Padre Giovanni Scalese: “La Chiesa deve offrire all’uomo la verità, cioè Cristo”
Padre Giovanni Scalese (Roma, 1955) appartiene all’Ordine dei Chierici Regolari di San Paolo (Barnabiti). È sacerdote dal 1981. Ha conseguito il baccalaureato in filosofia e in teologia alla Pontificia Università San Tommaso (Angelicum) e la licenza in teologia (specializzazione in teologia biblica) alla Pontificia Università Gregoriana. Si è laureato in filosofia all’Università di Bologna con una tesi su Il Rosminianesimo nell’Ordine dei Barnabiti (Barnabiti Studi, 7/1990-9/1992). Ha insegnato religione, storia e filosofia al Collegio alla Querce di Firenze, al Collegio San Luigi di Bologna e all’Istituto Bianchi di Napoli. Dal 1994 al 1999 è stato rettore della Querce; dal 2000 al 2006, assistente generale dell’Ordine. Dal 2003 al 2009 è stato missionario in Asia; dal 2011 al 2014 rettore del Bianchi. Insieme con Padre Antonio Gentili ha pubblicato il Prontuario dello spirito. Insegnamenti ascetico-mistici di Sant’Antonio Maria Zaccaria (Milano, 1994). Ha curato la prima edizione italiana delle Costituzioni dei Chierici Regolari di San Paolo del 1579 (Barnabiti Studi, 31/2014). Il suo blog personale si chiama Antiquo robore.
Rev. Padre Giovanni, prima di tutto, vogliamo ringraziarla per averci concesso quest’intervista. Negli ultimi anni, soprattutto a proposito dei tre documenti pontifici di Papa Francesco, è tornata con insistenza alla ribalta la questione della distinzione fra magistero “ordinario” e “straordinario”. Non tutti, però, ne conoscono la differenza. Può spiegarci in che cosa consiste?
Padre Giovanni Scalese ritratto nel 2015.
La distinzione fra magistero “ordinario” e “straordinario” potrebbe sembrare comoda e chiara, ma non descrive con precisione la complessità della materia. Penso che essa possa essere considerata superata e vada perciò lasciata cadere. I punti di riferimento a nostra disposizione sono i seguenti:
- Concilio Vaticano II, Lumen gentium, n. 25;
- Catechismo della Chiesa cattolica, nn. 891-892;
- Codice di diritto canonico, can. 750 (come modificato dal m. p. di Giovanni Paolo II Ad tuendam fidem del 18 maggio 1998) e can. 752;
- Professione di fede;
- Congregazione per la dottrina della fede, Nota dottrinale del 29 giugno 1998.
Il contenuto di questi testi non è sempre lineare e può quindi creare una certa confusione. Tenterò di “smontare” tali testi negli elementi che li costituiscono, per poi cercare di “ricomporli” in una maniera più logica e ordinata. Innanzi tutto, noto che non viene mai utilizzata l’espressione “magistero straordinario”; per cui proporrei di adottare una diversa distinzione fra “magistero infallibile” e “magistero autentico”.
I. MAGISTERO INFALLIBILE
Il magistero infallibile può essere considerato da due punti di vista:
A) Dal punto di vista delle modalità di esercizio, il magistero infallibile può essere:
- SOLENNE, quando insegna una dottrina con atto definitorio (a questo corrisponderebbe il magistero “straordinario”).
Il magistero solenne può essere esercitato dal
a) Papa che insegna ex cathedra;
b) Collegio dei Vescovi riunito nel Concilio ecumenico.
- ORDINARIO E UNIVERSALE, quando insegna una dottrina con atto non-definitorio.
B) Quanto all’oggetto, il magistero infallibile può proporre:
- dottrine da credere come divinamente rivelate o de fide credenda (“dogmi”), che richiedono unassenso di fede teologale (esse sono oggetto del can. 750 § 1 e del primo comma della formula conclusiva della Professione di fede);
- dottrine da tenere in maniera definitiva o de fide tenenda (“sententiae definitive tenendae”), che richiedono un assenso fermo e definitivo (esse sono oggetto del can. 750 § 2 e del secondo comma della formula conclusiva della Professione di fede);
II. MAGISTERO AUTENTICO
Il magistero “autentico” (inteso nel senso di “autorevole”) è il magistero ordinario non-infallibile. Esso comprende tutti quegli insegnamenti presentati come veri o almeno come sicuri, anche se non sono stati definiti con giudizio solenne né proposti come definitivi dal magistero ordinario e universale. Tali insegnamenti sono comunque espressione autentica del magistero ordinario del Romano Pontefice o del Collegio dei Vescovi e richiedono, pertanto, l’ossequio religioso della volontà e dell’intelletto. Essi sono oggetto del can. 752 e del terzo comma della formula conclusiva della Professione di fede.
