I doveri dell' intellettuale. L' importanza di non tacere
Ringrazio il lettore Enrico, perché con il suo messaggio sotto riportato mi ha indotta ad approfondire ed a trovare in rete [qui]
il testo che segue, che vi propongo perché contiene spunti di
riflessione notevoli, perfettamente calzanti con la realtà che si sta
dipanando con ingravescente drammaticità, fatte salve impreviste e
imprevedibili evoluzioni.
Non pensavo di pubblicarlo già stasera, ma ho appena finito di leggere, su Riscossa Cristiana [qui], l'articolo del Direttore, Paolo Deotto che, proprio nei commenti di uno quegli articoli per i quali e' chiamato in causa, ha inopinatamente censurato una mia corretta replica al fuoco amico che lanciava strali su questo blog. Il suo titolo già vi dice: "Dai profeti del dialogo e della misericordia, una nuova brillante iniziativa: Enzo Bianchi minaccia azioni giudiziarie contro Riscossa Cristiana".
Non pensavo di pubblicarlo già stasera, ma ho appena finito di leggere, su Riscossa Cristiana [qui], l'articolo del Direttore, Paolo Deotto che, proprio nei commenti di uno quegli articoli per i quali e' chiamato in causa, ha inopinatamente censurato una mia corretta replica al fuoco amico che lanciava strali su questo blog. Il suo titolo già vi dice: "Dai profeti del dialogo e della misericordia, una nuova brillante iniziativa: Enzo Bianchi minaccia azioni giudiziarie contro Riscossa Cristiana".
Non possum scribere in eum qui potest proscribere: sta tutto qui il dramma di ogni libertà di pensiero che abbia il coraggio di uscire dall'ironia soggettivistica.Questo vale anche nella Chiesa. Di più, direi che vale a fortiori nella Chiesa: al di sotto del cielo delle più sottili dispute teologiche si aprono sempre gli abissi del potere e con essi dell'inimicizia politica.Davvero la fede non è mai una questione privata.
Trovo, in una nota a una pagina scherzevole di Jhering, le parole di Macrobio: "Ego taceo, non est enim facile in eum scribere qui potest proscribere...".
Non sono in grado - limiti delle letture campagnole! - né di
controllare la correttezza del testo né di conoscere le circostanze, in
cui quelle profonde e terribili parole furono pronunciate. Certo è che
esse debbono ben riflettere uno stato d'animo, un'angoscia propria
dell'intellettuale, se le ritroviamo, a distanza di quindici secoli,
nella difesa schmittiana dell'ambiguo rapporto con il nazismo. Anzi Carl
Schmitt le volge in forma più secca e recisa: "Non possum scribere in eum qui potest proscribere": dove il non possum
indica, non una semplice difficoltà, un non "essere facile", ma una
reale impotenza, da cui in ogni caso non riusciremmo ad affrancarci. La
difficoltà suggerisce espedienti e astuzie, volti ad aggirare l'
occhiuta polizia del tiranno; l'impotenza schmittiana ci dice che tutto è
inutile e vano, e che la "sicurezza" val pure un sacrificio di libertà.
L'antico detto anche ci spinge a considerare il gioco sottile dello scribere e del proscribere;
dello scrivere intellettuale, che si leva contro il tiranno o
l'autorità pubblica; e dello scrivere politico - giuridico, dal quale si
è messi al bando e condannati all'esilio. L'uno e l'altro, chi
consideri a fondo le cose, sono forme del potere, ignote a coloro che o
siano in grado soltanto di parlare o non abbiano la capacità e l'energia
di scrivere in eum. Il quale ultimo non è un semplice scrivere,
un bruttar carta con l' inchiostro, ma una battaglia di parole fermate
nel documento, che nel tiranno suscita fastidio apprensione timore.
Forme in certo modo fraterne e solidali, poiché separano scrittori e proscrittori dalla massa ignara e incolta, estranea alla lotta tra gli artefici del documento.
Roland Barthes distingueva - in un prezioso e lontano articolo - ecrivains ed ecrivants,
scrittori intransitivi e scrittori transitivi. Questi ultimi svolgono
un'attività , si propongono un fine, o politico o sociale o religioso,
di cui la parola è soltanto un mezzo. Quegli che scrive in eum, contro il potere capace di mettere al bando, appare come un ecrivant; e, perciò sentito e trattato per nemico, da condannarsi e allontanarsi in esilio. Gli ecrivains
non minacciano il potere politico - giuridico, non destano allarme e
timore, non corrono il pericolo della proscrizione. Non è un caso che
Barthes tratteggi la distinzione in un fascicolo di Arguments dedicato agli intellettuali e rievocante il "manifesto" del 1898 in favore di Dreyfus.
Quello di Macrobio è, dunque, un detto di intellettuale e per gli
intellettuali, i quali, esercitando un contro - potere, si servono della
parola scritta per perseguire un fine di carattere pubblico, e così
entrano nel conflitto politico. Non conflitto (che neanche sarebbe
concepibile) tra letteratura e politica, ma, schiettamente e duramente,
fra due visioni politiche. L'ego taceo di Macrobio non è il
silenzio della distanza, ma il silenzio calcolante della difficoltà o
della paura. Il silenzio di colui che ha il potere dello scrivere, non
costituisce una situazione ambigua e inespressiva, non nasconde insieme
un sì e un no; ma rivela di per sé una volontà di star fuori,
un'impartecipe estraneità, la quale può anche (e la storia degli ultimi
due secoli ce ne porge taluna prova) venire in sospetto ed essere tenuta
per ostile dissenso.
Si apre qui il capitolo della moralità dell' intellettuale: se egli, per
dovere intrinseco e ineludibile, sia tenuto a levarsi, costi quel che
costi, contro il potere; o se, come a uomo tra gli uomini, non chiamato a
pubblica funzione, gli sia lecito di valutare rischi e incognite dello
scrivere.
Nell'alternativa sono racchiusi problemi del potere e della dignità
morale. La scrittura può obbedire alla logica dei poteri e, nel
conflitto, farsi cauta o silenziosa. Ovvero sentire che il proprio
potere è insieme dignità morale e coraggio di testimonianza; e che il
silenzio ne segna invece il rapido declino. Potere, il quale, nel non
esercitarsi, si perde e consuma.
Perché questo ci sembra essenziale dello scrivere, che esso deve
offrirsi agli altri; e nel silenzio corre il rischio di decadere e
dissolversi. Gli intellettuali - vogliamo dire - non sono tali soltanto
quando vengono in conflitto col potere politico: è nella loro libertà di
dissentire o consentire, ma non è nella loro identità di rifugiarsi nel
silenzio e cosi' di sottrarsi al rischio della scelta.
Irti Natalino [qui]
Pagina 35(28 ottobre 1999) - Corriere della Sera
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