Karl
Rahner e Jacques Maritain sono stati i “cattivi maestri” del Concilio
Vaticano II, cioè coloro che, sotto le vesti di una dottrina
apparentemente cattolica, hanno introdotto nella Chiesa gravi errori e
deviazioni teologici, aprendo la strada a inammissibili commistioni e
cedimenti verso le ideologie moderne, specialmente il marxismo, e
provocando confusione e disorientamento nelle coscienze e nella vita
ecclesiale?
Rahner, chiamato al Concilio da
Giovanni XXIII come esperto e divenuto personaggio-chiave di esso,
insegnava che la teologia deve compiere una “svolta antropologica” che, a
parere di alcuni, implica una vera e propria antropologizzazione del
cristianesimo, cioè una sua chiusura in senso soggettivistico: non per
nulla vi era il criticismo kantiano alla base di tale svolta. Inoltre
sosteneva che, in nome della giustizia sociale, cristiani e marxisti
dovevano unire le loro forze per il comune riscatto dell’uomo dallo
sfruttamento.
Maritain,
dal canto suo, ascoltatissimo da Paolo VI, con la proclamazione di un
“umanesimo integrale”, sosteneva che le “schegge impazzite” della verità
cristiana, presenti in altre ideologie di tipo laico, prima fra tutte
il marxismo, non cessano di contenere un potenziale positivo e che con
tali frammenti di verità la Chiesa può e deve dialogare per costruire un
cristianesimo che accolga ogni fermento vitale presente nella società:
cosa che a molti è sembrata un clamoroso abbaglio (perpetuato dal
discepolo di Maritain, Emmanuel Mounier), poiché le “schegge impazzite”,
proprio perché tali, non possono considerarsi frammenti di verità
suscettibili di un recupero positivo, ma tendenze unilaterali del
pensiero che conducono fatalmente ad un vero e proprio stravolgimento
etico.
Entrambi, dunque,
subivano, in misura non trascurabile, il fascino dell’ideologia
marxista, di cui non avevano affatto riconosciuto la natura non solo
atea, ma profondamente anti-umana, se specifica della natura umana (e un
filosofo cattolico dovrebbe saperlo) è proprio l’esigenza della
libertà, nonché l’apertura alla trascendenza e all’assoluto; ed
entrambi, con il peso del loro prestigio e con l’influenza culturale che
erano in grado di esercitare sul mondo cattolico - Rahner più a livello
di élite, Maritain più a livello di pubblico medio -, anche mediante la
fiducia pressoché incondizionata da parte dei due pontefici del
Concilio, impressero una svolta decisiva che venne salutata dal clamore e
dal favore forse non casuali dei grandi mezzi d’informazione, allora
come oggi quasi interamente controllati da gruppi e forze tutt’altro che
cristiani.
E allora, le
domande che non cessano di tormentare la coscienza di molti cattolici,
in questo quasi mezzo secolo che è trascorso dal Concilio Vaticano II,
sono se la Chiesa, per “andare incontro al mondo”, come allora si usava
dire, e per “uscire dalla trincea in cui s’era rinchiusa” (come
sosteneva Karl Rahner), non sia venuta un po’ troppo a compromesso con
ciò che cristiano non è; e se, con la ricerca, pur giusta, del dialogo
con l’altro, non abbia svenduto non solo una parte del proprio
patrimonio ideale, il che sarebbe ancora un male rimediabile, ma della
stessa verità cristiana, che, per definizione, è eterna e inalterabile e
non può seguire mode passeggere o aggiornamenti estemporanei, senza
tradire se stessa e quanti vi credono.
Allorché, per esempio, voltate le spalle al tabernacolo con il Santissimo, il sacerdote, durante la messa, si
rivolge ai fedeli e interloquisce con essi come in una assemblea laica,
si è rinunciato solo alla forma della liturgia tramandata dalla
tradizione, o si è abdicato anche al contenuto? Quando lo “scambiarsi il
segno di pace” sembra diventare il momento centrale della messa, in
luogo della Elevazione, siamo ancora in presenza di un rito
autenticamente, ispiratamente religioso, oppure di un rito mondano,
dignitoso finché si vuole, ma spogliato della trascendenza?
Non
è solo questione del latino o del canto gregoriano - questione,
peraltro, non certo da poco, come la si è voluta presentare - e non è
solo questione di dialogare con i non cristiani e con i non credenti: il
punto è se tale dialogo debba avvenire sul piano della specificità di
ciascuno o su quello di una confusione che mescola e confonde tutto e
se, inoltre, debba richiedere necessariamente il sacrificio di secoli e
secoli di tradizione, quasi che questa fosse una zavorra inutile e non
una modalità di vivere la fede che è divenuta sostanza, perché sentita,
approvata e fatta propria da innumerevoli generazioni di credenti, nelle
quali erano presenti sia teologi e filosofi di altissima levatura, sia
umili uomini e donne che non leggevano libri, ma crescevano le loro
famiglie in una autentica dimensione religiosa.
