RANTOLO CRISTIANO IN GERMANIA. CHIESE CHIUSE E FUGA DI FEDELI. E I PROTESTANTI CELEBRANO NOZZE GAY SULL’ALTARE
Nel 1963 i nuovi sacerdoti erano stati quattrocento, nel 1993 furono 238, nel 2015 sono scesi a 58. Lo rivela un’inchiesta del quotidiano della cattolicissima Baviera, la Süddeutsche Zeitung
Chiesa S. Maria Assunta a Landsberg am Lech, Baviera (foto Ștefan Jurcă via Flickr)
Roma. Nel paese che ha dato i natali a Benedetto XVI, dove il presidente Joachim Gauck era un pastore protestante e la cancelliera Angela Merkel è figlia di un reverendo luterano, nel paese dei teologi “d’opposizione” come Hans Küng, Uta Ranke-Heinemann e Eugen Drewermann, che hanno alimentato una critica intensa alla gerarchia vaticana su celibato ecclesiastico, controllo delle nascite, ruolo femminile, sacramenti per i divorziati, il cristianesimo sta letteralmente rantolando.
Nel 1963 i nuovi sacerdoti erano stati quattrocento, nel 1993 furono 238 e nel 2013 sono scesi a 98. Nel 2015 si sono nuovamente dimezzati, scendendo a 58. Lo rivela un’inchiesta del quotidiano della cattolicissima Baviera, la Süddeutsche Zeitung. “La chiesa cattolica in Germania sta affrontando una drammatica carenza di sacerdoti”, si legge. “Mai prima di oggi così pochi uomini in Germania erano diventati preti cattolici come l’anno scorso”.
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Le diocesi tedesche risponderanno alla crescente carenza di sacerdoti accorpando parrocchie, chiudendo chiese, chiamando sacerdoti dall’Africa. La chiesa cattolica in Germania ha già chiuso 515 chiese negli ultimi dieci anni, mentre la chiesa evangelica ne ha liquidate 340. Il numero di parrocchie è affondato dal 1995 al 2015: si è passati da 13.300 alle attuali 10.800. L’agonia del cattolicesimo tedesco è dimostrata anche dalla fuga dei fedeli. Con più di 23,7 milioni di membri in Germania, il cattolicesimo è il più grande gruppo religioso nel paese, che comprende il 29 per cento della popolazione. Eppure le persone stanno lasciando la chiesa in massa: nel 2015 in 181.925 hanno fatto formalmente apostasia. In confronto, 2.685 persone sono diventate cattoliche. Un anno fa, un’inchiesta del Foglio aveva dimostrato che le tante aperture della progressista chiesa di Germania miravano proprio a riconquistare cuori (e portafogli) di tanti fedeli. Rispetto alle statistiche ufficiali di venti anni fa, il numero di battesimi è diminuito di un terzo, da 260 mila battezzati nel 1995 a 167 mila nel 2015. La situazione è anche peggiore per i matrimoni. Vent’anni fa, 86.456 coppie si sono sposate in chiesa. L’anno scorso, il numero è sceso di quasi la metà: in una nazione di ottanta milioni di persone, solo 44.298 coppie si sono giurate amore eterno in chiesa. La percentuale di popolazione che frequenta le chiese è scesa dal 18,6 per cento del 1995 al 10,4 per cento del 2015.
Lo chiamano “der neue Atheismus”, il Nuovo Ateismo. Secondo un rapporto stilato da Detlef Pollack, professore di Sociologia delle religioni all’Università di Münster, appena il quattro per cento dei cittadini protestanti frequenta oggi regolarmente la chiesa, rispetto al quindici per cento del 1950. Se continua così, entro il 2033, le chiese avranno meno di 40 milioni di fedeli e il cristianesimo sarà minoranza. Specchio dei tempi: due giorni fa, nella Marienkirche, in piena Alexanderplatz a Berlino, un pastore evangelico ha celebrato le prime nozze omosessuali di fronte a un altare. Sven Kretschmer e Tim Kretschmer-Schmidt si sono scambiati gli anelli in chiesa dopo aver stipulato un’unione civile. Sembra inverarsi la profezia dello scrittore Peter Hahne che, nella “Festa è finita”, si domandava se “la Germania può ancora definirsi un paese cristiano o se non sarebbe più esatto dire che la Germania è un paese prevalentemente ateo dove convivono varie minoranze religiose”. Sta nascendo una sorta di nuova “chiesa del silenzio”, come quella sotto la Ddr.