Normalmente i documenti pontifici appartengono al magistero autentico. Possono, in alcuni casi, diventare strumento di magistero infallibile solenne (p. es., la costituzione apostolicaMunificentissimus Deus, con cui Pio XII definì il dogma dell’Assunzione); ma, in tali casi, il loro carattere solenne risulta chiaramente dalla forma letteraria (definitoria) adottata.
Più complesso è stabilire invece se un’enciclica sia espressione di magistero ordinario e universale (e quindi infallibile), dal momento che tale magistero non si esprime in modo definitorio. Attenzione a non confondere gli aggettivi “definitorio” (che si riferisce all’atto con cui una dottrina viene proposta) e “definitivo” (che si riferisce al valore dell’insegnamento in sé): il magistero ordinario e universale propone dottrine da tenere come definitive (e quindi infallibili), ma con un atto non-definitorio (cioè senza ricorrere a una “definizione” solenne). Per fare un esempio, tutto porta a pensare che l’insegnamento dell’Humanae vitae abbia carattere definitivo (e quindi infallibile); ma, dal momento che la forma dell’enciclica non è definitoria, ci può essere — come di fatto c’è — chi mette in dubbio tale carattere (magari appoggiandosi al can. 749 § 3).
Francesco durante la conferenza stampa nel volo di ritorno dalla GMG 2016 in Polonia.
Papa Francesco, in un’intervista, ha detto che «faccio continuamente dichiarazioni e pronuncio omelie, e questo è magistero. Quello che c’è lì è ciò che io penso, e non quello che i media dicono che io penso». Se dunque il magistero “solenne” è sempre infallibile, quando quello “ordinario” non lo è?
Penso che vada fatta una distinzione fra munus docendi della Chiesa, che riguarda tutti i fedeli (e in particolare i suoi “ministri”) e il magisteroecclesiastico, i cui titolari sono esclusivamente il Romano Pontefice e il Collegio dei Vescovi. Ciò non significa che il Papa, ogni volta che apre bocca, esercita la sua funzione magisteriale. Un’omelia non è un atto magisteriale. Quando il Papa tiene l’omelia durante la Messa, esercita, come qualsiasi altro sacerdote, il munus docendi della Chiesa, non la funzione magisteriale del Romano Pontefice. Questo vale, a maggior ragione, per le dichiarazioni, le interviste, i libri, ecc.: non si tratta di atti di magistero. L’esercizio della funzione magisteriale ha le sue regole. A mio parere, finora Papa Francesco l’ha esercitata esclusivamente attraverso i documenti ufficiali da lui emanati (encicliche ed esortazioni apostoliche). Naturalmente, si tratta, in tutti questi casi, di magistero ordinario non-infallibile (in tempi recenti, se non vado errato, solo Giovanni Paolo II ha posto atti di magistero infallibile). Ciò non significa che un atto di magistero debba necessariamente coincidere con un documento scritto: anche un discorso può essere un atto di magistero. Molti radiomessaggi di Pio XII certamente lo furono. Personalmente ritengo che anche il discorso di Benedetto XVI alla Curia Romana del 22 dicembre 2005 aveva carattere magisteriale, sebbene i più (sia a destra che a sinistra) non se ne siano accorti. Rincresce che esponenti del mondo della tradizione abbiano avuto da obiettare al Santo Padre che non bastava dichiarare la continuità dell’insegnamento del Vaticano II con la tradizione precedente, ma che essa andava dimostrata, come se Benedetto XVI stesse esprimendo in quell’occasione una personale opinione teologica, quando si trattava del Successore di Pietro che autoritativamente indicava alla Chiesa l’unico modo legittimo di interpretare il Concilio. Sono errori che si pagano.
Benedetto XVI annuncia la propria decisione di rinunciare al pontificato.
