Matrimonio, divorzio, nuovo matrimonio… il punto di vista di una cattolica “bambina”
… a me sembra evidente che coloro i quali, pur professandosi cattolici, decidono di divorziare per poi contrarre un nuovo matrimonio, fanno una scelta calcolata e consapevole; essi sanno perfettamente di adottare uno stile di vita contrario all’insegnamento millenario della Chiesa; sanno che, risposandosi, finiranno per servire a mammona (ossia si adegueranno allo stile del “mondo”) anziché a Dio e allora, per coerenza, devono accettare le limitazioni alla loro partecipazione alla vita ecclesiale…
di Carla D’Agostino Ungaretti
.
Sappiamo già da diversi anni che le separazioni coniugali, e i conseguenti divorzi, vanno aumentando in maniera esponenziale coinvolgendo quasi sempre figli minorenni. Questo esito drammatico colpisce anche molti matrimoni celebrati in Chiesa e perciò sacramentali; in molti casi, poi, la cessazione degli effetti civili del matrimonio apre la strada ad un nuovo matrimonio, ovviamente civile, e alla formazione di un nuovo nucleo familiare introducendo anche, nella mente del popolo, una nuova percezione della famiglia, quella della famiglia “allargata”, che vediamo continuamente rappresentata al cinema, in TV, nei media in genere, come situazione “normale”, da considerare inevitabile e tipica di questo nostro tempo.
Voglio lasciare da parte questa volta la presunta “normalità” di questo evento che così spesso purtroppo si verifica nella vita umana, per riflettere piuttosto, da cattolica “bambina”, su quella che chiamerei la “patologia” del matrimonio sacramentale, perché penso che si tratti veramente di una malattia, anche se spirituale e non fisica, condizione molto triste sotto il profilo della fede perché, al pari di una vera malattia, aggredisce e limita la salute spirituale dell’anima, tanto che la Chiesa reputa i coniugi contagiati impossibilitati a ricevere l’Eucaristia, nutrimento naturale delle anime “sane”, così come tanti malati, al pari dei diabetici e a quelli affetti da insufficienza renale, sono impossibilitati a nutrirsi normalmente.
Questo impedimento pastorale, soprattutto negli ultimi anni, è sembrato a tanti coniugi cattolici ingiusto e discriminatorio: in esso hanno visto un rifiuto della Chiesa nei loro riguardi, una sorta di “vendetta” per aver rotto il vincolo coniugale e contratto una nuova unione. Ma non è solo questa la limitazione imposta dalle norme canoniche a una completa partecipazione alla vita della Chiesa: se si è un divorziato risposato non solo si è escluso dai sacramenti in genere, ma non si può essere catechista, né insegnare religione nelle scuole, né essere padrino o madrina di Battesimo o di Cresima. E infatti come si può insegnare ai bambini o ai ragazzi l’indissolubilità del Matrimonio cristiano, se non si vive questa Verità in prima persona? Tuttavia, è del pari innegabile che alla sofferenza di tanti credenti per il fallimento del loro primo matrimonio si è aggiunta la sofferenza di sentirsi condannati e respinti e molti, per questo motivo, abbandonano la Chiesa. Ma le cose stanno davvero così? Non credo, e vorrei provare a rifletterci un po’ sopra per capire se la Chiesa sia davvero così “crudele”.
Mi tornano in mente le parole eterne di Gesù: “Nessuno può servire a due padroni: o odierà l’uno e amerà l’altro, o preferirà l’uno e disprezzerà l’altro; non potete servire a Dio e a mammona” (Mt 6, 24). Infatti a me sembra evidente che coloro i quali, pur professandosi cattolici, decidono di divorziare per poi contrarre un nuovo matrimonio, fanno una scelta calcolata e consapevole; essi sanno perfettamente di adottare uno stile di vita contrario all’insegnamento millenario della Chiesa; sanno che, risposandosi, finiranno per servire a mammona (ossia si adegueranno allo stile del “mondo”) anziché a Dio e allora, per coerenza, devono accettare le limitazioni alla loro partecipazione alla vita ecclesiale poste dalla Chiesa stessa la quale, dal canto suo, non giudica l’”animus” degli interessati (a questo penserà Dio) ma solo il loro comportamento concreto contrario al Vangelo.
