Ci vien facile, e ce ne dogliamo, una critica a quanto sopra, dacché si pensa che il papa della Cattolicità, in tema siffatto, quello della famiglia, un tema che dèsta e attira l’attenzione delle forze sataniche – liberalismo, relativismo, massoneria, centrali finanziarie – attive nell’opera di demolizione e di dissoluzione della stessa, avrebbe dovuto, per mandato divino e quindi per propria missione magisteriale, oltre che per convinzione, affermare non una generica e, par di capire, esclusiva pratica del bon ton e del galateo, ma la forza della preghiera quale mezzo per vivere in pace e in gioia, soprattutto la pratica dei Sacramenti e la recita del santo Rosario che, nella festività della Sacra Famiglia , cadeva opportuno rammentare e raccomandare.
Ma un pontefice, il quale crede essere più “pastorale” augurare “buona sera” o “buon pranzo” – sostituti di quell’antico rottame del “sia lodato Gesù Cristo” – non poteva non privilegiare la preminenza, non diciamo di Baltasar Graciàn ostile ai gesuiti ma quella di Mons. della Casa su Cristo Signore. Ed ecco, allora, sortire dal repertorio della sua democratica visione del mondo e della Verità, l’elisir lessicale che, sorbito e assimilato, ad ogni famiglia assicurerà il godimento della felicità e una serena esistenza. Basta semplicemente – come in appresso ha commentato – saper chiedere permesso per qualcosa che si desidera ottenere, saper dire grazie per quanto si riceve e saper chiedere scusa quando ci si trova in colpa.
Un metodo che, certamente, non dispiace e che, a scanso di fraintendimenti, noi auspichiamo quale minima forma di rispetto specialmente in riferimento al clima di sovversione, di lacerazione, di incomprensione, di sfaldamento che, attualmente, permea la famiglia. Magari i figli, ed anche i genitori, potessero vivere nell’applicazione di quelle tre parole!
Ma, attenzione: questo quadro altro non sarebbe che quello che Platone si augura quando, nel capitolo VIII de “La Repubblica”, stigmatizzando il comportamento disordinato dei giovani ateniesi, invoca proprio questa pedagogia; altro non sarebbe che la stoica dottrina che Seneca spiega a Lucilio nelle numerose e famose lettere. Insomma: una visione puramente umana, levigata dal rispetto delle regole umane, vissuta nello schema di un’educazione fondata su principii di convenienza e di convivenza e di etica sociale umana. Nulla più.
Ma uno sguardo alla storia e alle storie, ci dice e ci informa che queste tre parole non bastano a garantire esiti sicuri e stabili in quanto l’uomo deve fare i conti con una natura, la sua, minata dal peccato. E senza andare lontano negli anni e nei secoli passati, è sufficiente rammentare cosa sia stato, per la famiglia, il moto ribellistico del ’68 che taluno ha avuto cuore e fegato di definire come “formidabile”. Caduto e raso al suolo il principio di autorità, la cui genesi non ci vietiamo di indicare in quelle impennate libertarie ed eversive che caratterizzarono il Concilio Vaticano II; riconosciuto come cosa ovvia e dovuta l’esercizio di un diritto assoluto; vagheggiata un’autonomia individuale sciolta da norme e leggi, e soprattutto da dogmi, l’opera di erosione ha preso l’aire non manifestando, a tutt’oggi, soluzione di continuità.
Il vuoto. Ed ecco, allora, che qualcos’altro necessita.
Necessita, cioè, la presenza di Dio che, quando c’è, rende l’unione familiare tetragona alle sollecitazioni del male, refrattaria ai moti di scissione interna, armonica nei rapporti genitori/figli, moglie/ marito anche quando si addensano le nuvole dei contrasti e della cattiva sorte, secondo il modello della Sacra famiglia e nel solco dell’insegnamento paolino (Col. 3, 12/21).
Necessita che il magistero, oltre a parlarci di Misericordia, dia insegnamento aperto, continuo, paterno, autorevole ed autoritario circa il rispetto della legge di Dio ricordando a tutti che “Initium sapientiae timor Domini” (Ps. 110, 10). Non è sufficiente, allora, rifarsi soltanto a un complesso di comportamenti e di rapporti fondati su un tipo di galateo la cui cifra è la patina zuccherina del garbo.
