La
pubblicistica cattolica è ormai talmente vasta che non si riesce a star
dietro neanche ai documenti ufficiali del Magistero, figuriamoci poi
agli scritti di questo o di quello. Ci è capitato di leggere, per
sollecitazione di un caro amico, un libro del prete modernista
Gianfranco Ravasi (Il racconto del cielo…, Mondadori, Milano 1995), lo
stesso prete che, cresciuto alla scuola di Carlo Maria Martini,
Arcivescovo di Milano morto, si dice sappia tutto, o quasi, circa il
modo di leggere e di comprendere la Bibbia (per 2.000 anni la Provvidenza avrebbe mentito e aspettava Ravasi sic!).
Questo infatti gli fanno fare alla facoltà teologica dell'Italia
settentrionale, e per questo lo hanno chiamato a far parte del
Pontificio Istituto Biblico.
Questo suo libro è nell'intenzione
dell'autore, una sorta di guida per poter leggere e comprendere il
Vecchio Testamento, guida che colmerebbe una lacuna in àmbito cattolico,
quella lacuna che avrebbe impedito, soprattutto ...
... agli Italiani di questi due ultimi millenni, di
leggere e comprendere il Vecchio e il Nuovo Testamento (cfr.
l'Introduzione).
Non è nostra intenzione esplorare gli impenetrabili
meandri del Ravasi-pensiero, anche perché non abbiamo tempo da perdere,
ci limiteremo invece a considerare qualche passo di questa "guide
bleue", come si compiace di chiamarla l'autore, al solo fine di
segnalare qualche esempio della dilagante eresia diffusa in seno ai
credenti dai novelli preti modernisti.
A pag. 138 e ss., troviamo una dotta disquisizione
circa i significati di "santo" e di "sacro"; dalla quale apprendiamo che
il sacro è prevaricatore dell'esistenza, che la visione sacrale è
tipica dei movimenti o delle ideologie integraliste, che il sacro,
mentre tutela la purezza del concetto e della realtà di Dio (che
l'autore sembrerebbe considerare una quisquilia), isola, rigetta e si
pone in tensione col profano. Apprendiamo anche che esiste un'accezione
del "santo", inteso in senso esistenziale e morale, talché la santità
non si isola, coesiste col profano, mentre il "santo" anima l'esistenza e
le realtà mondane senza annientarle.
Tralasciamo la lezione di etimologia fornitaci circa
il significato del termine ebraico qadosh (santo) e dei termini latini
sanctus e sacrum, per la quale invitiamo il Ravasi ad essere piú attento
nelle sue affermazioni, perché, forse con sua sorpresa, in giro c'è
anche gente che sa benissimo che non può confondersi il significato di
"santo" con quello di "sacro", come fa lui strumentalmente e
capziosamente. D'altronde, la sua supponenza è tale che egli si permette
di affermare che «la radice verbale QDSH [da cui l'ebraico qadosh], …
significa in prima istanza "separare", porre una frontiera tra l'area
del tempio e del palazzo reale e quella profana». Il Ravasi, nella sua
foga volgarizzatrice e dissacratoria, dimentica che c'è gente che sa
benissimo che al tempo della radice verbale QDSH, Israele, non solo non
aveva un tempio e un palazzo reale, ma addirittura era impedito ad
averli per precisa prescrizione divina, cosí che l'esegesi di Ravasi e
compagni si mostra per quella che è: un cumulo di deduzioni
semplicistiche e superficiali fondate sui pregiudizi della scuola
ateo-razionalista.
Facciamo invece notare subito, al Ravasi e ai suoi
dotti amici, che non è mai esistita e non potrebbe mai esistere una
realtà mondana o una realtà profana; tutto quello che si può dire circa
il profano e il mondano è che si tratta di una visione del mondo, di un
semplice punto di vista: il punto di vista dell'uomo che guarda alla
realtà dell'universo senza volgersi ad Dominum, cosí da illudersi che
l'universo stesso, come tale, abbia una sua autonoma realtà, per di piú
contrapponibile alla realtà delle cose divine, cioè delle cose sante e
delle cose sacre.
Si tratta dell'eresia manichea, con i suoi derivati e
consociati gnosticismi d'accatto; eresia che sembra si insegni oggi
nelle facoltà teologiche, grazie ai Martini e ai Ravasi.