Ma perché oggi tanti matrimoni falliscono? Perché quando ci si sposa si è quasi sempre travolti dall’ “innamoramento”, piuttosto che dall’amore – come ha dimostrato Francesco Alberoni in un suo famoso saggio di qualche anno fa – cioè da quella esaltazione, da quel coinvolgimento totale dello spirito, della mente e dei sensi che sembra dover durare in eterno restando sempre uguale ”nella buona e nella cattiva sorte”; ma in realtà nessuno si sposa pensando alla cattiva sorte. Si è pronti a tutto, anche alla cattiva sorte, pur di affrontarla da sposati, da innamorati. Ma poi quell’esaltazione deve necessariamente cessare per fare posto all’”amore”, quel dono meraviglioso che Dio ha elargito agli esseri umani, quel legame che si alimenta ogni giorno di oblatività, comprensione, disponibilità, perdono, tolleranza reciproca, apertura alle esigenze dell’altro che S. Paolo definisce “mistero grande” (Ef 5, 32). Se non verifica questo salto di qualità nel rapporto reciproco, o se non si ha la forza o la maturità di favorirlo temperando l’emotività con la ragione, allora tanti matrimoni vanno male, perché il Male può attecchire ovunque, anche nell’ambito di un Matrimonio sacramentale. Purtroppo nell’ultimo secolo il femminismo ugualitario di stampo marxista – che ha falsamente concepito la giustizia come “tutti uguali” – ha fatto credere che l’emotività sia uguale sia per l’uomo che per la donna. Invece l’amore non è solo emotività: esso deve essere coniugato con le istanze dell’altro, con le circostanze, con i legami familiari,e sociali, sviluppando tutte le facoltà spirituali e crescendo in tutte le virtù umane e relazionali. In una parola, l’amore deve maturare come un qualunque frutto che, se viene raccolto troppo presto, rimane allo stato acerbo e risulta immangiabile.
Purtroppo oggigiorno molti fidanzati non hanno la pazienza di aspettare la maturazione del loro sentimento e la libertà sessuale extramatrimoniale di cui godono non favorisce (contrariamente a quanto si crede) il perfezionamento di quel processo psicologico e spirituale necessario alla concretizzazione di quel “mistero grande”. Perciò spesso le coppie si avviano al divorzio con enorme leggerezza e poi alla ricerca di un nuovo partner perché – malgrado il relativismo e il nichilismo che impregnano la nostra civiltà – l’essere umano tende sempre a qualcosa di assoluto che duri per sempre e non vuole rinunciare a un rapporto che duri tutta la vita. Ma essi non pensano (o dimenticano) che accedendo al Sacramento del Matrimonio, essi hanno fatto una solenne promessa a Dio, prima ancora che alla persona che è diventata la loro moglie o il loro marito.
Quando un matrimonio crolla, i coniugi devono prendere atto che il loro progetto di vita è fallito e la loro sofferenza esistenziale merita rispetto e partecipazione umana. La Chiesa è ben consapevole di questo, ma è altrettanto consapevole delle “res novae”, ma non sempre buone, che caratterizzano il nostro tempo. Perciò, per il 2014, è stato annunciato un grande Sinodo dei Vescovi che dovrà discutere del problema del matrimonio e della famiglia, ritenuto oggi ineludibile. A questo scopo è stato varato un grande sondaggio presso tutte le Diocesi del mondo, finalizzato a comprendere che cosa pensano del matrimonio i cattolici del XXI secolo.
Devo dire subito (per non essere ipocrita) che questo metodo di acquisizione di notizie da parte della Chiesa non mi piace e non mi sembra in armonia con la sua natura di “Mater et Magistra”. Dei sondaggi si servono i politici (Berlusconidocet) per capire l’aria che tira presso i potenziali elettori al fine di accontentarli e garantire a se stessi una lunga permanenza sulla loro poltrona. Ma il compito della Chiesa non è accontentare i suoi elettori, essa deve accontentare solo Dio proclamando la Sua Parola e rammentandola al suo gregge, quando questo sembra dimenticarla, senza stancarsi mai anche a costo di diventare noiosa e impopolare, come S. Paolo raccomanda a Timoteo (2Tm 4, 1 -2).