Papa Bergoglio ci ha abituati – anzi no, dal momento che ne segnaliamo gli aspetti stravaganti – ad espressioni antiprotocollari, a segnalarsi per l’uso del “tu” che, dopo l’abbandono del “noi” maiestatico a vantaggio dell’ “io”, sta mutando il linguaggio in moduli e stilemi del tutto estranei alla liturgìa, alla dogmatica con danno evidente della dottrina. “Nomina sunt consequentia rerum” (Giustiniano:Institutiones, 2,7,3) - i nomi sono l’essenza delle cose.
Ma tant’è. Ligio e coerente con la sua “filosofìa”, papa Francesco ha dato prova di quanto egli non solo predichi ma soprattutto pratichi questa sua personale visione dei rapporti sociali in una circostanza che ora, dopo questo preambolo che speriamo non sia dispiaciuto, ci apprestiamo a narrare.
L’Avvenire e L’Osservatore Romano – due testate di non sospetta fronda – riportano notizia e testo diuna lettera che papa Bergoglio ha scritto ed indirizzato ai fedeli della diocesi di Cassano All’Jonio ( Cosenza ) in occasione della chiamata a Roma – per motivi di governo - del vescovo locale Mons. Nunzio Galantino.
Il papa, con assoluto capovolgimento, rinunciando alla legittima, imprescindibile e doverosa potestà deliberante e decisionale che gli deriva dal primato petrino – al quale però, come noto, ha rinunciato a favore di una collegialità configurata nella commissione cardinalizia degli 8 – esterna in questa lettera la sua democratica sensibilità, il timore di ledere chissà qual diritto, una particolare affettazione tonale, tattica adulatoria “sotto ‘l velame” di parole suadenti e vellicanti, taluni dolciastri sensi di rammarico di cui bene si capisce solo leggendo la missiva, non proprio estesa ma, tuttavia, assai esplicativa ed indiziaria di quell’abbandono podestarile e di quella fisionomia cordiale e amicale, ma inopportuna, di cui ha dato numerose prove. Con un’eccezione particolare e ben precisa di cui daremo cenno in conclusione.
Ecco il documento:
Cari fratelli e sorelle,
anzitutto vi rivolgo un cordiale saluto con i miei migliori auguri di un santo e felice tempo di Natale. La venuta di Gesù vi riempia di letizia e di santa gioia.
Non ho ancora avuto il piacere di conoscervi di persona, ma spero di poterlo fare presto. Forse vi risulta strano che vi scriva, ma lo faccio per chiedervi un aiuto. Mi spiego.
Per una missione importante nella Chiesa italiana, ho bisogno che Mons. Galantino venga a Roma almeno per un periodo. So quanto voi amate il vostro vescovo e so che non vi farà piacere che vi venga tolto, e vi capisco. Per questo ho voluto scrivervi direttamente come chiedendo il permesso. Egli sicuramente preferisce rimanere con voi, perché vi ama tanto. L’affetto è reciproco, e vi confesso che vedere questo amore filiale e paterno del popolo e del vescovo mi commuove e mi fa rendere grazie a Dio.
Chiederò a Mons. Galantino che, almeno per un certo tempo, pur stando a Roma, viaggi regolarmente alcuni giorni per continuare ad accompagnarvi nel cammino della fede.
Vi domando, per favore, di comprendermi. . .e di perdonarmi. Pregate per me perché ne ho bisogno, e io vi prometto di pregare per voi.
Gesù vi benedica e la Vergine santa vi protegga.
Paternamente e fraternamente
Dal Vaticano, 28 dicembre 2013
Francesco
Ineccepibili la forma e lo stile che la qualificano come una letterina che, normalmente si scrive quando si chiede un piccolo sacrificio e un favore, inaccettabili però il contenuto, i retropensieri e, soprattutto, il fatto che sia un papa a scrivere queste parole.
Siamo arrivati, col premere sul tasto del garbo, del colloquiale, del paritetico, del democratico, al punto che sono – e forse saranno – le pecore a voler essere interpellate per dare e dispensare permessi e licenze al pastore che, in siffatta circostanza, dimostra di non saper fare il pastore.
Questa lettera fa il paio con il questionario “Le sfide pastorali sulla famiglia” dichiarando d’ora in poi che sarà l’assemblea universale dei cattolici ad indicare al papa - maestro, guida e custode - i temi, i problemi e le soluzioni. E, dopo aver accordato alle Conferenze Episcopali “ una qualche autentica autorità dottrinale” (Evangelii gaudium n. 32 ), si darà autorità deliberativa anche alla comunità dei fedeli.
Ma c’è qualcosa di contraddittorio in tutto questo. Un qualcosa che ci dice come, al di là della melassa sentimentaloide, delle accattivanti giulebbose e mielose espressioni annidate tra litoti e reticenze, e della mozione degli affetti, papa Bergoglio non sia però così coerente col suo stile.
