Abbiamo ucciso Dio per non dovergli rendere conto di nostro fratello
De Maistre diceva che la cultura moderna è teofoba, odiatrice di Dio: e realmente, se si osserva il riflesso condizionato con cui i nostri intellettuali, nella stragrande maggioranza, reagiscono con fastidio, con ironia, con scherno, a qualsiasi discorso sul divino, più o meno come reagisce il Diavolo quando lo si spruzza, nel rito dell’esorcismo, con l’acqua benedetta, vien da pensare che ci sia qualcosa di più di una semplice disaffezione, di un semplice allontanamento.
Quando ci si allontana dal proprio padre, non è poi escluso che si sia presi dalla nostalgia di ritornare, come illustrato dalla parabola del figlio prodigo; per questo motivo non è la rivolta, non è la bestemmia, non è il patto faustiano col Diavolo, a preoccupare veramente chi abbia a cuore la sussistenza del legame con il divino, considerandolo come il necessario completamento della autentica umanità: chi si ribella potrebbe ricredersi e chi bestemmia, a suo modo continua a credere; perfino chi vende l’anima al Diavolo potrebbe avere un soprassalto di pentimento, perché, se ha creduto nel Diavolo, domani potrà tornare a credere anche in Dio.
No: ciò che è allarmante, ciò che è un segno carico di minaccia, è quel sistematico atteggiamento di ripulsa, di disdegno, di irrisione, con cui l’uomo moderno, e specialmente la categoria-simbolo degli intellettuali (i primi ad abbracciare ogni nuovo credo e i primi, ancora, nel gettarlo alle ortiche, quando ne giungerà un altro: l’importante, per essi, è non trovarsi mai fra gli ultimi, non essere mai nella scomoda posizione della retroguardia), guardano, se pure vi guardano, alla categoria del divino; e, più d’ogni altra, al divino così come l’hanno ricevuto dai propri antenati, dai genitori o dai nonni: il divino della religione cristiana, cattolica e romana.
Verso altre forme di religiosità sono più tolleranti, o, almeno, concedono loro un minimo di rispetto formale; ma quando si parla di Dio Padre, di Gesù Cristo e dello Spirito Santo, immancabilmente un ghigno di sufficienza o un moto d’impazienza appaiono sui loro volti e nei loro gesti; come se volessero dire: «Ancora con queste insulse chiacchiere? Ancora con queste favolette per bambini, che hanno tenuto addormentati e schiavi gli uomini, per secoli e secoli? E via, basta: cerchiamo di essere seri, mostriamoci persone intelligenti ed evolute!».
Dio è morto, dunque, come diceva Nietzsche; e lo abbiamo ucciso noi: ma perché l’abbiamo fatto? Non bastava che il figlio se ne andasse di casa, magari sbattendo la porta? Non era sufficiente che se ne andasse per la sua strada, facendo ogni cosa a suo grado e vivendo la sua vita, senza preoccuparsi di quello che il Padre gli aveva insegnato e raccomandato? Perché ucciderlo, perché irriderlo, perché compiacesi del parricidio?
Si è voluto mettere un altro Dio sul suo trono rimasto vuoto: il Dio del Progresso, il Dio della scienza e della tecnica, il Dio del possesso, del denaro e del piacere; e va bene. Ma c’era bisogno di infierire contro il vecchio Dio; c’era bisogno di insultarlo, di levare la mano contro di lui, di assassinarlo, di deriderne e sbeffeggiarne la memoria? Non bastava lasciar vuoti i suoi templi, lasciar deserte le sue cerimonie? Non gli si poteva accordare il diritto di godersi una modestissima pensione in qualche angolo dei suoi domini d’un tempo, come il vecchio re Lear aveva chiesto alle sue ingrate figliole, quando accondiscese ad abdicare?
Evidentemente no, non bastava; era necessario macchiarsi le mani del suo sangue, compiacersi di averlo trucidato, seppellito; e, oltre a ciò, seguitare a disprezzarne la memoria: e per quale altra ragione, se non perché l’uomo moderno non vuole sentirsi rivolgere la tremenda domanda: «Dov’è tuo fratello?», domanda che lo costringerebbe a mettersi sulla difensiva e a rispondere con un’altra domanda, carica di cattiva coscienza: «Sono forse il custode di mio fratello?».
Per potersi lavare le mani da ogni responsabilità verso il proprio fratello, è necessario farla finita col Padre: perché il Padre, se rimane in vita, continuerà sempre a domandarci: «Che ne è di tuo fratello?», gettandoci inesorabilmente nel rimorso; perché nostro fratello non c’è più, lo abbiamo assassinato, pazzi d’invidia e di gelosia; ce ne siamo sbarazzati, dal momento che egli ci faceva ombra, limitava il nostro ego con il solo fatto di esserci, di esistere.