Per rinfrescare la memoria ai modernisti, ricordiamo
che l'unica vera e autosufficiente realtà esistente a questo mondo e in
tutti gli altri mondi possibili e immaginabili è Dio, che è la Causa di
ogni realtà possibile e impossibile. Quindi ogni realtà umanamente
constatabile o ipotizzabile è tale solo perché trae tutta la sua
esistenza dal divino, senza il quale non potrebbe essere che un puro
niente. Non v'è nulla di profano a questo mondo: tutto è sacro. Quello
che invece si può dire è che l'uomo, in seguito alla caduta e a causa
della sua condizione di peccatore, non è in grado di vedere il sacro, il
divino, in ogni cosa, non è in grado cioè di riconoscere la reale
natura dell'esistente e il senso vero dell'esistenza: egli vive
nell'inganno e nell'illusione, e scambia la parte con il tutto, crede
che la realtà sensibile e relativa del mondo sia tutta la realtà,
confondendo la realtà umana con la realtà divina. Nella migliore delle
situazioni si giunge cosí all'idolatria e al panteismo.
Il profano è il risultato del punto di vista errato dell'uomo, non è una realtà a sé stante.
La grazia di Dio sopperisce a questa manchevolezza
dell'uomo, offrendogli gli strumenti del sacro, i soli che gli
permettano di guardare al mondo rivolgendosi a Dio, e senza i quali egli
rimarrebbe preda delle sue illusioni e delle sensazioni suscitate dal
mondo sensibile.
Quando Ravasi, credendo di offrire dei lumi, spiega
che «Il santo anima l'esistenza e le realtà mondane senza annientarle ma
lasciando loro consistenza»; non si rende conto che sta affermando che
il "suo" cosí decantato «santo inteso in senso esistenziale e morale» è
da ritenersi tanto piú meritevole per quanto piú mantenga gli uomini
nell'errore. Ma forse se ne rende conto, solo che per lui non si tratta
di errore, accecato com'è dai pregiudizi illuministici, laici e atei.
Infatti afferma (pp. 139-140) che è scorretto dissacrare «il sacro
secolarizzandolo» mentre è corretto desacralizzarlo «santificandolo,
storicizzandolo».
Da quest'ultima affermazione, un semplice esempio
della prosa "dotta" del Ravasi, si comprende come i personaggi come lui
siano interamente posseduti dal demone della superbia e della
supponenza, siano schiavi dell'impenitenza circa uno degli aspetti piú
perniciosi del peccato originale: cosí che per ogni affermazione
siffatta è come se si conficcasse un nuovo chiodo nella Carne del
Cristo.
Quindi: desacralizzare il sacro, storicizzandolo, è
cosa meritoria, a fronte dell'inaccettabile dissacralizzare,
secolarizzando. Come se storicizzare e secolarizzare non fossero la
stessa cosa! Evidentemente, per Ravasi, le cose stanno diversamente.
Vediamo come.
Lui dice: desacralizziamo il sacro (che vuol dire
togliamo sacralità al sacro) cosí da ottenere la sua santificazione. Il
che significa, innanzi tutto, che il sacro, secondo Ravasi non ha nulla
di santo. Da dove viene allora? È chiaro che per il Ravasi il sacro
viene dall'uomo e non dal Santo, tanto che, secondo lui, il sacro
finisce con lo scadere nel "sacralismo": allora, noi uomini moderni, del
tipo di Ravasi, che abbiamo capito tutto e che finalmente sappiamo
tutto, comprendiamo bene che basta desacralizzare il sacro per
santificarlo.
Cosí stando le cose, si tratterebbe di lasciar
sussistere ogni cosa cosiddetta profana per quella che è. Nel contempo,
storicizzando il sacro, cioè togliendo al sacro ogni sua ragion d'essere
che sta oltre la storia e il mondo, ecco che lo si santificherebbe,
togliendogli quell'elemento fastidioso che lo rende diverso dal profano.
Cosí ridotto, il sacro è reso pari al profano e da questa parità
scompare ogni conflitto: non occorre piú che il sacro ricordi al profano
la sua manchevolezza, la sua mancanza di Dio, la sua insufficienza; e
soprattutto non vi sarà piú niente di biasimevole nel profano che si
ritiene autonomamente, impropriamente e diabolicamente "santo". In altre
parole: basta togliere a Dio la perfezione per eliminare
contemporaneamente il peccato, se il sacro lo si santifica
storicizzandolo, il profano è pari al sacro e quindi è santo.
Evidentemente Nostro Signore non aveva ancora capito
che le cose potessero risolversi cosí facilmente. Meno male che adesso
abbiamo Ravasi e i suoi compagni!
Quando il Ravasi afferma che «il sacro isola, rigetta
e si pone in tensione col profano; si fa autosufficiente, tutto ciò che
non appartiene alla sua sfera diventa il male, il peccato, l'impuro;
suo sogno è quello di sacralizzare il maggior ambito possibile
(politica, cultura, società) cosí da porlo sotto la sua ferrea tutela»
(pag. 139), ci fa chiaramente capire che la sua funzione di prete che
amministra i sacramenti egli l'ha sempre svolta non credendo a una sola
parola di quanto recita sull'altare e di quanto proclama dall'ambone. Ci
spiega cioè che ogni sacramento da lui amministrato è invalido, e
primariamente il sacramento dell'Eucarestia, poichè egli lo amministra
con una intenzione diversa da quella della Santa Chiesa. D'altronde, per
uno che dà per scontato che il Vecchio Testamento è stato elaborato dai
sacerdoti di Israele, e che poi si permette di concludere le letture
della S. Messa con la formula "Parola di Dio", senza crederci
minimamente, il meno che si possa dire è che si tratta di un dissociato,
di uno schizofrenico, poiché diversamente si dovrebbe dire che si
tratta di un agente del Demonio.
