Sono
passati 30 anni da quando, il 18 giugno 1982, Calvi fu trovato morto
sotto il ponte dei Frati Neri a Londra, con le tasche zeppe di sassi e
15mila dollari addosso. Trent’anni e una serie di sentenze tutte senza
colpevoli e con un’unica reale verità giudiziaria: Calvi fu ucciso. Due
le cose centrali che la verità giudiziaria non mette in discussione: che
Calvi fu assassinato e che «Cosa Nostra impiegava in Banco Ambrosiano e
lo Ior come tramite per massicce operazioni di riciclaggio». Ior,
passaggi oscuri di denaro, lotte di potere. A decenni di distanza la
vicenda del «banchiere di Dio», Roberto Calvi, rivela assonanze con il
presente e allo stesso tempo restituisce una vicenda ben più tragica e
complessa.
È del 17 novembre 2011 la decisione della Cassazione di non
riaprire il processo per omicidio a carico del mediatore d’affare Flavio
Carboni (finito di recente nell’inchiesta P3), del cassiere della mafia
Pippo Calò e di Ernesto Diotallevi, ritenuto vicino alla banda della
Magliana. Quindi, a meno che non emergano nuovi, cogenti elementi di
prova, la vicenda processuale è chiusa. Il mistero, però, resta.
Intatto. Da Sindona a Licio Gelli a Marcinkus, la storia di Calvi si
intreccia con quella di altri personaggi-chiave che hanno popolato gli
intrighi italiani. Quando arriva al Banco Ambrosiano non ha ancora 30
anni. Rapidamente scala posizioni, fino ad arrivare a ricoprire ruoli di
vertice agli inizi degli anni ’70. Nel 1975 diventa presidente di
quello che è l’istituto della finanza «bianca» in stretta relazione con
lo Ior, la «banca» vaticana allora guidata dall’arcivescovo Paul
Marcinkus. Lo stesso anno conosce Licio Gelli ed entra nella P2. Una
mossa che si rivelerà esiziale: pochi anni dopo, sarà proprio l’emergere
dello scandalo legato alla loggia massonica e a suoi addentellati con
il mondo della politica e dell’economia a travolgere l’Ambrosiano,
rimasto senza «protezione»: un crack da circa mille miliardi di lire.
Scricchiolii legati a irregolarità e problemi di bilancio cominciarono a
manifestarsi già alla fine degli anni ’70. Ma È nel 1980 che l’istituto
di credito deve affrontare una vera e propria crisi, tamponata con i
finanziamenti arrivati da Bnl e Eni: per ottenerli, Calvi versò tangenti
al Psi. L’anno dopo scoppia il caso P2 e il banchiere, il 21 maggio,
finisce in manette. I suoi tentativi di trovare una sponda in Vaticano e
allo Ior finiscono nel vuoto. Messo in libertà provvisoria in attesa
del processo, cerca aiuti ed entra in contatto con il finanziere Flavio
Carboni, considerato in rapporti con Pippo Calò. E proprio Carboni è un
personaggio chiave della sua fuga e dei suoi ultimi giorni di vita: il 9
giugno 1982 Calvi lascia Milano e a Roma incontra Carboni. Poi si
sposta a Venezia, a Trieste, passa in Jugoslavia e da qui in Austria,
incontra nuovamente Carboni al confine con la Svizzera e parte per
Londra. È il 15 giugno 1982. Tre giorni dopo viene trovato impiccato
sotto il Blackfriars Brigde. In un primo momento si prova a far passare
la tesi del suicidio, sia a Londra, sia a Milano, nella prima indagine
avviata. Ma ben presto si capisce che le cose non quadrano: spuntano
nuovi elementi e il caso viene riaperto a Roma, questa volta per
omicidio volontario e premeditato. Nel 1997 viene emessa un’ordinanza di
custodia cautelare per Pippo Calò e Flavio Carboni, accusati di essere i
mandanti dell’omicidio. Il processo inizia il 5 ottobre 2005 e oltre a
Calò e Carboni, vede imputati con l’accusa di omicidio Ernesto
Diotallevi, l’ex contrabbandiere Silvano Vittor, che avrebbe aiutato
Calvi a espatriare, e Manuela Kleinszig, ex compagna di Carboni. Perchè
Calvi fu ucciso? Secondo l’accusa, rappresentata dai pm Luca Tescaroli,
Maria Monteleone e Francesco Verusio, «per punirlo di essersi
impadronito di notevoli quantitativi di denaro appartenenti alle
organizzazioni criminali» Cosa Nostra e Camorra, recitava il capo di
imputazione. Ma il verdetto della sentenza, il 6 giugno 2007, decretò
l’assoluzione di tutti gli imputati, stabilendo però che quello di Calvi
fu un omicidio. Un’impostazione che, di fatto, si mantenne anche nella
sentenza di appello, pronunciata il 7 maggio 2010. Il 22 dicembre
successivo Tescaroli presentò ricorso in Cassazione. Il pm è sempre
stato convinto del ruolo di Carboni nella vicenda: «La soppressione del
banchiere avrebbe assicurato a Carboni l’impunità per i delitti di
bancarotta del Banco Ambrosiano e di riciclaggio in cui è risultato
coinvolto», scrive nel ricorso. Ma il 17 novembre 2011 la Suprema Corte
ha detto ’nò a una riapertura del processo. Sostanzialmente perchè, come
emerge della motivazioni, nei confronti degli imputati emerge un quadro
indiziario e difettano prove certe.
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