Perciò dobbiamo intenderci bene sul tipo di aiuto umano e di vicinanza fraterna di cui hanno bisogno quei nostri fratelli che hanno sperimentato il fallimento del loro matrimonio, perché il “mondo” oggi tende (erroneamente) a consolare il loro dolore invitandoli a cercarsi un nuovo partner. Infatti i secondi matrimoni sono frequenti anche tra persone che si professano cattoliche; spesso questi secondi legami sono ritenuti manifestazione di “fiducia nella vita” e si vuole intravedere in essi, a livello esistenziale, l’esperienza di un’autentica “metànoia” relativa alla vita coniugale, la formazione, cioè, di un progetto di coppia aperto all’amore e all’autentico valore del matrimonio. E’ noto infatti che alcune Diocesi, come quella di Friburgo, la seconda per importanza tra le Diocesi tedesche, affida a religiosi la cura dei divorziati risposati, ascoltando le loro drammatiche situazioni e aiutandoli ad accostarsi di nuovo all’Eucaristia. Altri vorrebbero che la Chiesa cattolica seguisse l’esempio della Chiesa ortodossa che ammette le seconde nozze entro certi limiti e se, a certe condizioni, ravvisa nella situazione concreta l’avvenuta “morte del matrimonio”. Ma, con tutto il rispetto per i nostri fratelli ortodossi, che significa “morte del matrimonio”? Molti ritengono che il matrimonio “muoia” con l’adulterio di uno dei coniugi che, venendo meno all’obbligo di fedeltà, “ritirerebbe” (per così dire) il proprio consenso. A giudizio di un’umile cattolica “bambina”questa visione del matrimonio è contrattualistica e non certo sacramentale.
Ma soprattutto, è conforme alla Parola di Dio? Non si pensi che io voglia entrare nel dibattito teologico su questo spinoso problema, perché non ne ho certo la competenza, o ergermi a giudice di situazioni spesso così dolorose: nulla è più lontano dai miei sentimenti e dalle mie intenzioni ma, data l’onestà di intenti che animano le mie parole, devo dichiarare subito, da cattolica “bambina e parruccona” quale sono, che io vedo nei cattolici che vogliono “ rifarsi una vita”, un sostanziale allontanamento dal Vangelo. Perciò penso che bisogna tornare a riflettere sulle parole di Cristo.
Gli si avvicinarono allora alcuni farisei per metterlo alla prova e gli chiesero: “E’ lecito ad un uomo ripudiare la propria moglie per qualsiasi motivo?” Ed egli rispose: “ Non avete letto che il Creatore da principio li creò maschio e femmina e disse: Per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due saranno una carne sola? Così non sono più due ma una carne sola. Quello dunque che Dio ha congiunto, l’uomo non lo separi”. Gli obiettarono: “Perché allora Mosè ha ordinato di darle l’atto di ripudio e di mandarla via?”. Rispose loro Gesù: “Per la durezza del vostro cuore Mosè vi ha permesso di ripudiare le vostre mogli, ma da principio non fu così. Perciò io vi dico: Chiunque ripudia la propria moglie, se non in caso di concubinato, e ne sposa un’altra commette adulterio” (Mt 19, 3 – 9). L’eccezione riferita da Matteo (pornèia, che la Bibbia di Gerusalemme traduce con concubinato) indica un atto o un comportamento immorale in ambito sessuale, che nel matrimonio ha anche carattere adulterino e in tutto l’Occidente, da S. Girolamo in poi, è stata interpretata come consenso alla separazione, ma non alle nuove nozze. Invece, secondo l’evangelista Marco – che riconosce anche lui l’indulgenza di Mosè come dovuta alla duritia cordis – Gesù è ancora più drastico: “Chi ripudia la propria moglie e ne sposa un’altra commette adulterio contro di lei; se la donna ripudia il marito e ne sposa un altro, commette adulterio” (Mc 10, 11 – 12).
Le parole di Cristo sono chiarissime e inequivocabili: come si può pensare di adeguare questo preciso insegnamento ai comodi del “mondo”? Se la Chiesa non può cambiare la disciplina dei Sacramenti, nondimeno essa non ha mai pronunciato parole di condanna o di scomunica nei confronti dei divorziati risposati. Anzi, gli ultimi Papi hanno sempre detto di condividere il loro dolore li hanno paternamente esortati a non sentirsi esclusi dalla Chiesa, a pregare, a partecipare alla S. Messa domenicale facendo la Comunione spirituale, non potendo accostarsi a quella sacramentale. La Congregazione per la dottrina della fede anni fa aveva addirittura prospettato la cosiddetta soluzione del “fratello – sorella”, vale a dire che i divorziati risposati sarebbero riammessi all’Eucaristia a patto che si impegnino a vivere con il nuovo coniuge in totale castità. Questa soluzione ha suscitato molte perplessità ed è stata anche accusata di ipocrisia ma io, cattolica “bambina”, la ritengo invece perfettamente logica, sensata ed anche caritatevole.
Infatti, la Chiesa in questi casi non impone affatto la separazione dei due partner, soprattutto se essi hanno generato dei figli i quali hanno pieno diritto di vivere e crescere avendo accanto a sé entrambi i genitori e, per di più, l’affetto reciproco non è mai da condannare, ma vuole far capire agli interessati che, nella tradizione cattolica – supportata da duemila anni di riflessione teologica che non ha mai conosciuto smentite o inversioni di tendenza – l’unione sessuale è considerata atto proprio degli sposi; perciò accettando di vivere in castità, essi devono riconoscere che la loro unione non è coniugale.