Non è per pura polemica, ma portando alle estreme
conseguenze il ragionamento del Ravasi, che egli ovviamente presenta
come un dato scontato e indiscutibile, si giunge a questa assurda
conclusione: il male fa parte del mondo, è uno degli elementi che
compongono la "realtà profana", quindi il sacro può dirsi legittimo solo
se preserva tutta la natura del male, riuscendo a convivere con esso
senza intaccarne la consistenza, animandolo, addirittura, senza
assorbirlo.
Confessiamo di non aver mai letto di una eresia del
genere, che risulterebbe essere tutta nuova, ma forse non si tratta
nemmeno di una eresia, poiché, in fondo, anche le vecchie eresie erano
una cosa seria, seppur malvagia. Qui siamo di fronte alla pura
insussistenza che si spaccia per conoscenza, siamo al nulla che si
ammanta di sapienza. Non crediamo di essere eccessivi se diciamo che ci
troviamo di fronte ad un segno dei tempi, un segno che indica la marcia
forzata che muovono le orde dell'Anticristo per condurre l'abominazione
all'interno del Tempio.
Per finire, accenniamo solamente ad un altro passo da
cui si può comprendere un certo stile tutto moderno, lo stile che
caratterizza soprattutto la cosiddetta esegesi moderna. A pag. 36 il
Ravasi afferma: «Ma è noto che l'antropologia biblica non distingueva
cosí nettamente anima e corpo, materia e spirito.» Siamo informati cosí
di una verità accertata ed acclarata (è noto a chi?!). Prova ne è, dice
il Ravasi, che l'ebraico conosce i termini Ruah, Nefesh e Basar, e cioè i
termini corrispondenti a "spirito", "anima" e "corpo". Ora, o siamo del
tutto rimbecilliti o il Ravasi non sapendo come spiegare, con la sua
esegesi razionalista, il senso dei termini ebraici, liquida il tutto con
l'affermazione precedente: cioè con una chiara contraddizione, della
quale fa mostra perfino di compiacersi.
Se l'ebraico conosceva i termini corrispondenti a
spirito, anima e corpo, ne conosceva evidentemente anche i concetti e
quindi sapeva benissimo come distinguerli: esattamente l'opposto di
quanto affermato dal Ravasi con stolita supponenza. Non solo, ma,
sottolineiamo noi, dalle considerazioni che si possono trarre dal senso
dei tre termini ebraici citati, si evince la chiara concezione della
triplicità della costituzione dell'essere umano: spirito, anima, corpo;
conosciuta da tutto il mondo antico, ebraico compreso, e ben conosciuta
dalla Cristianità fino a dopo il Medio Evo (vedi nota); cosí da
escludere la semplicistica distinzione duale che va ormai per la
maggiore e che il Ravasi rivela come sua quando parla di anima e corpo,
prima, e materia e spirito, dopo.
Cosa possiamo concluderne?
Che, innanzi tutto, libri del genere non dovrebbero
nemmeno essere scritti; e non perché siamo degli integralisti e dei
fanatici del sacro, cosa che è vera, ma semplicemente perché la piú
elementare delle logiche esige che le sciocchezze non possano avere
diritto di cittadinanza se non nelle burle tra amici. Invece ci tocca
constatare che certi preti si sono messi a scherzare con i Santi,
convinti peraltro di essere nelle migliori disposizioni di spirito,
convinti di compiere interamente il proprio dovere davanti a Dio e
davanti agli uomini.
A questo punto potremmo anche parlare di azione
concordata per ridurre ai minimi termini la dottrina cristiana, la
Chiesa e la Religione, ma è nostro convincimento che non di questo si
tratti: se cosí fosse, basterebbe impedire a quelli come Ravasi (e ce ne
sono tanti) di nuocere, e senza neanche bisogno di ricorrere ad alcuna
inquisizione, né di accendere nuovi roghi, ma semplicemente impedendo
che, quanto meno, arrivino all'ordinazione sacerdotale. Il fatto è che
lo stato d'animo diffuso oggi giorno, e che informa ogni pensiero e ogni
azione, è tale che si producano fenomeni come questi senza che nessuno
possa farci niente; e questo, inevitabilmente, anche nel seno stesso
della Chiesa.