La rinuncia di Benedetto XVI, benché festeggiata da molti, ha lasciato, oltre che una profonda ferita, anche tanti dubbi e tanta preoccupazione. Le recenti dichiarazioni di Mons. Georg Gänswein — di cui Lei si è già occupato — hanno aumentato la confusione e lo smarrimento. La Chiesa ha la potestà di modificare ilmunus petrinum?
Direi proprio di no. La Chiesa ha ricevuto dal suo Fondatore solo l’autorità di conservare, approfondire e difendere ildepositum. Essa non ha alcuna autorità per modificarlo. È vero che si parla, legittimamente, di “sviluppo del dogma”; ma ciò è possibile solo alle condizioni indicate da San Vincenzo di Lerino e fatte proprie dal Concilio Vaticano I; e cioè a condizione che si tratti veramente di uno sviluppo e non di un cambiamento della fede: può crescere la comprensione del dogma, “ma sempre rimanendo nel proprio genere, vale a dire conservando la stessa dottrina, lo stesso senso e lo stesso significato” (sed in suo dumtaxat genere, in eodem scilicet dogmate, eodem sensu eademque sententia). Non è pensabile che il supremo pontificato, che per sua natura ha carattere monarchico, diventi un ministero allargato, condiviso, collegiale. La dimensione collegiale della suprema autorità della Chiesa esiste già, e consiste nel collegio episcopale, che succede al collegio apostolico. Ma Cristo ha voluto che il collegio apostolico avesse un capo, e ha quindi conferito a Pietro un primato, che è poi passato ai suoi successori. Il capo del collegio episcopale (il primus) può essere uno solo, il Romano Pontefice. Il suo munus è assolutamente individuale e non può essere condiviso con altri.
Paolo VI depone la tiara.
Facciamo un passo indietro di 52 anni, a quel giorno del novembre del 1964 quando Papa Paolo VI depose, nonostante l’opinione contraria dei cardinali, la propria tiara. Non crede che, con questa deposizione, sia cominciata la “personalizzazione” del papato, ovvero più che l’istituzione in sé, conti la persona privata, più o meno carismatica, che in quel momento siede sulla Cattedra di Pietro?
Sono giunto alla conclusione che ciascuno abbia il “suo” Papa e che questi coincida con il Papa della propria giovinezza. Quando fu eletto Paolo VI (1963), avevo otto anni; quando morì (1978), ne avevo ventitré. Sono cresciuto sotto Paolo VI; per cui per me egli rimane “il” Papa; a tutti è nota la venerazione che ho sempre avuto nei suoi confronti. È ovvio che, col passare degli anni, le cose si incominciano a vedere anche da altri punti di vista; man mano che si invecchia, si scoprono tanti risvolti della vita, che quando si era giovani neppure ci si immaginava. Per cui ora mi rendo conto che, se il Card. Montini fu eletto Papa, lo fu perché era un esponente dello schieramento progressista (altrimenti non sarebbe stato eletto); e quindi alcuni gesti e alcune decisioni, soprattutto all’inizio del pontificato, possono essere spiegate come una specie di “pedaggio” pagato ai suoi elettori. La deposizione della tiara pontificia è uno di quei gesti apparentemente profetici, ma in realtà ideologici (come l’assunzione del nome “Francesco” da parte di Papa Bergoglio), che fanno colpo per il loro valore simbolico, ma che poi lasciano il tempo che trovano. Certamente quel gesto non ha impedito a Paolo VI di svolgere il suo ministero in maniera egregia, con prudenza e coraggio, e in piena autonomia dalla lobby che ne aveva sostenuto l’elezione.
Che sia cominciata con Paolo VI la “personalizzazione” del papato, direi di no. Se c’è un uomo che, per carattere prima che per virtù, rifuggiva il proscenio, questi è proprio Paolo VI. Il fenomeno della spettacolarizzazione e della personalizzazione del papato, a mio avviso, ha avuto inizio con Giovanni Paolo II. E questo si può spiegare non solo con il forte carisma che emanava dalla sua persona, ma anche con lo sviluppo che ebbero i mezzi di comunicazione durante il suo lungo pontificato e con la conseguente nascita della cosiddetta “società dell’immagine”. Se pensiamo che anche la sua malattia — che in un diverso contesto storico-culturale sarebbe rimasta avvolta nella più assoluta privacy (si pensi allo scandalo che provocarono le foto di Pio XII sul letto di morte!) — divenne una specie di show, capiamo che i tempi sono mutati e che una certa personalizzazione è inevitabile, a prescindere dalle persone. L’importante è rendersene conto e cercare di non indulgere in tal senso.