E’ ipocrisia, questa? Non credo. Lo ritengo, piuttosto, un indirizzo pastorale improntato alla carità. Se un uomo e una donna si amano e amano i loro figli, essi possono perfettamente realizzare una vera famiglia sull’esempio della castissima Sacra Famiglia di Nazareth; in questo caso la Chiesa si fida della promessa di questi suoi figli e li riammette alla S. Comunione, aiutandoli con l’amore e la preghiera ad accettare la loro condizione nella condivisione di quella che veramente può considerarsi la Croce di Cristo.
Ancora una volta, infatti, le parole di Gesù sono chiarissime: “ Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua” (Mc 8, 34). Infatti, nell’ottica cristiana, la Croce che siamo tutti chiamati a condividere può avere gli aspetti più diversi. Per qualcuno potrà essere sopravvivere ai propri figli assistendo impotenti alla loro agonia (e, personalmente, non riesco a immaginare una croce più atroce di questa); per un altro potrà consistere nell’essere colpiti in giovane età da un cancro o da qualche altra terribile malattia devastante o invalidante; per altri, vedere la propria casa distrutta da un terremoto; per altri ancora, dover fuggire dal proprio paese a causa della guerra e dover sperimentare di persona “siccome sa di sale / lo pane altrui e com’ è duro calle / lo scendere e ‘l salir per l’altrui scale”. Per l’uomo o per la donna abbandonati dal coniuge che subiscono il divorzio senza loro colpa, o per due divorziati risposati civilmente che vogliano tornare alla piena comunione con la Chiesa, la croce potrà consistere nell’abbandonarsi alla volontà di Dio, accettando una vita in totale castità ma nella certezza, alimentata dalla preghiera, che il Padre non consentirà che la loro determinazione possa vacillare.
La condizione umana purtroppo è quella che è: l’influsso nefasto del peccato originale si fa sentire anche a distanza di millenni e il demonio è sempre in agguato nel suggerirci di scuoterci dalle spalle quel peso che può sembrarci insopportabile. Ma non è stato Gesù a dire: “Passate per la porta stretta” (Mt 7, 13)?
Ma pochi versetti prima Gesù ha detto anche: “Chiedete e vi sarà dato; cercate e troverete; bussate e vi sarà aperto” e allora dobbiamo confidare che, se noi “che siamo cattivi” sappiamo dare cose buone ai nostri figli che ce le chiedono, a maggior ragione il Padre celeste accoglierà la nostra preghiera, se Gli chiediamo, costantemente e con cuore sincero, di aiutarci a fare la Sua volontà.
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Sappiamo già da diversi anni che le separazioni coniugali, e i conseguenti divorzi, vanno aumentando in maniera esponenziale coinvolgendo quasi sempre figli minorenni. Questo esito drammatico colpisce anche molti matrimoni celebrati in Chiesa e perciò sacramentali; in molti casi, poi, la cessazione degli effetti civili del matrimonio apre la strada ad un nuovo matrimonio, ovviamente civile, e alla formazione di un nuovo nucleo familiare introducendo anche, nella mente del popolo, una nuova percezione della famiglia, quella della famiglia “allargata”, che vediamo continuamente rappresentata al cinema, in TV, nei media in genere, come situazione “normale”, da considerare inevitabile e tipica di questo nostro tempo.
Voglio lasciare da parte questa volta la presunta “normalità” di questo evento che così spesso purtroppo si verifica nella vita umana, per riflettere piuttosto, da cattolica “bambina”, su quella che chiamerei la “patologia” del matrimonio sacramentale, perché penso che si tratti veramente di una malattia, anche se spirituale e non fisica, condizione molto triste sotto il profilo della fede perché, al pari di una vera malattia, aggredisce e limita la salute spirituale dell’anima, tanto che la Chiesa reputa i coniugi contagiati impossibilitati a ricevere l’Eucaristia, nutrimento naturale delle anime “sane”, così come tanti malati, al pari dei diabetici e a quelli affetti da insufficienza renale, sono impossibilitati a nutrirsi normalmente.
