ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

sabato 2 agosto 2014

L' importanza di non tacere

 I doveri dell' intellettuale. L' importanza di non tacere

Ringrazio il lettore Enrico, perché con il suo messaggio sotto riportato mi ha indotta ad approfondire ed a trovare in rete [qui] il testo che segue, che vi propongo perché contiene spunti di riflessione notevoli, perfettamente calzanti con la realtà che si sta dipanando con ingravescente drammaticità, fatte salve impreviste e imprevedibili evoluzioni.
Non pensavo di pubblicarlo già stasera, ma ho appena finito di leggere, su Riscossa Cristiana [qui], l'articolo del Direttore, Paolo Deotto che, proprio nei commenti di uno quegli articoli per i quali e' chiamato in causa, ha inopinatamente censurato una mia corretta replica al fuoco amico che lanciava strali su questo blog. Il suo titolo già vi dice: "Dai profeti del dialogo e della misericordia, una nuova brillante iniziativa: Enzo Bianchi minaccia azioni giudiziarie contro Riscossa Cristiana".
Non possum scribere in eum qui potest proscribere: sta tutto qui il dramma di ogni libertà di pensiero che abbia il coraggio di uscire dall'ironia soggettivistica.
Questo vale anche nella Chiesa. Di più, direi che vale a fortiori nella Chiesa: al di sotto del cielo delle più sottili dispute teologiche si aprono sempre gli abissi del potere e con essi dell'inimicizia politica.
Davvero la fede non è mai una questione privata.

Trovo, in una nota a una pagina scherzevole di Jhering, le parole di Macrobio: "Ego taceo, non est enim facile in eum scribere qui potest proscribere...". Non sono in grado - limiti delle letture campagnole! - né di controllare la correttezza del testo né di conoscere le circostanze, in cui quelle profonde e terribili parole furono pronunciate. Certo è che esse debbono ben riflettere uno stato d'animo, un'angoscia propria dell'intellettuale, se le ritroviamo, a distanza di quindici secoli, nella difesa schmittiana dell'ambiguo rapporto con il nazismo. Anzi Carl Schmitt le volge in forma più secca e recisa: "Non possum scribere in eum qui potest proscribere": dove il non possum indica, non una semplice difficoltà, un non "essere facile", ma una reale impotenza, da cui in ogni caso non riusciremmo ad affrancarci. La difficoltà suggerisce espedienti e astuzie, volti ad aggirare l' occhiuta polizia del tiranno; l'impotenza schmittiana ci dice che tutto è inutile e vano, e che la "sicurezza" val pure un sacrificio di libertà.

L'antico detto anche ci spinge a considerare il gioco sottile dello scribere e del proscribere; dello scrivere intellettuale, che si leva contro il tiranno o l'autorità pubblica; e dello scrivere politico - giuridico, dal quale si è messi al bando e condannati all'esilio. L'uno e l'altro, chi consideri a fondo le cose, sono forme del potere, ignote a coloro che o siano in grado soltanto di parlare o non abbiano la capacità e l'energia di scrivere in eum. Il quale ultimo non è un semplice scrivere, un bruttar carta con l' inchiostro, ma una battaglia di parole fermate nel documento, che nel tiranno suscita fastidio apprensione timore. Forme in certo modo fraterne e solidali, poiché separano scrittori e proscrittori dalla massa ignara e incolta, estranea alla lotta tra gli artefici del documento.
Roland Barthes distingueva - in un prezioso e lontano articolo - ecrivains ed ecrivants, scrittori intransitivi e scrittori transitivi. Questi ultimi svolgono un'attività , si propongono un fine, o politico o sociale o religioso, di cui la parola è soltanto un mezzo. Quegli che scrive in eum, contro il potere capace di mettere al bando, appare come un ecrivant; e, perciò sentito e trattato per nemico, da condannarsi e allontanarsi in esilio. Gli ecrivains non minacciano il potere politico - giuridico, non destano allarme e timore, non corrono il pericolo della proscrizione. Non è un caso che Barthes tratteggi la distinzione in un fascicolo di Arguments dedicato agli intellettuali e rievocante il "manifesto" del 1898 in favore di Dreyfus. 
Quello di Macrobio è, dunque, un detto di intellettuale e per gli intellettuali, i quali, esercitando un contro - potere, si servono della parola scritta per perseguire un fine di carattere pubblico, e così entrano nel conflitto politico. Non conflitto (che neanche sarebbe concepibile) tra letteratura e politica, ma, schiettamente e duramente, fra due visioni politiche. L'ego taceo di Macrobio non è il silenzio della distanza, ma il silenzio calcolante della difficoltà o della paura. Il silenzio di colui che ha il potere dello scrivere, non costituisce una situazione ambigua e inespressiva, non nasconde insieme un sì e un no; ma rivela di per sé una volontà di star fuori, un'impartecipe estraneità, la quale può anche (e la storia degli ultimi due secoli ce ne porge taluna prova) venire in sospetto ed essere tenuta per ostile dissenso. 
Si apre qui il capitolo della moralità dell' intellettuale: se egli, per dovere intrinseco e ineludibile, sia tenuto a levarsi, costi quel che costi, contro il potere; o se, come a uomo tra gli uomini, non chiamato a pubblica funzione, gli sia lecito di valutare rischi e incognite dello scrivere. 
Nell'alternativa sono racchiusi problemi del potere e della dignità morale. La scrittura può obbedire alla logica dei poteri e, nel conflitto, farsi cauta o silenziosa. Ovvero sentire che il proprio potere è insieme dignità morale e coraggio di testimonianza; e che il silenzio ne segna invece il rapido declino. Potere, il quale, nel non esercitarsi, si perde e consuma. 
Perché questo ci sembra essenziale dello scrivere, che esso deve offrirsi agli altri; e nel silenzio corre il rischio di decadere e dissolversi. Gli intellettuali - vogliamo dire - non sono tali soltanto quando vengono in conflitto col potere politico: è nella loro libertà di dissentire o consentire, ma non è nella loro identità di rifugiarsi nel silenzio e cosi' di sottrarsi al rischio della scelta.
Irti Natalino [qui]
Pagina 35
(28 ottobre 1999) - Corriere della Sera

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