Il Papa e l’impossibile rivoluzione dell’ecclesia non reformanda
Ecco perché Francesco non cederà “allo spirito egalitario del liberalismo moderno”. Lo scrive il New Republic
“Provate a immaginare per un attimo un presidente democratico degli Stati Uniti appena eletto che per dare una sterzata progressista al paese è costretto a pescare i membri della sua Amministrazione solo tra le file del Partito repubblicano”. Un controsenso, una garanzia di sicuro fallimento, un’idiozia. E’ l’esempio che Damon Linker, ex redattore della rivista cattolica First Things e autore del saggio “The Theocons – Secular America under siege”, usa per spiegare in un lungo articolo sull’ultimo numero del New Republic (che alla novità rappresentata da Bergoglio dedica la copertina) perché Papa Francesco non riuscirà a cambiare la chiesa.
Francesco rivoluzionario pronto a cambiare tutto e subito? Sbaglia, chi pensa ciò. Il Papa regnante si trova infatti a governare un apparato sedimentato da “trentaquattro anni di forte conservatorismo teologico e dottrinale”, ed è da quella realtà che dovrà attingere i quadri dirigenti della nuova curia romana. Cardinali, vescovi e monsignori appartengono tutti a quello che i più entusiasti del cambiamento avvenuto lo scorso marzo al Soglio di Pietro definiscono l’ancien régime. Il fatto è, dice Linker, che “un Papa che volesse cambiare la chiesa cattolica dovrebbe farlo attraverso i processi e le procedure di questa istituzione, che per sua natura è votata a impedire tale ambizione”. E questo perché la chiesa ha tempi lunghi, ragiona non in termini di anni, di cicli elettorali come in politica, ma di secoli.
Le aspettative dei cattolici cosiddetti progressisti, “demoralizzati e marginalizzati nel corso degli ultimi due pontificati di Wojtyla e Ratzinger – andranno deluse, sentenzia sicuro Linker. Certo, “è naturale giudicare un uomo dalle auto che guida o nelle quali viaggia, specialmente quando capita che quest’uomo sia Papa. Jorge Mario Bergoglio ha sorpreso le autorità della chiesa e la stampa internazionale lasciando perdere la limousine messa a sua disposizione la sera dell’elezione, preferendo tornare a Santa Marta sul piccolo pulmino” insieme ai confratelli che poco prima l’avevano eletto successore di Benedetto XVI nel chiuso della Cappella sistina. E ora, aggiunge il commentatore, “la papamobile è diventata una Ford Focus”. Gesti di questo tipo sono continuati anche nelle settimane e mesi successivi, dalla scelta del nome Francesco al rifiuto di abitare nel palazzo apostolico, fino alla messa in Coena Domini del Giovedì santo celebrata nel carcere di Casal del Marmo – con tanto di “lavanda dei piedi a due donne, una delle quali musulmana, rompendo la tradizione che restringe il rito a uomini e in particolare a preti del Vaticano”.
La strenua difesa dell’ortodossia
Linker mette in fila tutte le novità portate a Roma dal gesuita preso quasi alla fine del mondo che amava girare Buenos Aires in metropolitana e che era solito prepararsi la cena da solo nel mini appartamento in cui aveva deciso di stabilirsi rifiutando il più ampio e comodo palazzo arcivescovile. Sono state, queste, “espressioni di modestia e umiltà percepite come uno choc da molti osservatori”, continua l’articolo del New Republic. D’altronde, né Giovanni Paolo II né il suo successore mai avevano detto durante l’Angelus domenicale che “vivere la fede non è decorare la vita con un po’ di religione, quasi fosse una torta che si decora con la panna”, come ha fatto Francesco nella sua più recente apparizione dalla finestra dello studio privato del Palazzo apostolico. Ma un conto è lo stile, la gestualità, l’essere costantemente alla ricerca del contatto con le folle, con i poveri e gli ultimi, altro è fare il rivoluzionario. Specie se la rivoluzione intesa da quei settori che Linker definisce progressiti non è altro che “l’uniformità della chiesa allo spirito egalitario del liberalismo moderno, che include l’abbraccio dei diritti omosessuali, la libertà sessuale e l’uguaglianza di genere”.