Come evitare che si cada nel culto della personalità, molto spesso amplificato dai mass-media, del pontefice regnante?
La “papolatria” è una tentazione sempre in agguato, con qualsiasi Papa. Personalmente ritengo che, per evitarla, ma soprattutto per ridare al papato la sua funzione originaria, si debba procedere a un “ridimensionamento” della figura del Pontefice, chiunque egli sia. Bisogna evitare la “sovraesposizione mediatica”: non c’è bisogno che ogni giorno i mezzi di informazione parlino del Papa. Come, del resto, non c’è bisogno che il Papa ogni giorno abbia qualcosa da dire, a cominciare dall’omelia quotidiana (una volta i Papi celebravano la Messa al mattino privatamente; fu Giovanni Paolo II che iniziò a invitare le comunità religiose femminili); non c’è bisogno delle adunate oceaniche (è proprio necessario che il Papa partecipi alle Giornate mondiali della gioventù?); nelle stesse udienze generali (che non sono di istituzione divina!), è proprio necessario fare ogni volta il giro della piazza, stringere la mano a tutti, abbracciare e baciare i bambini, ecc. ecc.? Sta scritto nel vangelo che il Papa durante ogni volo debba rilasciare un’intervista ai giornalisti? Non mi sembra che altri capi di Stato lo facciano (vi risulta che la Regina Elisabetta abbia mai fatto una conferenza stampa?). Penso che il Papa — ripeto, chiunque egli sia — debba un po’ riscoprire il suo ruolo specifico, che non è quello di una star, ma quello di chi è chiamato a confermare nella fede i fratelli. Proprio per poter svolgere questo compito, sono necessari riserbo, discrezione, distacco: poche parole, ma quelle giuste, e al momento giusto. Va riscoperta, come si diceva, la dimensione magisteriale del papato, che si esprime in interventi ufficiali, studiati, soppesati, calibrati. Per il resto, come in ogni organizzazione che si rispetti, c’è il portavoce, che risponde alle domande dei giornalisti, non il Papa. Il Papa, una volta diventato tale, dovrebbe dimenticare ciò che era (non per niente, cambia nome). Questo lo imparò, a sue spese, Papa Benedetto: con le reazioni alla lectio magistralis di Ratisbona capì che non era più un docente universitario, ma il Papa.
Il Concilio Vaticano II: un “super-dogma” per alcuni, un “conciliabolo” per altri.
Papa Francesco è stato definito il “primo vero papa del Vaticano II”. Lei che cosa ne pensa?
Che cosa si intende qui con “Vaticano II”? Per usare le espressioni di Benedetto XVI (discorso al Clero romano del 14 febbraio 2013), il Concilio reale (il “Concilio dei Padri”) o quello virtuale (il “Concilio dei media”)? Il Concilio che ha lasciato il suo insegnamento nei sedici documenti sottoscritti dai Padri o quello immaginario nella mente degli studiosi della Scuola di Bologna? Il Concilio o lo “spirito del Concilio”? Il Concilio o il “Patto delle Catacombe”? I Papi che si sono succeduti finora nella sede di Pietro non erano forse conciliari? Non hanno fatto di tutto per attuare il Vaticano II? Certo, sono dovuti anche intervenire a correggere, precisare, interpretare (come era loro dovere); ma questo proprio per fedeltà al Concilio, quello vero. Chi è l’interprete autentico del Concilio? Il Papa o la Scuola di Bologna? Non mi sembra che nel magistero dell’attuale Pontefice ci sia una eccessiva preoccupazione di riallacciarsi al Concilio (ai suoi documenti, intendo): nell’esortazione apostolica Evangelii gaudium, su un totale di 217 note, ho contato 18 riferimenti; nell’enciclica Laudato si’, su 172 note, ho contato 3 riferimenti; nell’esortazione apostolica Amoris laetitia, su 391 note, ho contato 18 riferimenti (quasi tutti, comprensibilmente, alla Gaudium et spes). Mi sembra che i numeri parlino da soli. Questo si può comprendere, dal momento che Papa Francesco è il primo Papa, dopo il Vaticano II, a non aver partecipato al Concilio (non certo per colpa sua, ma semplicemente per motivi anagrafici: quando terminò il Concilio, non era ancora prete). Ma allora non diciamo, per favore, che è il “primo vero Papa del Vaticano II”.