Alcuni
si domandano, pertanto, se, con il Concilio Vaticano II, la Chiesa non
abbia venduto la propria primogenitura, come Esaù, in cambio di un
piatto di lenticchie e se, affidandosi con troppo abbandono alle teorie
di alcuni teologi ansiosi di “recuperare il tempo perduto” e di
“modernizzare” la cultura e la pratica cattoliche, non abbia sacrificato
una parte del tesoro eterno che custodiva, confondendo i tempi della
storia con quelli dell’eternità e permettendo che molti fedeli
perdessero - sia pure, all’inizio, senza rendersene conto - la
consapevolezza ciò che di specifico ed essenziale vi è nella dimensione
cristiana: che non è, genericamente, la coscienza dell’amore di Dio per
l’uomo, ma la Buona Novella dell’amore divino che s’incarna e si fa
storia, pur rimanendo al di sopra della storia, come dice l’evangelista:
«e il Verbo si fece carne, e abitò fra noi».
Dunque:
Rahner e Maritain sono stati, in questo senso, dei “cattivi maestri”,
anche se gran parte del danno è stato fatto non da loro, ma da una
semplificazione delle loro tesi, sistematica e interessata, che i mezzi
d’informazione laici hanno fatto di esse e che, ahimè, spesso è stata
avvalorata e tramandata perfino da libri e periodici di ispirazione
cattolica?
È la tesi,
fra gli altri, dello scrittore cattolico Eugenio Corti, universalmente
noto come autore della trilogia romanzesca «Il cavallo rosso» e
apprezzato da molti per la sua schiettezza e mancanza di artificiosità
diplomatiche; doti che, se lo hanno praticamente escluso dal giro della
grande editoria (perfino da quella di ispirazione cattolica!) e tenuto
sotto traccia dall’establishment della critica letteraria oggi
dominante, in compenso gli hanno guadagnato il rispetto e la stima di
quanti, cattolici o no, non amano i facili compromessi e preferiscono
dire pane al pane e vino al vino.
Riportiamo
un significativo passaggio della monografia di Paola Scaglione «I
giorni di uno scrittore. Incontro con Eugenio Corti» (Milano, Maurizio
Minchella Editore, 1997, pp. 121-22):
«Il
Vaticano II e le sue conseguenze costituiscono un tema ricorrente negli
scritti di Corti, che del Concilio non è rimasto spettatore distaccato.
Il tempo della sua piena maturità lo ha visto appassionato testimone
dell’evento che ha cambiatola fisionomia della chiesa nel ventesimo
secolo. A distanza di trent’anni, come giudica quest’uomo di solida fede
quel tentativo di rinnovamento?
Eugenio
corti riflette a lungo. Dagli occhi traspare - è appena l’ombra di un
ricordo - il senso di attesa generato da quell’avvenimento e insieme,
ancora viva, l’amara incredulità per quanto è accaduto. Poi tentenna il
capo: Certamente lo Spirito era presente al Concilio: questo noi siamo
tenuti a crederlo. Il guaio è stato che la conoscenza di quanto si
discuteva e si decideva in quelle riunioni veniva trasmessa al pubblico
da mass media di impostazione laicista: questi, per raccogliere le
notizie, utilizzavano non tanto ciò che dicevano i Padri conciliari,
quanto i discorsi di certi loro consiglieri esterni al Concilio, tra i
quali imperversava la visione della storia proposta da Maritain. In tal
modo i semplici fedeli non sono arrivati a ricevere direttamente i
frutti del Concilio, e il popolo cristiano ha subito una massiccia
irruzione di modernismo”.
Per
lo scrittore, all’inizio della confusione c’è l’adesione acritica di
troppi alle teorie del filosofo francese Jacques Maritain, alla sua
visione di una “nuova cristianità”, che avrebbe dovuto comprendere anche
i comunisti e i laicisti a motivo delle verità, delle virtù e dei
valori cristiani (sia pure “impazziti”, cioè capovolti) presenti nel
loro bagaglio culturale.
Ricorda:
“Già negli anni precedenti il Concilio, la cultura cattolica giovanile
aveva preso una ‘cotta’n straordinaria per le idee contenute nel famoso
libro “Umanesimo integrale” di Maritain (personaggio che lo stesso Paolo
VI vedeva con molta simpatia). È da lì che sono nati i guai nel popolo,
mentre in parallelo, nell’ambito della teologia,l i guai sono nati
dalla predicazione di personaggi come Karl Rahner, invano contrastati dal filosofo padre Cornelio Fabro.