La strenua difesa dell’ortodossia
Linker mette in fila tutte le novità portate a Roma dal gesuita preso quasi alla fine del mondo che amava girare Buenos Aires in metropolitana e che era solito prepararsi la cena da solo nel mini appartamento in cui aveva deciso di stabilirsi rifiutando il più ampio e comodo palazzo arcivescovile. Sono state, queste, “espressioni di modestia e umiltà percepite come uno choc da molti osservatori”, continua l’articolo del New Republic. D’altronde, né Giovanni Paolo II né il suo successore mai avevano detto durante l’Angelus domenicale che “vivere la fede non è decorare la vita con un po’ di religione, quasi fosse una torta che si decora con la panna”, come ha fatto Francesco nella sua più recente apparizione dalla finestra dello studio privato del Palazzo apostolico. Ma un conto è lo stile, la gestualità, l’essere costantemente alla ricerca del contatto con le folle, con i poveri e gli ultimi, altro è fare il rivoluzionario. Specie se la rivoluzione intesa da quei settori che Linker definisce progressiti non è altro che “l’uniformità della chiesa allo spirito egalitario del liberalismo moderno, che include l’abbraccio dei diritti omosessuali, la libertà sessuale e l’uguaglianza di genere”.
No, Francesco su questo fronte non ci sente. Non si tratta di avanzare ipotesi su ciò che farà, sugli ordini esecutivi emanati dalla scrivania della suite 201 di Santa Marta nei prossimi mesi. Basta guardare indietro, alla biografia del gesuita che voleva partire missionario in Giappone nonostante quel problema al polmone che lo tormenta fin dalla giovinezza: “Quando Bergoglio è intervenuto sulla politica della chiesa riguardo le questioni sessuali e di genere, le sue posizioni non hanno sfidato l’ortodossia cattolica, e in molte occasioni le ha difese in modo strenuo”. Nel 2007 tuonò contro l’aborto paragonandolo alla pena capitale: “In Argentina abbiamo la pena di morte. Un bambino concepito a causa dello stupro di una donna con problemi mentali può essere condannato a morte”, disse Bergoglio. E tre anni più tardi, l’allora arcivescovo della capitale sudamericana definì il progetto “di legalizzare il matrimonio omosessuale come il totale rifiuto della legge di Dio scolpita nei nostri cuori”. Lessico ben poco diplomatico in cui non si scorgono aperture a quel mondo che già sognava il via libera “al controllo artificiale delle nascite”, scrive Linker.
La diffidenza dei settori conservatori
Dovranno rassegnarsi, insomma, i cattolici come Andrew Sullivan, che in un post pubblicato sul suo blog intitolato “Questo Papa straordinario”, diceva che ciò che lo colpisce di Francesco “non è quanto dice, bensì come lo dice: la dolcezza, lo humour, la trasparenza”. Tutti aspetti che commuovono “fino alle lacrime” il popolare blogger inglese trapiantato da trent’anni in America anche perché “tutto ciò che sta facendo e dicendo è un ovvio e implicito rigetto di ciò che è stato fatto prima”. E’ qui che starebbe dunque la rottura, il cambiamento profondo illustrato a colpi di chirografo, di visite improvvisate a Lampedusa, di pause caffè nelle favela brasiliane e di rifiuto (o di accantonamento, come spiegava sul Foglio qualche settimana fa il professor Giovanni Filoramo, storico del cristianesimo) di quell’apparato simbolico che il predecessore aveva invece rivitalizzato. E anche un commentatore che lo stesso Damon Linker definisce “misurato” come il vaticanista John Allen del National Catholic Reporter, è convinto che quanto sta avvenendo tra le mura leonine sia niente di meno che una rivoluzione. Punti di vista, nota il New Republic.