Glielo spieghiamo col domandargli umilmente ma francamente:
Sicché, le tre magiche parole – permesso, grazie, scusa – valgono per quello che valgono e, cioè, solo per gli altri, perché papa Bergoglio, quando vuole, si avvale della facoltà di smentirsi. Lo fece, poco tempo fa, ripulendo dal sito del Vaticano, l’infelice intervista allo Scalfari Eugenio.
Mentre ci accingiamo a queste note, ci viene in mente la novella verghiana, “Papa Sisto”, in cui si parla di un perdigiorno, nullafacente, scioperato ma furbo, tale Vito Scardo da Militello che, “ toccato dalla grazia, da povero diavolo arrivò ad essere guardiano dei cappuccini, come Papa Sisto”. Costui, entrato in convento per fame, simulando umiltà, obbedienza, digiuni, preghiere, neutralità “politica” venne eletto Guardiano, carica che accettò con mansuetudine, docilità ed obbedienza quasi dolendosi ,dichiarando “Sia fatta la volontà di Dio”. L’autore, ironicamente, aggiunge: “ E fece anche la sua, sbalestrando padre Giuseppe Maria a Sortino, fra’ Mansueto e gli altri di qua e di là”.
Non vi sembra, cari lettori, che la sceneggiatura di questa novella sia il canovaccio su cui s’è sviluppata l’azione di papa Bergoglio e del Commissario apostolico padre Fidenzio Volpi cappuccino?
Ma un pontefice, il quale crede essere più “pastorale” augurare “buona sera” o “buon pranzo” – sostituti di quell’antico rottame del “sia lodato Gesù Cristo” – non poteva non privilegiare la preminenza, non diciamo di Baltasar Graciàn ostile ai gesuiti ma quella di Mons. della Casa su Cristo Signore. Ed ecco, allora, sortire dal repertorio della sua democratica visione del mondo e della Verità, l’elisir lessicale che, sorbito e assimilato, ad ogni famiglia assicurerà il godimento della felicità e una serena esistenza. Basta semplicemente – come in appresso ha commentato – saper chiedere permesso per qualcosa che si desidera ottenere, saper dire grazie per quanto si riceve e saper chiedere scusa quando ci si trova in colpa.
Un metodo che, certamente, non dispiace e che, a scanso di fraintendimenti, noi auspichiamo quale minima forma di rispetto specialmente in riferimento al clima di sovversione, di lacerazione, di incomprensione, di sfaldamento che, attualmente, permea la famiglia. Magari i figli, ed anche i genitori, potessero vivere nell’applicazione di quelle tre parole!
Ma, attenzione: questo quadro altro non sarebbe che quello che Platone si augura quando, nel capitolo VIII de “La Repubblica”, stigmatizzando il comportamento disordinato dei giovani ateniesi, invoca proprio questa pedagogia; altro non sarebbe che la stoica dottrina che Seneca spiega a Lucilio nelle numerose e famose lettere. Insomma: una visione puramente umana, levigata dal rispetto delle regole umane, vissuta nello schema di un’educazione fondata su principii di convenienza e di convivenza e di etica sociale umana. Nulla più.
Ma uno sguardo alla storia e alle storie, ci dice e ci informa che queste tre parole non bastano a garantire esiti sicuri e stabili in quanto l’uomo deve fare i conti con una natura, la sua, minata dal peccato. E senza andare lontano negli anni e nei secoli passati, è sufficiente rammentare cosa sia stato, per la famiglia, il moto ribellistico del ’68 che taluno ha avuto cuore e fegato di definire come “formidabile”. Caduto e raso al suolo il principio di autorità, la cui genesi non ci vietiamo di indicare in quelle impennate libertarie ed eversive che caratterizzarono il Concilio Vaticano II; riconosciuto come cosa ovvia e dovuta l’esercizio di un diritto assoluto; vagheggiata un’autonomia individuale sciolta da norme e leggi, e soprattutto da dogmi, l’opera di erosione ha preso l’aire non manifestando, a tutt’oggi, soluzione di continuità.
Il vuoto. Ed ecco, allora, che qualcos’altro necessita.
Necessita, cioè, la presenza di Dio che, quando c’è, rende l’unione familiare tetragona alle sollecitazioni del male, refrattaria ai moti di scissione interna, armonica nei rapporti genitori/figli, moglie/ marito anche quando si addensano le nuvole dei contrasti e della cattiva sorte, secondo il modello della Sacra famiglia e nel solco dell’insegnamento paolino (Col. 3, 12/21).