Questo impedimento pastorale, soprattutto negli ultimi anni, è sembrato a tanti coniugi cattolici ingiusto e discriminatorio: in esso hanno visto un rifiuto della Chiesa nei loro riguardi, una sorta di “vendetta” per aver rotto il vincolo coniugale e contratto una nuova unione. Ma non è solo questa la limitazione imposta dalle norme canoniche a una completa partecipazione alla vita della Chiesa: se si è un divorziato risposato non solo si è escluso dai sacramenti in genere, ma non si può essere catechista, né insegnare religione nelle scuole, né essere padrino o madrina di Battesimo o di Cresima. E infatti come si può insegnare ai bambini o ai ragazzi l’indissolubilità del Matrimonio cristiano, se non si vive questa Verità in prima persona? Tuttavia, è del pari innegabile che alla sofferenza di tanti credenti per il fallimento del loro primo matrimonio si è aggiunta la sofferenza di sentirsi condannati e respinti e molti, per questo motivo, abbandonano la Chiesa. Ma le cose stanno davvero così? Non credo, e vorrei provare a rifletterci un po’ sopra per capire se la Chiesa sia davvero così “crudele”.
Mi tornano in mente le parole eterne di Gesù: “Nessuno può servire a due padroni: o odierà l’uno e amerà l’altro, o preferirà l’uno e disprezzerà l’altro; non potete servire a Dio e a mammona” (Mt 6, 24). Infatti a me sembra evidente che coloro i quali, pur professandosi cattolici, decidono di divorziare per poi contrarre un nuovo matrimonio, fanno una scelta calcolata e consapevole; essi sanno perfettamente di adottare uno stile di vita contrario all’insegnamento millenario della Chiesa; sanno che, risposandosi, finiranno per servire a mammona (ossia si adegueranno allo stile del “mondo”) anziché a Dio e allora, per coerenza, devono accettare le limitazioni alla loro partecipazione alla vita ecclesiale poste dalla Chiesa stessa la quale, dal canto suo, non giudica l’”animus” degli interessati (a questo penserà Dio) ma solo il loro comportamento concreto contrario al Vangelo.
Ma perché oggi tanti matrimoni falliscono? Perché quando ci si sposa si è quasi sempre travolti dall’ “innamoramento”, piuttosto che dall’amore – come ha dimostrato Francesco Alberoni in un suo famoso saggio di qualche anno fa – cioè da quella esaltazione, da quel coinvolgimento totale dello spirito, della mente e dei sensi che sembra dover durare in eterno restando sempre uguale ”nella buona e nella cattiva sorte”; ma in realtà nessuno si sposa pensando alla cattiva sorte. Si è pronti a tutto, anche alla cattiva sorte, pur di affrontarla da sposati, da innamorati. Ma poi quell’esaltazione deve necessariamente cessare per fare posto all’”amore”, quel dono meraviglioso che Dio ha elargito agli esseri umani, quel legame che si alimenta ogni giorno di oblatività, comprensione, disponibilità, perdono, tolleranza reciproca, apertura alle esigenze dell’altro che S. Paolo definisce “mistero grande” (Ef 5, 32). Se non verifica questo salto di qualità nel rapporto reciproco, o se non si ha la forza o la maturità di favorirlo temperando l’emotività con la ragione, allora tanti matrimoni vanno male, perché il Male può attecchire ovunque, anche nell’ambito di un Matrimonio sacramentale. Purtroppo nell’ultimo secolo il femminismo ugualitario di stampo marxista – che ha falsamente concepito la giustizia come “tutti uguali” – ha fatto credere che l’emotività sia uguale sia per l’uomo che per la donna. Invece l’amore non è solo emotività: esso deve essere coniugato con le istanze dell’altro, con le circostanze, con i legami familiari,e sociali, sviluppando tutte le facoltà spirituali e crescendo in tutte le virtù umane e relazionali. In una parola, l’amore deve maturare come un qualunque frutto che, se viene raccolto troppo presto, rimane allo stato acerbo e risulta immangiabile.
Purtroppo oggigiorno molti fidanzati non hanno la pazienza di aspettare la maturazione del loro sentimento e la libertà sessuale extramatrimoniale di cui godono non favorisce (contrariamente a quanto si crede) il perfezionamento di quel processo psicologico e spirituale necessario alla concretizzazione di quel “mistero grande”. Perciò spesso le coppie si avviano al divorzio con enorme leggerezza e poi alla ricerca di un nuovo partner perché – malgrado il relativismo e il nichilismo che impregnano la nostra civiltà – l’essere umano tende sempre a qualcosa di assoluto che duri per sempre e non vuole rinunciare a un rapporto che duri tutta la vita. Ma essi non pensano (o dimenticano) che accedendo al Sacramento del Matrimonio, essi hanno fatto una solenne promessa a Dio, prima ancora che alla persona che è diventata la loro moglie o il loro marito.
