la Chiesa o testi biblici, i quali erano spesso spremuti nei loro contenuti e spiegati in modo da sostenere e rafforzare gli insegnamenti ufficiali ella Chiesa. C’era pure un corso di studi allora conosciuto come “Storia dell’Eresia” che incominciava con le eresie gnostiche e ariane, le quali furono combattute dall’imperatore romano Costantino quando egli convocò il Concilio di Nicea per combattere gli Ariani ed altre eresie di quel’epoca. Il corso terminava con il Modernismo, rappresentato da Alfred Loisy, George Tyrrel ed Ernesto Buonaiuti, che furono combattuti da papa Pio IX durante il primo Concilio Vaticano, con il “Syllabus” ed il Decretum “Lamentabili”.»

Qui l’Autore fa confusione fra Pio IX, che riunì il Concilio Vaticano I nel 1869-70, in cui venne confermata la condanna del razionalismo, del materialismo, del liberalismo già pronunciata nel “Sillabo” di sei anni prima, e papa Pio X, che condannò il Modernismo, principalmente con l’enciclica “Pascendi Dominici gregis”, del 1907.

«Tutto ciò mi sembrava del tutto irrilevante, perché i veri valori religiosi non venivano affrontati. Il libro tristemente noto che raccoglieva tutte le eresie ufficiali e tentava di convalidare i dogmi e la dottrina della Chiesa era il famoso “Enchridion Symbolorum”di Densinger Bewart. Nella mia solitaria, monastica cella domenicana, studiai questo libro con la massima attenzione, in profondo silenzio e con mente interamente distaccata. Mi sembrò molto chiaro che gran parte delle affermazioni condannate come eresie, erano invece a mio giudizio, vere e proprie rivelazioni delle verità divine realizzate dai loro autori, i quali erano più dei mistici e pensatori indipendenti che teologi ufficiali. Invece molti degli insegnamenti ufficiali della Chiesa, dogmi e dottrine, in particolar modo il dogma dell’infallibilità del papa, l’assunzione fisica al Cielo della Madre di Gesù, Maria, l’eternità dell’inferno, la creazione dal nulla dell’universo e delle anime, etc. etc., mi sembravano completamente in disarmonia con il ritmo cosmico e l’ordine divino del’universo, contro ogni evidente indagine razionale, spirito scientifico, umana esperienza e la profonda psicologia del misticismo di entrambi gli emisferi. Per la mera forza di un’autorità esterna che poteva essere un papa, un Concilio, un Padre della Chiesa o un teologo, ci veniva chiesto di affermare che cinque più quattro fanno dieci, undici, sete o ventuno, fuorché nove, sola vera somma. La matematica è la più precisa fra tutte le scienze per cui la certezza incontrovertibile e il metodo matematico dovrebbero essere applicato anche nel campo della filosofia razionale, della teologia intuitiva, delle scienze esoteriche e della psicologia mistica. Verificabilità, dimostrabilità, basate sull’esperienza umana, sovrumana e divina, sono estremamente necessarie nella Chiesa, sia per l’insegnamento sia per l’apprendimento della dottrina “Ecclesia docens et Ecclesia discens.
A quell’epoca era in me molto chiara la distinzione tra la Chiesa Insegnane e la Chiesa Discente. La Chiesa Insegnante , l’”Ecclesia Docens”, era la gerarchia ecclesiastica costituita da papa, cardinali, vescovi, sacerdoti e dagli ecclesiastici nel mondo; la Chiesa Discente, l’”Ecclesia Discens” era invece composta da laici, che dovevano imparare e sottostare alla gerarchia della Chiesa. Ma se osserviamo attentamente, il meglio della filosofia, teologia, teosofia, antropologia, antroposofia, fisica chimica e tecnologia in tute le branche della scienza e della psicologia, è scaturita dai cuori e dalle menti dei laici, non dall’autorità della Chiesa, che invece, molto spesso, ha continuato a condannare, scomunicare, penalizzare, limitando l’espansione del pensiero umano e della legge divina, entro i limiti di quei dogmi e credi, che hanno devitalizzato il progresso umano. Persino S. Tommaso non sfuggì all’accusa di eresia, quando furono condannate alcune proposizioni contenute nei suoi scritti. Fu grazie alla larghezza di vedute di un naturalista e scienziato alchimista e teologo mistico quale fu S. Alberto il Grande, Maestro di S. Tommaso d’Aquino, se il Dottore Angelico sfuggì alla sorte destinata allora agli eretici. Queste verità storiche vengono menzionate non tanto per condannare il clero, ma solo a testimonianza del nostro amore per quella Chiesa che non è altro che un insieme di anime e cuori che aspirano a Pace Interiore, Equanimità, Forza Interiore, Gioia Divina, Amore e Servizio, che sono la vera essenza del Regno di Dio sulla terra. Questa dovrebbe essere la meta della Chiesa, così da espandersi e svilupparsi, e non invece rimanere sempre più trincerata entro i ristretti limiti delle definizioni della Chiesa ufficiale quale “società dei battezzati che hanno in comune la stessa fede e sacramenti, sottostanti ed in comunione con il Pontefice Romano”. Questa era la definizione ufficiale dell’autorità esterna, mentre ora, con l’avvento di papa Giovanni XXIII, stiamo entrando nel’età dell’Acquario del cui Concilio Vaticano Secondo avremo conseguenze a lunga scadenza in quest’era atomico-spaziale, non essendo tutti altro che il dispiegarsi dell’Atman immanente in ogni atomo, il Brahman che trascende tutti gli atomi e tutti i possibili universi creati. Persino oggi c’è tensione tra i campioni di Nicea ed il Concilio di Trento, i quali tennero il potere fino a papa Pio XII. Il Concilio Vaticano Secondo è per la libertà dei figli di Dio. Esso visualizza l’aspetto delle cose a venire, annunciando un mondo migliore in cui le Nazioni saranno unite in un solo Grande Paese e tra le culture e le religioni sopravvivrà quell’Unica Realtà, l’Eterno Uno, l’Uno senza Secondo, che si manifesta come molti alle diverse menti, in accordo ai livelli spirituali da esse raggiunti nella loro maturazione spirituale.»