La diffidenza dei settori conservatori
Dovranno rassegnarsi, insomma, i cattolici come Andrew Sullivan, che in un post pubblicato sul suo blog intitolato “Questo Papa straordinario”, diceva che ciò che lo colpisce di Francesco “non è quanto dice, bensì come lo dice: la dolcezza, lo humour, la trasparenza”. Tutti aspetti che commuovono “fino alle lacrime” il popolare blogger inglese trapiantato da trent’anni in America anche perché “tutto ciò che sta facendo e dicendo è un ovvio e implicito rigetto di ciò che è stato fatto prima”. E’ qui che starebbe dunque la rottura, il cambiamento profondo illustrato a colpi di chirografo, di visite improvvisate a Lampedusa, di pause caffè nelle favela brasiliane e di rifiuto (o di accantonamento, come spiegava sul Foglio qualche settimana fa il professor Giovanni Filoramo, storico del cristianesimo) di quell’apparato simbolico che il predecessore aveva invece rivitalizzato. E anche un commentatore che lo stesso Damon Linker definisce “misurato” come il vaticanista John Allen del National Catholic Reporter, è convinto che quanto sta avvenendo tra le mura leonine sia niente di meno che una rivoluzione. Punti di vista, nota il New Republic.
L’unico fronte su cui i progressisti potrebbero vedere soddisfatte le loro aspettative è lo spoil system della curia, i promoveatur ut amoveatur che da secoli scandiscono immutati l’avvicendamento dei pontificati. “Qui la rivoluzione è possibile – sottolinea l’ex redattore di First Things – perché si tratta di un campo che non ha nulla a che fare con la propensione a ribaltare gli elementi della dottrina cattolica che i progressisti trovano così irritanti se messi a contatto con il liberalismo moderno”. Ma nomine, promozioni e rimozioni non sono la novità. Sulle questioni di fondo, quelle di dottrina, il cambiamento “almeno per i prossimi cent’anni è impossibile”, sentenzia Linker. Si prenda in esame la questione del celibato dei sacerdoti. Bergoglio, in passato, da arcivescovo di Buenos Aires, si era mostrato disponibile a intavolare un confronto per rivedere quella che dopotutto è “una questione di disciplina, non di fede”, non è un dogma né un elemento dottrinale. “Anche se ha chiarito di essere favorevole al mantenimento dell’attuale prassi della chiesa (per il momento), lo ha fatto con una dichiarazione piena di condizionali e riconoscendo che il celibato ha molti pro e contro”. Eppure, anche se volesse rifarsi al primo millennio della storia cristiana dove il celibato non era la regola o richiamarsi all’esperienza anglicana o a quella ancora attuale della chiesa ortodossa (una prospettiva che non dispiace al porporato indiano Oswald Gracias, membro del consiglio degli otto cardinali che studierà la riforma della curia), troverebbe ostacoli un po’ ovunque. Il fatto è che nei settori conservatori della chiesa, “dagli anni tumultuosi del dopo Concilio” si respira “una diffidenza generalizzata verso qualsiasi cambiamento. Una delle eredità della grande assise ecumenica voluta e aperta da Giovanni XXIII, “è che ogni proposta di rottura con la tradizione deve essere inquadrata come sostegno di una più profonda continuità”. E’ ciò che nel 1845, ricorda Linker, il cardinale John Henry Newman definiva “sviluppo della dottrina”. Dopotutto, nota la rivista americana, il punto fondamentale è che va riaffermata “l’immutabilità di fondo della chiesa”. Non c’è voglia, si legge, di riaprire capitoli chiusi che potrebbero far ripiombare la chiesa in quella situazione “che tra la fine degli anni Sessanta e i primi Settanta l’ha vista a un passo dallo sprofondare nel caos”.
© - FOGLIO QUOTIDIANO
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