Quando un matrimonio crolla, i coniugi devono prendere atto che il loro progetto di vita è fallito e la loro sofferenza esistenziale merita rispetto e partecipazione umana. La Chiesa è ben consapevole di questo, ma è altrettanto consapevole delle “res novae”, ma non sempre buone, che caratterizzano il nostro tempo. Perciò, per il 2014, è stato annunciato un grande Sinodo dei Vescovi che dovrà discutere del problema del matrimonio e della famiglia, ritenuto oggi ineludibile. A questo scopo è stato varato un grande sondaggio presso tutte le Diocesi del mondo, finalizzato a comprendere che cosa pensano del matrimonio i cattolici del XXI secolo.
Devo dire subito (per non essere ipocrita) che questo metodo di acquisizione di notizie da parte della Chiesa non mi piace e non mi sembra in armonia con la sua natura di “Mater et Magistra”. Dei sondaggi si servono i politici (Berlusconidocet) per capire l’aria che tira presso i potenziali elettori al fine di accontentarli e garantire a se stessi una lunga permanenza sulla loro poltrona. Ma il compito della Chiesa non è accontentare i suoi elettori, essa deve accontentare solo Dio proclamando la Sua Parola e rammentandola al suo gregge, quando questo sembra dimenticarla, senza stancarsi mai anche a costo di diventare noiosa e impopolare, come S. Paolo raccomanda a Timoteo (2Tm 4, 1 -2).
Perciò dobbiamo intenderci bene sul tipo di aiuto umano e di vicinanza fraterna di cui hanno bisogno quei nostri fratelli che hanno sperimentato il fallimento del loro matrimonio, perché il “mondo” oggi tende (erroneamente) a consolare il loro dolore invitandoli a cercarsi un nuovo partner. Infatti i secondi matrimoni sono frequenti anche tra persone che si professano cattoliche; spesso questi secondi legami sono ritenuti manifestazione di “fiducia nella vita” e si vuole intravedere in essi, a livello esistenziale, l’esperienza di un’autentica “metànoia” relativa alla vita coniugale, la formazione, cioè, di un progetto di coppia aperto all’amore e all’autentico valore del matrimonio. E’ noto infatti che alcune Diocesi, come quella di Friburgo, la seconda per importanza tra le Diocesi tedesche, affida a religiosi la cura dei divorziati risposati, ascoltando le loro drammatiche situazioni e aiutandoli ad accostarsi di nuovo all’Eucaristia. Altri vorrebbero che la Chiesa cattolica seguisse l’esempio della Chiesa ortodossa che ammette le seconde nozze entro certi limiti e se, a certe condizioni, ravvisa nella situazione concreta l’avvenuta “morte del matrimonio”. Ma, con tutto il rispetto per i nostri fratelli ortodossi, che significa “morte del matrimonio”? Molti ritengono che il matrimonio “muoia” con l’adulterio di uno dei coniugi che, venendo meno all’obbligo di fedeltà, “ritirerebbe” (per così dire) il proprio consenso. A giudizio di un’umile cattolica “bambina”questa visione del matrimonio è contrattualistica e non certo sacramentale.
Ma soprattutto, è conforme alla Parola di Dio? Non si pensi che io voglia entrare nel dibattito teologico su questo spinoso problema, perché non ne ho certo la competenza, o ergermi a giudice di situazioni spesso così dolorose: nulla è più lontano dai miei sentimenti e dalle mie intenzioni ma, data l’onestà di intenti che animano le mie parole, devo dichiarare subito, da cattolica “bambina e parruccona” quale sono, che io vedo nei cattolici che vogliono “ rifarsi una vita”, un sostanziale allontanamento dal Vangelo. Perciò penso che bisogna tornare a riflettere sulle parole di Cristo.
Gli si avvicinarono allora alcuni farisei per metterlo alla prova e gli chiesero: “E’ lecito ad un uomo ripudiare la propria moglie per qualsiasi motivo?” Ed egli rispose: “ Non avete letto che il Creatore da principio li creò maschio e femmina e disse: Per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due saranno una carne sola? Così non sono più due ma una carne sola. Quello dunque che Dio ha congiunto, l’uomo non lo separi”. Gli obiettarono: “Perché allora Mosè ha ordinato di darle l’atto di ripudio e di mandarla via?”. Rispose loro Gesù: “Per la durezza del vostro cuore Mosè vi ha permesso di ripudiare le vostre mogli, ma da principio non fu così. Perciò io vi dico: Chiunque ripudia la propria moglie, se non in caso di concubinato, e ne sposa un’altra commette adulterio” (Mt 19, 3 – 9). L’eccezione riferita da Matteo (pornèia, che la Bibbia di Gerusalemme traduce con concubinato) indica un atto o un comportamento immorale in ambito sessuale, che nel matrimonio ha anche carattere adulterino e in tutto l’Occidente, da S. Girolamo in poi, è stata interpretata come consenso alla separazione, ma non alle nuove nozze. Invece, secondo l’evangelista Marco – che riconosce anche lui l’indulgenza di Mosè come dovuta alla duritia cordis – Gesù è ancora più drastico: “Chi ripudia la propria moglie e ne sposa un’altra commette adulterio contro di lei; se la donna ripudia il marito e ne sposa un altro, commette adulterio” (Mc 10, 11 – 12).