Occorrerebbe cambiare, fin nel piú profondo, la
condizione di spirito del mondo moderno; ma chi e come potrebbe
intraprendere un'opera siffatta?
I modernisti, i Ravasi-pensiero, i vescovi panteisti,
i preti filantropi sono il prodotto di una condizione "dei tempi", sono
anch'essi "segni dei tempi", non è corretto addebitare loro la causa
dello sfacelo odierno della Religione, essi sono le prime vittime della
corruzione dilagante. L'unica cosa che si può dire a loro carico è che
per svolgere la funzione negativa che svolgono è necessario che siano i
meno avveduti, i piú permeati di spirito di corruttela, in una parola
quelli in maggiore e migliore sintonia con la corruzione: a questo punto
non fanno nessuno sforzo per emergere, poiché affiorano spontaneamente e
si presentano come i piú idonei, oseremmo dire i "migliori". In tal
modo la corruzione si autoalimenta, senza che si debba ricorrere
minimamente a piani prestabiliti e ad azioni concordate.
Ora, in simili condizioni, come può collocarsi la Grazia di Dio?
Innanzi tutto, occorre ricordare che i primi ad usare
e ad abusare della possibilità dell'intervento imperscrutabile dello
Spirito sono proprio i modernisti, i quali, con la scusa che "lo Spirito
soffia dove vuole", pretendono di spacciare per interventi dello
Spirito Santo tutte le loro fin troppo umane iniziative, non
accorgendosi che l'approvazione che il mondo tributa loro dovrebbe, di
per sé, suscitare il piú grande sospetto, se non la ripulsa di queste
stesse iniziative.
In secondo luogo non è necessario supporre che
l'intervento dello Spirito Santo si debba sempre manifestare in
concordanza con le aspirazioni o con le aspettative umane, soprattutto
in termini di contingenza e di sviluppo storico (con buona pace degli
storicisti e dei progressisti); neanche se queste aspettative
scaturiscono dagli àmbiti che usiamo definire tradizionalisti.
In ultimo non bisogna mai perdere di vista che i
Vangeli sono costellati di ammonimenti che ricordano sempre: "Verranno
tempi in cui…", ammonimenti che non possono che riferirsi ad un
ineluttabile procedere della corruzione, esattamente come constatiamo
noi oggi, senza che questo possa far pensare al venir meno della Grazia
di Dio.
Piuttosto, il non prevalebunt dei Vangeli non bisogna
pensarlo in riferimento alla Santa Chiesa intesa, ancora una volta, in
maniera quantitativa; cioè intendendo per Santa Chiesa tutto l'insieme
dei Cattolici iscritti nei registri parrocchiali. Si tratterebbe dello
stesso errore che commettono i modernisti quando sognano un illusorio
ecumene cristiano in cui riunire tutti indistintamente coloro che
credono o addirittura sono semplicemente informati della venuta del
Cristo; costoro vaneggiano di un malinteso trionfo dei Vangeli perché
agognano di contare i cristiani per miliardi, anziché per milioni.
In verità, la Santa Chiesa è tale, in tutta la sua
completezzza, anche se i fedeli, quelli veri, sono una minoranza; poiché
la sua Santità non si misura con misura d'uomo, ma con misura divina,
talché una sia pur ridotta quantità di fedeli, ai quali corrisponda una
vera Santità, sarà sempre molto, ma molto di piú, di miliardi di
sedicenti cristiani del tipo di Ravasi e compagni.
Il non prevalebunt è riferito alla Santa Chiesa cosí
intesa, non a quell'insieme scomposto che sta preparandosi con il
novello ecumenismo, per mezzo del quale si giungerà certamente ad un
doppione dell'ONU, ad una sorta di parlamento delle religioni, che avrà
con Dio lo stesso rapporto che con Lui hanno gli attuali parlamenti del
mondo, cioè nessuno.
NOTA - Su tale questione, di notevole importanza,
avremo modo di soffermarci in altra occasione. Per il momento ci
accontentiamo di alcuni veloci rimandi: SAN GIOVANNI DELLA CROCE, Salita
al Monte Carmelo (in particolare i capp. 26 e 39 del libro 3); La Notte
Oscura (in particolare i capp. 2 e 23 del libro 2). SANTA TERESA
D'AVILA, Mansioni 7, capp. 1 e 2.
Giovanni Servodio
http://www.unavox.it/ |
Il Cardinale Ciappi, il teologo di papi, da Pio XII a Giovanni Paolo II (all’inizio del suo pontificato): “Il Terzo Segreto dice che la grande apostasia nella Chiesa inizia dal suo vertice. La conferma ufficiale del segreto de La Salette (1846): “La Chiesa subirà una terribile crisi. Essa sarà eclissata. Roma (il Vaticano) perderà la fede e diventare la sede dell’Anticristo “.
ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...
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