Noi non riconosciamo più fratelli, del resto: gli uomini, per noi, sono tutti dei nemici, se non fattivamente, almeno potenzialmente; gli altri sono l’impedimento, sono l’ostacolo alla nostra realizzazione; sono ciò che resiste ai nostri disegni di dominio, sono ciò che limita la nostra libertà: gli altri, per dirla con Sartre, sono l’inferno. E noi, per non dover vivere all’inferno, siamo diventati moralmente simili a Caino, accarezziamo l’idea di toglierci di torno, per sempre, il nostro fratello Abele, sì da non dover più subire l’ombra che, vivo, ci dava.
E se non abbiamo abbastanza fegato da ucciderlo materialmente, cerchiamo di assassinarlo spiritualmente: con la maldicenza, con la calunnia, con le insinuazioni, con i raggiri, con i pugnali della cattiveria e con le spade della grossolano indifferenza, o del disprezzo, o del rifiuto; ci sono molte maniere per ammazzare, anche senza sporcarsi le mani di sangue.
Lo si può spingere alla disperazione, per esempio; e, da lì, lo si può indurre al suicidio: il passo è breve. Oppure lo si può uccidere moralmente, lo si può seppellire e dimenticare mentre è ancor vivo, lo si può rimuovere dai nostri pensieri e dalla nostra responsabilità, magari mettendo avanti cento ragioni pretestuose, cento meschine giustificazioni; l’ipocrisia fa più vittime della spada e in modo non meno crudele, anche se evita l’effusione del sangue.
Freud pensava che sia stato il desiderio di fare l’amore con la madre a spingere i giovani maschi dell’orda primitiva (?) ad assassinare il padre: una ipotesi che, per il suo alto quoziente di perversione sessuale, è molto piaciuta ai moderni, pubblico e studiosi, a dispetto della sua palese assurdità; fa niente, dato che è lo stesso freudismo ad avere così potentemente contribuito all’erotizzazione esasperata dell’immaginario moderno: classico esempio di come si possa ottenere un ampio consenso su una teoria cervellotica e indimostrabile, dopo aver “lavorato” a sufficienza sulla sensibilità di coloro che dovrebbero giudicarla e, in teoria vagliarla criticamente; o, in altri termini, classico esempio di come un determinato sistema culturale riesca ad auto-riprodursi indefinitamente.
A noi sembra molto più semplice pensare che il desiderio del parricidio sia nato dall’egoismo, dall’indifferenza e della cattiveria nei confronti del proprio fratello: perché un padre non smetterà mai di chiedere che fine abbia fatto suo figlio, quando non lo vede più; e a nessuno piace sentirsi rivolgere una domanda de genere, se sa fin tropo bene che fine abbia fatto il proprio fratello, ma non possa né voglia confessarlo.
La religione del Progresso, che, a partire dl XVIII secolo, ha sostituito vittoriosamente la religione di Dio Padre, non ci domanda, né mai ci domanderà che fine abbia fatto nostro fratello: ad essa non importano i singoli individui, non importa nemmeno l’umanità nel suo insieme: le basta riempirsi la bocca con le grandi e fatidiche parole della libertà, della fraternità e dell’uguaglianza; dopo di che, i singoli importano poco, li si può imprigionare, ghigliottinare, affogare, fucilare: è sufficiente farlo in nome di un più grande futuro, della Giustizia futura, della Felicità futura, e qualunque orrore diventa lecito, sopportabile e perfino encomiabile.
Non è stato in nome della Libertà che la testa del governatore de Launay è stata portata in cima alle picche per le vie di Parigi, il 14 luglio 1789? E non è stato per amore della Giustizia che la delicata e bellissima principessa di Lamballe, l’amica di Maria Antonietta, è stata violentata, sventrata, squartata, da una folla ardente di sacro zelo rivoluzionario? Non è stato in nome della civiltà e del progresso che sono stati sterminati gli Amerindi, che sono state distrutte le loro culture, che si sta mettendo a ferro e fuoco l’equilibrio ecologico del nostro pianeta? Non è stato per salvare un milione di vite umane che furono gettate le due bombe atomiche sui Hiroshima e Nagasaki; non è per amore della scienza che si torturano e si vivisezionano milioni di animali?
Per il seguace della religione del Progresso, l’altro è un fastidio; il fratello non è tale, mai, nemmeno in senso biologico, perché esistono solo possibili rivali o possibili strumenti manipolabili ai nostri fini.