Le parole di Cristo sono chiarissime e inequivocabili: come si può pensare di adeguare questo preciso insegnamento ai comodi del “mondo”? Se la Chiesa non può cambiare la disciplina dei Sacramenti, nondimeno essa non ha mai pronunciato parole di condanna o di scomunica nei confronti dei divorziati risposati. Anzi, gli ultimi Papi hanno sempre detto di condividere il loro dolore li hanno paternamente esortati a non sentirsi esclusi dalla Chiesa, a pregare, a partecipare alla S. Messa domenicale facendo la Comunione spirituale, non potendo accostarsi a quella sacramentale. La Congregazione per la dottrina della fede anni fa aveva addirittura prospettato la cosiddetta soluzione del “fratello – sorella”, vale a dire che i divorziati risposati sarebbero riammessi all’Eucaristia a patto che si impegnino a vivere con il nuovo coniuge in totale castità. Questa soluzione ha suscitato molte perplessità ed è stata anche accusata di ipocrisia ma io, cattolica “bambina”, la ritengo invece perfettamente logica, sensata ed anche caritatevole.
Infatti, la Chiesa in questi casi non impone affatto la separazione dei due partner, soprattutto se essi hanno generato dei figli i quali hanno pieno diritto di vivere e crescere avendo accanto a sé entrambi i genitori e, per di più, l’affetto reciproco non è mai da condannare, ma vuole far capire agli interessati che, nella tradizione cattolica – supportata da duemila anni di riflessione teologica che non ha mai conosciuto smentite o inversioni di tendenza – l’unione sessuale è considerata atto proprio degli sposi; perciò accettando di vivere in castità, essi devono riconoscere che la loro unione non è coniugale.
E’ ipocrisia, questa? Non credo. Lo ritengo, piuttosto, un indirizzo pastorale improntato alla carità. Se un uomo e una donna si amano e amano i loro figli, essi possono perfettamente realizzare una vera famiglia sull’esempio della castissima Sacra Famiglia di Nazareth; in questo caso la Chiesa si fida della promessa di questi suoi figli e li riammette alla S. Comunione, aiutandoli con l’amore e la preghiera ad accettare la loro condizione nella condivisione di quella che veramente può considerarsi la Croce di Cristo.
Ancora una volta, infatti, le parole di Gesù sono chiarissime: “ Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua” (Mc 8, 34). Infatti, nell’ottica cristiana, la Croce che siamo tutti chiamati a condividere può avere gli aspetti più diversi. Per qualcuno potrà essere sopravvivere ai propri figli assistendo impotenti alla loro agonia (e, personalmente, non riesco a immaginare una croce più atroce di questa); per un altro potrà consistere nell’essere colpiti in giovane età da un cancro o da qualche altra terribile malattia devastante o invalidante; per altri, vedere la propria casa distrutta da un terremoto; per altri ancora, dover fuggire dal proprio paese a causa della guerra e dover sperimentare di persona “siccome sa di sale / lo pane altrui e com’ è duro calle / lo scendere e ‘l salir per l’altrui scale”. Per l’uomo o per la donna abbandonati dal coniuge che subiscono il divorzio senza loro colpa, o per due divorziati risposati civilmente che vogliano tornare alla piena comunione con la Chiesa, la croce potrà consistere nell’abbandonarsi alla volontà di Dio, accettando una vita in totale castità ma nella certezza, alimentata dalla preghiera, che il Padre non consentirà che la loro determinazione possa vacillare.
La condizione umana purtroppo è quella che è: l’influsso nefasto del peccato originale si fa sentire anche a distanza di millenni e il demonio è sempre in agguato nel suggerirci di scuoterci dalle spalle quel peso che può sembrarci insopportabile. Ma non è stato Gesù a dire: “Passate per la porta stretta” (Mt 7, 13)?