Come si vede, il concetto di ecumenismo cosmico di padre Elenjimittam è di una tale ampiezza da lasciare un po’ sconcertati quanti non abbiano una certa abitudine all’elasticità mentale, al dialogo e al confronto; se ne ricava, peraltro, anche l’impressione di una certa confusione, là dove l’Autore affastella e riunisce cose molto, troppo diverse fra loro; e, oltre ad incorrere in qualche grossolano errore di fatto, certo dovuto alla fretta nella stesura del suo libro, mostra una certa dose di ingenuità nel dare per evidenti delle analogie fra tradizioni diverse e addirittura nel mescolare termini e concetti tipici dell’universo New Age, come l’età dell’Acquario, con altri tratti dalla filosofia tomista e dalla più rigorosa tradizione di pensiero dell’Occidente cristiano.
Il passaggio finale, poi, in cui viene istituita una relazione diretta fra l’avvento dell’era atomica e il concetto induista dell’immanenza dell’Atman in ogni atomo dell’universo, è buttato giù con una leggerezza un poco sconcertante, specie pensando ai sinistri bagliori di Hiroshima e Nagasaki e al loro riflesso sul significato del cammino intrapreso dall’homo tecnologicus; ancor più inquietante è quell’accenno al futuro governo mondiale unico, con le sue implicite possibilità d’instaurare un ordine totalitario e concentrazionario.
Da ultimo, non possiamo fare a meno di osservare che la trasposizione dell’auspicio cristiano «Ut omnia unum sint» nel concetto dell’Eterno Uno o Uno senza Secondo è filosoficamente discutibile, proprio anche alla luce della nozione, tipicamente indiana, della non dualità, come espressione di un monismo più articolato e, diciamo così, più raffinato e consapevole del monismo o del dualismo puri e semplici, cari piuttosto alla tradizione europea, da Platone in avanti. È come se, curiosamente, nel suo sforzo sincretistico padre Elenjimittam avesse tralasciato uno degli aspetti più qualificanti della tradizione induista, quello dell’Advaita Vedanta o Vedanta non duale.
Che dire di tutto ciò?
L’impressione è che uomini come Hans Küng e come Anthony Elenjimittam, consapevolmente o no, abbiano fatto un bel po’ di confusione tra istanze diverse e diversi piani di realtà, scambiando, ad esempio, certe proposizioni del Concilio Vaticano II come una “rivincita” dello spirito modernista o, nel caso del secondo di questi autori, come annuncio di un superamento del confessionalismo religioso, nella linea della grande tradizione indù che sempre, storicamente, ha accolto e fuso al proprio interno le altre tradizioni religiose e filosofiche: dal buddismo al cristianesimo, dall’islamismo alla moderna cultura scientifica e tecnica occidentale.
Non  sempre il nuovo è sinonimo di progresso e non sempre cose che esteriormente si assomigliano, hanno una relazione intima ed autentica; così come  la ricerca di un’etica basata su criteri ecumenici di verità sembra avere poco a che fare con l’insofferenza di una chiesa locale extra-europea per una certa rigidità e un certo eurocentrismo della gerarchia romana (gira e rigira, è sempre l’antica, “vexata quaestio” della induizzazione del cristianesimo, con la quale i padri gesuiti si confrontarono fin dal XVII secolo, nella controversia sui riti malabarici, contestualmente alla controversia sui riti cinesi).
Certo, nel mondo globalizzato verso il quale stiamo andando, è questione della massima importanza e della massima urgenza elaborare strumenti di lettura della realtà, di pensiero e di dialogo interculturale e interreligioso, capaci di superare il punto morto delle contrapposizioni frontali e dei probabili scontri di civiltà.
Tuttavia, ci chiediamo: di quale ecumenismo cosmico abbiano bisogno per traghettare l’umanità verso i lidi ancora incerti del terzo millennio?
Di un ecumenismo che annacqua, elude o relativizza le specificità e le differenze; oppure di un ecumenismo che, sulla base delle rispettive identità, si confronta col diverso e formula delle proposte di incontro, comprensione e collaborazione a largo raggio?


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