L’articolo di Giovanni
Lugaresi sulla Messa in latino ha risvegliato in me un’infinità di
ricordi della mia felice adolescenza e vorrei aggiungere qualche piccola
glossa. Anche io, come lui, imparai praticamente a memoria quello che poi
sarebbe stato chiamato l’Ordo Vetus Missae quando
frequentavo la scuola elementare presso l’Istituto romano delle Suore Orsoline
di S. Carlo in epoca (molto) preconciliare.
Le Suore facevano usare a noi
scolarette il Messalino con la traduzione italiana stampata accanto al testo
liturgico latino ed anche io, come l’amico Lugaresi, cominciai a capire
qualcosa dell’originale solo quando iniziai a frequentare la scuola media.
Ma una volta impadronitami della lingua latina - così come
veniva insegnata nelle scuole italiane, fin dalle medie, in epoca pre –
sessantottina - comprendere il significato della liturgia, goderne la bellezza
e sentirsene coinvolgere nella mente e nello spirito è stato tutt’uno.
Ancora ricordo l’incipit della S. Messa della mia gioventù. Il
celebrante, rivolto verso l’altare, cominciava invocando l’aiuto di Dio: “Domine,
exaude orazione meam” cui, nelle parrocchie, il
chierichetto (ma a scuola rispondevamo noi scolare) rispondeva: “Et clamor
meus ad Te veniat”, continuando poi con il Segno della Croce e con il Salmo
43 recitato a voci alterne: “Iudica me Deus et discerne causam meam a gente non
sancta; ab homine iniquo et doloso erue me …” “ Quia tu es, Deus, fortitudo mea
…” Potrei ancora andare avanti nella citazione, a dimostrazione
di come la suggestiva preghiera del salmista, pronunciata nella solenne lingua
latina, si sia impressa nel mio spirito in maniera indelebile. Allora non si
concepiva, nelle scuole cattoliche di pregare in italiano, se non nella
preghiera individuale e solitaria: non solo la S. Messa, ma anche la recita del
S. Rosario e i meravigliosi canti del Veni Creator, all’inizio
dell’anno scolastico, e del Te Deum, alla fine, erano
rigorosamente in latino.
Ricordo con un po’ di commozione che la mia ottima
insegnante di latino e greco (ero ormai arrivata al liceo) ci raccomandava di
apprezzare, sì, il latino della S. Messa, ma di stare bene attente a non usarlo
nei compiti in classe, in quanto la liturgia in questione si era consolidata al
tempo del Concilio di Trento, quando la purissima lingua di Cicerone aveva
subito delle trasformazioni e, pur conservando un notevole fascino, non era più
la bella lingua della latinità classica che ci veniva insegnata a scuola. In
altri termini: guai a scrivere all’esame di maturitàMiserere nobis, come
dice la liturgia, anziché Miserere nostri, come
avrebbe scritto Cicerone! La bocciatura in latino sarebbe stata garantita. Gli
studenti di oggi non corrono più questo rischio …
C’era un inconveniente, però. Io ricordo perfettamente che,
allora, molte persone anziane, umili o di scarsa cultura non erano in grado di
seguire la liturgia latina, e non solo nella mia parrocchia, ma in tutte le
chiese, tanto è vero che era prevista la partecipazione di un chierichetto, o
comunque di un fedele che, conoscendo la liturgia, fosse in grado di rispondere
al celebrante nelle forme previste, sostituendosi così al popolo dei fedeli
partecipanti. Ricordo infatti, con commozione e tenerezza, una mia cara vecchia tata che
ho amato molto - donna umile ma di sconfinata sapientia cordis - la
quale, non potendo seguire la Messa nella forma latina che non era in grado
comprendere, durante la celebrazione recitava il Rosario in un latino
maccheronico e storpiato che era riuscita in qualche modo a imparare
partecipando tutte le sere alla recita in parrocchia. Sono sicura che la
Madonna gradiva quella preghiera umile e sincera, ma io penso che, sotto questo
aspetto l’introduzione della Messa nelle lingue moderne non sia stato un
errore, perché ha dato veramente a tutti la possibilità di partecipare al
Sacrificio della S. Messa con piena comprensione di quanto avviene sull’altare.
Ma anche a questo punto c’è un ma. Come dice
Giovanni Lugaresi – ed io sono d’accordo con lui - spesso il Novus
Ordo si presta ad alcuni abusi. Ne cito uno solo che scandalizza un
po’ una cattolica “bambina” come me: spesso i celebranti
inframezzano le parole della liturgia in volgare con frasi e
commenti che vorrebbero essere di spiegazione della preghiera ma, non
essendo previste dal Messale, possono prestarsi a fraintendimenti o
distrazioni. Alcuni anni orsono, trovandomi a New York, andai ad ascoltare la
S. Messa domenicale nella Cattedrale di S. Patrizio; ricordo che il celebrante,
un Vescovo ausiliario, infarcì sia la sua omelia che il resto della liturgia
(ovviamente in inglese) con battute di spirito che fecero ridere a crepapelle i
fedeli. Sarà stato – come mi spiegarono i miei amici americani, tutti cattolici
– un espediente tipico degli speakers statunitensi per
attirare in chiesa il maggior numero possibile di fedeli? Che tristezza (pensai)
se la Chiesa di Cristo deve uniformarsi allo stile del mondo per annunciare il
Vangelo!
Allora anche io penso - senza voler necessariamente
ritornare all’esclusività dell’Ordo Vetus -che il latino sia veramente
la lingua universale della Chiesa, quella che fa sentire i cattolici a casa
propria nelle chiese di tutti i continenti, anche se non sono latinisti
consumati. Perché allora elevare tante proteste contro chi chiede di poter
partecipare al Sacrificio nella lingua dei Padri della Chiesa? A chi possono
dare fastidio costoro? Forse, come dice Giovanni Lugaresi, a certi sacerdoti
che si sentono “creativi”? Perché allora non ripristinare e diffondere
(dove viene richiesta la celebrazione dell’ Ordo Vetus) i Messalini
della mia adolescenza: quelli in latino, ma con la traduzione a fronte nella
lingua locale, in modo che nessuno possa sentirsi escluso?
di Carla D’Agostino Ungaretti
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