Riconoscere nell’altro un fratello, significa riconoscere che egli è qualcosa per noi e, al tempo stesso, che è qualcosa in se stesso; che la sua esistenza non ci è indifferente, che non possiamo totalmente disinteressarcene.
Avere un fratello e riconoscerlo come tale, significa assumersi una responsabilità morale e, talvolta, materiale nei suoi confronti; significa riconoscere che il nostro destino è legato al suo, che un filo rosso ci tiene uniti, nella buona e nella cattiva sorte.
Significa anche che non possiamo vivere solo per noi stessi, che non possiamo considerarci autosufficienti, anche se possiamo esserlo sotto il profilo economico e giuridico; che il farci carico dell’altro è anche un farci carico di noi medesimi, della nostra parte essenziale.
Senza dubbio questo implica un impegno, una sollecitudine, una fatica - e, per giunta, una fatica non sempre gratificante, perché non è detto che il nostro fratello ci renderà bene per bene; forse ci renderà male per bene, cercando di mordere la mano con cui avremo voluto fargli una carezza; forse litigherà con noi, andrà dagli avvocati e ci trascinerà in tribunale, ingiustamente, per impadronirsi dell’intera eredità paterna.
Forse egli sarà realmente sgradevole, o molesto, o addirittura ostile nei nostri confronti: un fratello è quello che è, ci piaccia o meno; non lo si può scegliere, non lo si può ordinare su misura, secondo i nostri desideri e le nostre aspettative.
Ed ecco che sale, dalle profondità del nostro egoismo, il desiderio di spogliarci di una tale responsabilità, di disconoscere una simile parentela: infine, dove sta scritto che l’altro è mio fratello (o mia sorella)? Perché mai dovrei sentirmi legato alla sorte dell’altro, dello sconosciuto; perché dovrei permettere che mi si carichi un simile fardello sulle spalle, come si carica la soma sul basto di un asino?
È vero; non sta scritto da nessuna parte; tranne che nella Scrittura. Nessuno me lo insegna, tranne Dio Padre, per il quale sono figli tutti gli uomini, anzi, tutti gli esseri viventi - ed ecco perché anche nell’animale dovrei vedere, per quanto possibile, non solo un casuale compagno di strada, non solo un viandante del medesimo pellegrinaggio, ma un fratello.
Se Dio Padre veglia su tutti, se fa sorgere il sole sui giusti e sugli ingiusti, è perché siamo tutti suoi figli; e se siamo tutti suoi figli, allora siamo anche tutti fratelli, che ci piaccia o no, che ci pensiamo o no, che lo vogliamo o no.
Avere lo stesso padre, significa essere fratelli: è chiaro, è evidente. Ma forse è proprio per questo che abbiamo voluto uccidere il Padre: perché ci infastidiva l’idea di questa fratellanza, ci irritava e ci ostacolava l’obbligo di responsabilità che direttamente ne scaturisce.
E forse è proprio per questo che abbiamo scelto la religione del Progresso per sostituire la religione del Padre: perché essa non ci chiede conto del fratello, anzi, in molti casi ci autorizza e ci sospinge a levare la mano contro di lui, a scacciarlo dalla nostra strada.
Con la scusa di servire il progresso, in realtà, noi serviamo le nostre più basse passioni, il nostro egoismo, la nostra cupidigia; e, per non doverlo fare con cattiva coscienza, per anestetizzare il senso di colpa, ci siamo fabbricati questo nuovo dio da adorare, il Progresso, che è solo un vuoto feticcio, un idolo rimbombante: un dio molto comodo, visto che non ci domanda nulla, anzi incoraggia il nostro naturale egoismo, la nostra istintiva cupidigia.
E tuttavia è un dio assai più esigente e crudele di quel che non paia a prima vista, perché esige sacrifici umani (e animali) senza posa, che ci rendono impercettibilmente suoi schiavi, un sacrificio dopo l’altro, un delitto dopo l’altro. Se dieci operai devono morire per costruire una diga, è un sacrificio necessario; se mille persone, o diecimila, o centomila, devono morire sotto le ruote delle automobili e dei camion, è il Progresso che lo vuole; se una centrale atomica, come quelle di Cernobyl o Fukushima, provocano la malattia e la morte di un numero imprecisato di esseri viventi, è il prezzo del Progresso; e se migliaia di bambini nasceranno malformati in seguito a una vaccinazione obbligatoria, anche quello è un sacrificio dovuto, offerto sull’altare del Progresso…
di Francesco Lamendola - 06/02/2012
Fonte: Arianna Editrice [scheda fonte]
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