Le
conseguenze di tali sbandamenti, secondo Corti, sono tuttora operanti
tra i cristiani: “Dopo che diverse persone sono insorte per sbarrare la
strada a tutti quegli errori, il mondo della cultura cattolica si è
spaccata in due: purtroppo la parte deteriore è sostenuta dalla
generalità dei mass media (che non sono in mano ai cristiani e hanno una
eroe risonanza). È evidente che questa frattura non può essere superata
conciliando a forza due realtà che non possono convivere. Chi ne ha
l’autorità deve pronunciarsi in modo chiaro per un ritorno alla
coerenza.»
Questa,
dunque, la tesi di Eugenio Corti; non è detto che la si debba
condividere, ma è doveroso chiedersi se è essa sia fondata, storicamente
e teoricamente, oppure no; e, per chiederselo, non è necessario
condividerla e neppure, riteniamo, essere cattolici, ma semplicemente
essere liberi da pregiudizi e disposti a riconoscere la coerenza e la
linearità del pensiero altrui.
Noi
siamo dell’avviso che essa contenga un nucleo di verità che ci sembra
difficile mettere in discussione; e la cosa appare certo più evidente
oggi, che, a quasi cinquant’anni di distanza, certe passioni si sono
smorzate, di quanto non lo fosse allora, quando soffiavano fortissimi i
venti ideologici che sarebbero sfociati, di lì a poco, nella stagione
del ’68.
Era la stagione
in cui molti preti, don Milani compreso, facevano propria l’analisi, il
linguaggio e lo stesso atteggiamento mentale dei marxisti, riguardo
alle questioni sociali; in cui molti seminaristi sognavano Che Guevara e
Camilo Torres; in cui i cosiddetti preti operai, peraltro assai bene
intenzionati, nel loro sforzo di portare Cristo dentro le fabbriche si
lasciavano sedurre da schemi ideologici che nulla hanno a che fare con
il cristianesimo e confondevano il piano della fede con quello della
politica militante e arrabbiata; in cui, per farla breve, una buona
parte del mondo cattolico viveva un autentico complesso di inferiorità
nei confronti della cultura marxista, rispetto alla quale si sentiva
responsabile di quietismo e di attendismo.
Il
marxismo, dopo la seconda guerra mondiale, appariva circonfuso di
gloria: era stata l’Unione Sovietica, più di qualunque altra nazione, a
distruggere il drago nazista; erano stati i Sovietici a liberare
Auschwitz; mentre Pio XII aveva “taciuto” davanti al genocidio degli
Ebrei, così come la Chiesa cattolica continuava a tacere davanti a tante
violenze e a tante ingiustizie. Il patto fra Hitler e Stalin, in questo
quadro ideologico, veniva semplicemente rimosso; così come venivano
rimossi i “gulag” sovietici, nei quali erano morte più persone che nei
“lager” nazisti; così come veniva taciuto, o minimizzato, l’apporto
decisivo del “timido” (o peggio) Pio XII alla salvezza di migliaia di
Ebrei romani, italiani ed europei.
È
comprensibile che molti cattolici, anche in buona fede, abbiano subito
un tale ricatto ideologico, si siano vergognati là dove non c’erano
ragioni di vergogna, abbiano cercato di stabilire un dialogo e perfino
una collaborazione con il marxismo, ideologia benemerita che aveva fatto
così progredire le sorti dell’umanità, di contro a secoli di
immobilismo cattolico o, peggio, di collaborazionismo con i poteri
tirannici della politica e dell’economia; anche se va detto che la
confusione colpì in misura assai maggiore gli intellettuali, i filosofi,
i teologi, in parte lo stesso clero, che non la massa dei laici, ossia
delle persone comuni (benedetta superbia di chi ha letto molti libri e
può sfoggiare numerosi diplomi di laurea!).
Un
po’ meno comprensibile, forse, è che chi ha avuto quasi cinquant’anni
di tempo per riflettere su quella ubriacatura, non sia stato capace di
smaltirne i fumi. Oggi una buona parte della cultura cattolica non solo
non ha fatto ammenda di quell’abbaglio, ma continua a menarne vanto. Un
esempio per tutti, la rivista «Rocca» della Pro Civitate Christiana di
Assisi: verbosa, supponente, smaccatamente autoreferenziale e tuttora
infatuata di cattivi maestri come Giulio Girardi, fondatore dei
“Cristiani per il socialismo” e antesignano della teologia della
liberazione.
Se poi,
dalla cultura, passiamo alla politica, possiamo vedere facilmente che i
sedicenti sostenitori del pensiero sociale cattolico sono, ancora e
sempre, i figli e i nipoti di quella generazione, di quelle ambiguità,
di quei clamorosi abbagli; i quali, senza aver mai fatto la minima
autocritica, portano avanti, in pieno terzo millennio, lo stesso disegno
di allora: una sorta di catto-comunismo più o meno mascherato (ma
neanche troppo). Come se la soluzione che, già allora, si dimostrò
disastrosa e fallimentare, potesse andar bene oggi, in una realtà
politico-sociale tanto più ardua e complessa…
Nessun commento:
Posta un commento
Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.