Può chiarire il vero significato di “pastoralità”? Se ne parla moltissimo, ma pochi sanno in cosa consista.
Mons. Gherardini, in una conferenza, paragonava la pastorale all’Araba Fenice (“che vi sia ciascun lo dice, dove sia nessun lo sa”). Io stesso ho espresso il desiderio che qualcuno un giorno si decida a fare la storia dell’orientamento pastorale della Chiesa dei nostri giorni. Sinceramente non saprei dire quando ha avuto inizio questa preoccupazione per la pastorale. Una volta c’erano le lettere pastorali di San Paolo (che oggi ci si guarda bene dall’attribuire a lui) o la Regola pastorale di San Gregorio Magno. Oggi sembra che qualsiasi cosa debba essere “pastorale”, perché altrimenti non sarebbe veramente evangelica. Ora, a parte le radicalizzazioni polemiche, è ovvio che la Chiesa debba avere un atteggiamento pastorale, e cioè l’atteggiamento del pastore, che guida, porta al pascolo e difende il suo gregge. Il problema è che cosa si intende con “pastoralità”. Se consideriamo le lettere pastorali, sono proprio quelle in cui maggiormente si insiste sulla custodia del “deposito”. Oggi invece si è ideologizzato il concetto di pastorale, per contrapporlo alla dottrina: non bisogna preoccuparsi più della dottrina, ma esclusivamente di “curare le ferite” degli uomini, senza poi spiegare quali siano queste ferite e in che cosa consista il curarle. Mi sembra significativo che nella sua prima intervista, rilasciata a Padre Spadaro (La Civiltà Cattolica, n. 3918), Papa Francesco abbia affermato: «Sogno una Chiesa Madre e Pastora» (p. 462). Una volta si sarebbe detto: “Madre e Maestra”. Ecco, oggi sembra che la Chiesa non debba più essere Maestra, che non abbia più nulla da insegnare agli uomini, che debba solo “accoglierli” così come sono e “accompagnarli”. Siamo proprio sicuri che sia questo ciò che vuole Cristo dalla sua Chiesa? È vero che lui ha chiamato sé stesso il “buon Pastore”, ma si considerava anche “Maestro e Signore”.
Se è vero che la «più grande astuzia del Diavolo è quella di convincerci che non esiste» (Charles Baudelaire), allora si può ritenere che la sua seconda “grande astuzia” sia quella di essersi “sbarazzato” del depositum fidei non modificandolo, ma accantonandolo col “primato della prassi”?
Credo che si tratti di un pericolo reale: mettere da parte la dottrina, perché astratta (e quindi tendenzialmente ideologica) e fonte di divisione e di conflitti, e preoccuparsi esclusivamente dell’azione pastorale, nella quale invece si incontrano le persone, mettendo tra parentesi tutto ciò che può impedire tale incontro. Mi chiedo: a che pro incontrare le persone, se poi non abbiamo nulla da offrire loro? E non si tratta di offrire solo pane per sfamarli, ma la verità che salva? Ci siamo dimenticati che Gesù, prima di fare la moltiplicazione dei pani, «si mise a insegnare loro molte cose». E fece ciò in quanto, sceso dalla barca, vide una grande folla ed «ebbe compassione di loro, perché erano come pecore che non hanno pastore» (Mc 6:34). L’uomo non ha solo fame di pane, ma anche, e soprattutto, di verità. È ciò che oggi spesso si dimentica. Oltre tutto, la verità che può offrire la Chiesa non è una verità filosofica, umana, ma una verità divina, salvifica, che coincide con una persona, Gesù Cristo. Non parliamo poi del “deposito”: nella nuova traduzione della CEI, la parola è semplicemente… scomparsa. Sembra quasi che ci si debba vergognare di custodire qualcosa. Se pensassimo che il deposito da custodire è il tesoro della fede che salva!
L’Amoris laetitia, il documento più controverso di Francesco.
Arriviamo al più discusso documento di Papa Francesco, l’Amoris laetitia. Abbiamo ricevuto molti commenti in redazione. In particolare, una catechista, in una email, ha espresso la sua preoccupazione: come si può insegnare — domandava — ciò che dice il Catechismo sul sacramento del matrimonio e sul VI Comandamento, quando persino il Papa ha cominciato, tra le righe, ad accettare attenuanti ed eccezioni? Quali sono, dunque, secondo Lei, i “pericoli” di quest’esortazione apostolica?