Necessita che il magistero, oltre a parlarci di Misericordia, dia insegnamento aperto, continuo, paterno, autorevole ed autoritario circa il rispetto della legge di Dio ricordando a tutti che “Initium sapientiae timor Domini” (Ps. 110, 10). Non è sufficiente, allora, rifarsi soltanto a un complesso di comportamenti e di rapporti fondati su un tipo di galateo la cui cifra è la patina zuccherina del garbo.
Papa Bergoglio ci ha abituati – anzi no, dal momento che ne segnaliamo gli aspetti stravaganti – ad espressioni antiprotocollari, a segnalarsi per l’uso del “tu” che, dopo l’abbandono del “noi” maiestatico a vantaggio dell’ “io”, sta mutando il linguaggio in moduli e stilemi del tutto estranei alla liturgìa, alla dogmatica con danno evidente della dottrina. “Nomina sunt consequentia rerum” (Giustiniano:Institutiones, 2,7,3) - i nomi sono l’essenza delle cose.
Ma tant’è. Ligio e coerente con la sua “filosofìa”, papa Francesco ha dato prova di quanto egli non solo predichi ma soprattutto pratichi questa sua personale visione dei rapporti sociali in una circostanza che ora, dopo questo preambolo che speriamo non sia dispiaciuto, ci apprestiamo a narrare.
L’Avvenire e L’Osservatore Romano – due testate di non sospetta fronda – riportano notizia e testo diuna lettera che papa Bergoglio ha scritto ed indirizzato ai fedeli della diocesi di Cassano All’Jonio ( Cosenza ) in occasione della chiamata a Roma – per motivi di governo - del vescovo locale Mons. Nunzio Galantino.
Il papa, con assoluto capovolgimento, rinunciando alla legittima, imprescindibile e doverosa potestà deliberante e decisionale che gli deriva dal primato petrino – al quale però, come noto, ha rinunciato a favore di una collegialità configurata nella commissione cardinalizia degli 8 – esterna in questa lettera la sua democratica sensibilità, il timore di ledere chissà qual diritto, una particolare affettazione tonale, tattica adulatoria “sotto ‘l velame” di parole suadenti e vellicanti, taluni dolciastri sensi di rammarico di cui bene si capisce solo leggendo la missiva, non proprio estesa ma, tuttavia, assai esplicativa ed indiziaria di quell’abbandono podestarile e di quella fisionomia cordiale e amicale, ma inopportuna, di cui ha dato numerose prove. Con un’eccezione particolare e ben precisa di cui daremo cenno in conclusione.
Ecco il documento:
Ai sacerdoti, Consacrati e fedeli della diocesi di Cassano all’Jonio
Cari fratelli e sorelle,
anzitutto vi rivolgo un cordiale saluto con i miei migliori auguri di un santo e felice tempo di Natale. La venuta di Gesù vi riempia di letizia e di santa gioia.
Non ho ancora avuto il piacere di conoscervi di persona, ma spero di poterlo fare presto. Forse vi risulta strano che vi scriva, ma lo faccio per chiedervi un aiuto. Mi spiego.
Per una missione importante nella Chiesa italiana, ho bisogno che Mons. Galantino venga a Roma almeno per un periodo. So quanto voi amate il vostro vescovo e so che non vi farà piacere che vi venga tolto, e vi capisco. Per questo ho voluto scrivervi direttamente come chiedendo il permesso. Egli sicuramente preferisce rimanere con voi, perché vi ama tanto. L’affetto è reciproco, e vi confesso che vedere questo amore filiale e paterno del popolo e del vescovo mi commuove e mi fa rendere grazie a Dio.
Chiederò a Mons. Galantino che, almeno per un certo tempo, pur stando a Roma, viaggi regolarmente alcuni giorni per continuare ad accompagnarvi nel cammino della fede.
Vi domando, per favore, di comprendermi. . .e di perdonarmi. Pregate per me perché ne ho bisogno, e io vi prometto di pregare per voi.
Gesù vi benedica e la Vergine santa vi protegga.
Paternamente e fraternamente
Dal Vaticano, 28 dicembre 2013
Francesco
(Avvenire – L’Osservatore Romano 30/31 dicembre 2013 )
Ineccepibili la forma e lo stile che la qualificano come una letterina che, normalmente si scrive quando si chiede un piccolo sacrificio e un favore, inaccettabili però il contenuto, i retropensieri e, soprattutto, il fatto che sia un papa a scrivere queste parole.