Ma pochi versetti prima Gesù ha detto anche: “Chiedete e vi sarà dato; cercate e troverete; bussate e vi sarà aperto” e allora dobbiamo confidare che, se noi “che siamo cattivi” sappiamo dare cose buone ai nostri figli che ce le chiedono, a maggior ragione il Padre celeste accoglierà la nostra preghiera, se Gli chiediamo, costantemente e con cuore sincero, di aiutarci a fare la Sua volontà.
http://www.riscossacristiana.it/matrimonio-divorzio-nuovo-matrimonio-il-punto-di-vista-di-una-cattolica-bambina-di-carla-dagostino-ungaretti/
?Battesimo figlia coppia sposata solo civilmente: la Chiesa non è una dogana
?Battesimo figlia coppia sposata solo civilmente: la Chiesa non è una dogana
Don Giorgio Mazzanti, sacerdote diocesano a Firenze, docente di teologia sacramentaria presso la Pontificia Università Urbaniana "Battezzare la figlia di una coppia sposata solo civilmente, come ha fatto Papa Francesco domenica 12 gennaio , non è una novità, né per quanto riguarda l'atteggiamento pastorale di Jorge Mario Bergoglio, né per la vita della Chiesa. E' noto che già da cardinale, il futuro Papa Francesco, aveva battezzato figli di coppie non sposate in Chiesa. Il Papa dimostra di conoscere benissimo la teologia e la dottrina, ma allo stesso tempo vuole essere aperto al desiderio, all'esigenza delle persone, come a quello di questa coppia sposata solo civilmente. Mi sembra che in fondo il Papa riconosca che anche un semplice matrimonio umano è già qualcosa di grande. Lo stesso Giovanni Paolo II parlava del matrimonio umano come sacramento primordiale, originario. Quindi c'è una valenza sacra e religiosa già in un matrimonio civile che deve però arrivare alla pienezza. Nella 'Evangelii gaudium' il Papa scrive che 'tutti possono partecipare in qualche modo alla vita ecclesiale e nemmeno le porte dei Sacramenti si dovrebbero chiudere per una ragione qualsiasi'. In fondo il gesto compiuto nella Sistina concretizza questa affermazione. In fondo, la cosa importante, è permettere a ogni persona di trovare una porta aperta che la introduca al mistero. Penso che il Papa intuisca benissimo che la Chiesa - e qui uso una sua immagine - 'non può fare da dogana'. Deve invece permettere alle persone di incontrare Gesù Cristo che è il vero Salvatore. La Chiesa è funzionale a Gesù Cristo. Per cui Francesco è stato attento alla spinta presente nel cuore di queste persone, a questo desiderio iniziale. Intuisce che anche se non sono ancora compiute e realizzate, dal punto della fede, c'è in loro un desiderio che li muove. Non si può quindi impedirgli di incontrare Cristo. Con ciò non credo che il Papa voglia annullare il cammino normale dei sacramenti nella vita della Chiesa. Credo anzi che colga benissimo i senso della profezia di Isaia - nella liturgia della Parola di domenica scorsa - che ci invita a non spegnere lo stoppino che fa fatica a prendere fuoco, a non spezzare la canna incrinata. Credo inoltre che, a questo proposito, sia completamente assente in Papa Bergoglio il desiderio di trionfalismo, di proselitismo, e cioè di fare numero celebrando un battesimo. Qui c'è l'attenzione al desiderio delle persone. Nella sua idea di Chiesa come 'ospedale da campo' Francesco è convinto - come dichiarò da cardinale in un'intervista - che 'i sacramenti sono per la vita degli uomini e delle donne così come sono'. Non vuole umiliare la prassi sacramentaria normale ma vivere questa attenzione alle situazioni particolari. In generale possiamo dire che, anche se accade, un sacerdote non potrebbe rifiutarsi di amministrare un sacramento. I sacramenti sono per le persone. Un sacerdote non può arrogarsi il potere discriminante di decidere o meno. Deve valutare se ci siano le condizioni per così dire minime iniziali e però non può negare in assoluto il dono del sacramento alle persone che lo chiedono. E' chiaro che è tenuto a un minimo di discernimento, non si può amministrare un sacramento a caso, al primo venuto. Ma dove viene espresso un desiderio sincero e la volontà di riceverlo, bisogna saper cogliere questa richiesta di vivere nel profondo il mistero del sacramento. Nella mia esperienza di pastore ho imparato che rispondere di no, per principio, a chi richiede un sacramento, l'irrigidimento iniziale, non serve a nulla. E' necessario stabilire un dialogo, far cadere certe barriere giuridiche, per consentire, per esempio, a una coppia di aprirsi al mistero. Alla fine è proprio un gesto di maternità da parte della chiesa e di paternità da parte di un sacerdote. E la madre e il padre si adattano alla situazione dei figli. E' quella che si chiama 'condiscendenza', l'attenzione premurosa". (Intervista a cura di Fabio Colagrande) http://it.radiovaticana.va/105/articolo.asp?c=763959 |
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