Il pericolo è uno solo, che crei una grande confusione. Finora la Chiesa, attraverso il suo magistero, aveva svolto un ruolo di chiarificazione, dicendo che cosa è vero e che cosa è falso, che cosa è buono e che cosa è cattivo. Non credo che questo fosse un atteggiamento sbagliato: l’uomo deve poter distinguere la verità dall’errore, il bene dal male; e se non riesce a farlo da solo, ecco che gli viene incontro la Chiesa, in atteggiamento davvero pastorale, per aiutarlo. Poi sappiamo bene che non sempre è facile conformarsi alla verità; un conto è sapere ciò che si deve fare e un conto avere la voglia e la forza di farlo; ma questo è sempre avvenuto e sempre avverrà. Ma, anche in questi casi, non rimaniamo soli, perché, ancora una volta, c’è la Chiesa che ci viene incontro per risollevarci dalle cadute: lo ha sempre fatto e sempre lo farà. Ma è importante che tutto ciò avvenga nella chiarezza. E invece oggi c’è il rischio che si cada nella confusione: non saper più che cosa è giusto e che cosa è sbagliato; va bene tutto, perché tanto, alla fine, Dio è misericordioso. Non so se sia il modo migliore per venire incontro alle attese e ai bisogni dell’uomo.
Molti sacerdoti, nell’introdurre l’atto penitenziale all’inizio della Messa, stanno modificando le parole: “Fratelli, per celebrare degnamente i santi misteri, riconosciamo i nostri peccati”, con: “riconosciamoci peccatori”. Questa modifica, all’apparenza innocua, non introduce piuttosto la generalizzazione dell’essere peccatori, inficiando la responsabilità del peccato e dell’aver peccato, del quale ci si pente e si chiede perdono a Dio ricavando, così, dalla Messa la grazia per non cadere più nelle tentazioni di peccato?
Beh, non credo che si tratti di un abuso: in alcune delle formule alternative contenute nell’edizione italiana del Messale si trova questa espressione. Certamente dobbiamo riconoscerci peccatori, perché questa è la nostra reale condizione. Ma ciò non toglie che si debbano poi riconoscere anche i singoli peccati. Siamo peccatori perché commettiamo peccati. A che servirebbe l’esame di coscienza, se non a individuare i nostri peccati? Quando ci confessiamo, l’accusa dei peccati è uno degli elementi essenziali del sacramento. Ci sono molti che iniziano lodevolmente la confessione dicendo: «Benedicimi, Padre, perché ho peccato»; e poi elencano i singoli peccati commessi. Una confessione senza accusa dei peccati sarebbe una confessione senza materia. Non c’è dubbio, comunque, che anche certe formule approvate riflettono una mentalità, che, abbandonata a sé stessa, potrebbe portare a conclusioni quanto meno discutibili.
Ringraziandola per la sua disponibilità, vorremmo farLe un’ultima domanda. Avrà sicuramente saputo della recente omelia del segretario della CEI mons. Galantino (riportato con plauso sul quotidiano Avvenire) nella quale afferma che Sodoma non venne distrutta, riscrivendo una delle pagine più attuali della Sacra Scrittura: si tratta di uno degli esempi più eclatanti, ma non l’unico, dello sbandamento dottrinale dell’episcopato. Secondo Lei, la Chiesa quando e come uscirà da questa durissima crisi dottrinale, morale, pastorale e liturgica?
Non c’è dubbio che la Chiesa stia attraversando una crisi; non è la prima e non sarà l’ultima. Non so se sia più grave di altre crisi che la Chiesa ha attraversato e superato. Certamente è attraverso queste crisi che la Chiesa cresce e si purifica. Dice il Salmo: «Siamo passati per il fuoco e per l’acqua, ma poi ci hai fatto uscire verso l’abbondanza» (65/66, 12). Il fuoco di Sodoma, che distrugge sì, ma per purificare, e l’acqua del mare in tempesta, che mentre sembra scuotere la barca, in realtà la pulisce dalla sporcizia. La Chiesa, come afferma Sant’Ambrogio, «abluitur undis, non quatitur» (= è lavata dalle onde, non scossa). Quanto ai tempi, non posso entrare nella mente divina. Ciò che conta è non lasciarsi andare al pessimismo e rimanere fedeli nell’ora della prova.
Grazie.
Grazie a voi!