Siamo arrivati, col premere sul tasto del garbo, del colloquiale, del paritetico, del democratico, al punto che sono – e forse saranno – le pecore a voler essere interpellate per dare e dispensare permessi e licenze al pastore che, in siffatta circostanza, dimostra di non saper fare il pastore.
Questa lettera fa il paio con il questionario “Le sfide pastorali sulla famiglia” dichiarando d’ora in poi che sarà l’assemblea universale dei cattolici ad indicare al papa - maestro, guida e custode - i temi, i problemi e le soluzioni. E, dopo aver accordato alle Conferenze Episcopali “ una qualche autentica autorità dottrinale” (Evangelii gaudium n. 32 ), si darà autorità deliberativa anche alla comunità dei fedeli.
Ma c’è qualcosa di contraddittorio in tutto questo. Un qualcosa che ci dice come, al di là della melassa sentimentaloide, delle accattivanti giulebbose e mielose espressioni annidate tra litoti e reticenze, e della mozione degli affetti, papa Bergoglio non sia però così coerente col suo stile.
Glielo spieghiamo col domandargli umilmente ma francamente:
“Santità, perché mai questo suo tatto, questo chieder permesso e perdono ai fedeli di Cassano all’Jonio, questo suo attestare amore e rispetto del loro attaccamento, questo suo capovolgere i ruoli e le funzioni, questo suo paterno/fraterno affetto - espressioni certamente sincere ma retoriche, eccome! con i quali ha, di fatto e per sempre, tolto un vescovo dalla sua sede per altre destinazioni - perché mai, ripetiamo, Lei non li ha avvertiti, vissuti e usati anche nei confronti dei Frati Francescani dell’Immacolata? Dove sta quella “tenerezza” che lei ci invita ad esprimere con coraggio? Lei ha tolto e cancellato ai fedeli – migliaia di fedeli – senza inviare loro la letterina del caso e senza troppi giri di parole anzi quasi di nascosto, un punto di riferimento che si incentrava proprio sul servizio che l’Ordine prestava al Signore e alla sua Chiesa attraverso la celebrazione della Santa Messa secondo il Vetus Ordo reso legittimo dal suo predecessore, l’edizione di preziosi testi di dottrina, l’esempio di una vita vissuta secondo la regola francescana, l’abbondanza di vocazioni. Non ha loro chiesto permesso quando ha nominato l’inquisitore, non ha loro chiesto - e non chiede - scusa per quello che costui, padre Fidenzio Volpi (nomen omen!) sta odiosamente combinando, col seppellire l’Ordine sotto le macerie dello smantellamento. Ha vietato la Messa Latina, ha chiuso i seminarii, ha interdetto le pubblicazioni, ha congelato le ordinazioni diaconali e sacerdotali, ha privato le Suore dell’Immacolata dell’assistenza spirituale dei confratelli, con un decreto degno del KGB ha confinato il fondatore Padre Manelli in domicilio coatto e segregato, ha disperso le migliori intelligenze – Padre Apollonio, Padre Lanzetta, Padre Siano – mandandoli in esilio nei quattro angoli della terra. Ma Lei, Santità,non potrà dire GRAZIE, perché di tutta questa malsana faccenda Lei, mandante unico, dovrà pentirsi davanti a Dio e agli uomini.”
Sicché, le tre magiche parole – permesso, grazie, scusa – valgono per quello che valgono e, cioè, solo per gli altri, perché papa Bergoglio, quando vuole, si avvale della facoltà di smentirsi. Lo fece, poco tempo fa, ripulendo dal sito del Vaticano, l’infelice intervista allo Scalfari Eugenio.
Mentre ci accingiamo a queste note, ci viene in mente la novella verghiana, “Papa Sisto”, in cui si parla di un perdigiorno, nullafacente, scioperato ma furbo, tale Vito Scardo da Militello che, “ toccato dalla grazia, da povero diavolo arrivò ad essere guardiano dei cappuccini, come Papa Sisto”. Costui, entrato in convento per fame, simulando umiltà, obbedienza, digiuni, preghiere, neutralità “politica” venne eletto Guardiano, carica che accettò con mansuetudine, docilità ed obbedienza quasi dolendosi ,dichiarando “Sia fatta la volontà di Dio”. L’autore, ironicamente, aggiunge: “ E fece anche la sua, sbalestrando padre Giuseppe Maria a Sortino, fra’ Mansueto e gli altri di qua e di là”.
Non vi sembra, cari lettori, che la sceneggiatura di questa novella sia il canovaccio su cui s’è sviluppata l’azione di papa Bergoglio e del Commissario apostolico padre Fidenzio Volpi cappuccino?
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