di Giulio Meotti | 19 Agosto 2016 ore 10:28 Foglio
Vocazioni e matrimoni sempre più in calo nella chiesa di Papa Francesco
Il declino chiarito dai numeri dell’Annuario Pontificio
di Roberto Volpi | 21 Luglio 2016
C’è un dato nell’Annuario Pontificio, edizione 2016, che da solo spiega ogni cosa. Il dato è in verità un indicatore, trattandosi del “potenziale di sostituibilità dei sacerdoti”, che è a sua volta il risultato del rapporto tra il numero dei seminaristi maggiori (coloro che frequentano il seminario maggiore per gli studi teologici, in pratica una università di teologia) e quello dei sacerdoti diocesani. Questo indicatore ha un valore di 66 in Africa, 54 in Asia e appena 10 in Europa: un seminarista maggiore ogni 10 sacerdoti. L’indicatore – un autentico dramma per la chiesa – delle mancate vocazioni in occidente (le cose vanno meglio in America ma siamo pur sempre sotto i livelli di guardia) è dunque lì, spiattellato e documentato senza infingimenti dai dati vaticani. Il valore di 10 appare ancora più striminzito se si pensa, peraltro, che in Europa i sacerdoti sono diminuiti di oltre l’8 per cento negli ultimi dieci anni. Dire che la chiesa ha il problema di rievangelizzare il nostro continente è dire poco, perché la chiesa ha anche il problema di come rievangelizzare l’Europa, con quali forze e quali sacerdoti. Non è un caso se sempre più di frequente capita di trovare nelle chiese delle nostre città sacerdoti africani e sudamericani.
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Il quadro delle criticità si completa coi matrimoni religiosi. Ne hanno parlato in tanti. Ma c’è qualcosa che si deve precisare. Negli ultimi 14 mesi – il 2015 e i primi due mesi del 2016 – dopo anni di amarezze i matrimoni hanno fatto registrare una ripresa d’un certo spessore: più 9.437 pari a più 4,7 per cento rispetto ai 14 mesi precedenti. Il fatto è che, mentre i matrimoni civili aumentavano di 11.268 unità, quelli religiosi continuavano a flettere di 1.831 unità. Il punto è questo: gli ultimi anni, in cui il numero dei matrimoni religiosi ha fatto registrare cali evidenti, sono stati contrassegnati da una stabilità – se non addirittura da una lieve flessione – degli stessi matrimoni civili. Una sorta di regola, quasi, che stava a significare che i matrimoni civili non riuscivano a recuperare i matrimoni persi della chiesa. Ed ecco che quando finalmente i matrimoni tornano a guadagnare qualcosa è solo merito dei matrimoni civili, che fanno un balzo di quasi il 12 per cento, mentre quelli religiosi perdono un altro 1,7 per cento.
Una divergenza di andamenti che accentua oltremisura la crisi del matrimonio religioso, che può ancora vantare un vantaggio su quello civile solo grazie al sud, mentre in tutto il nord e in buona parte del centro è stato già sopravanzato, e non di poco, da quest’ultimo. Questi dunque i fatti, che si prestano a una chiave di lettura che sembra imporsi da sola, come modulata dagli stessi dati. Ma come fare, allora, a non interrogarsi su quella che appare come una contraddizione stridente tra il successo – se vogliamo chiamarlo con un termine d’immediatezza non equivoca – di Francesco come figura e come Papa e l’insuccesso della chiesa che egli rappresenta dal Soglio più alto? In effetti, non ci si può non interrogare su come questo successo personale non riesca a evitare l’evidente declino del cattolicesimo in Europa (e non solo in Europa). Perché il rischio – se oltre a interrogarci non si trova anche qualche risposta o strada più o meno difficilmente spendibile – è proprio questo: che il declino diventi tramonto. Ed è un rischio che si tira dietro altri rischi epocali.
Se dieci anni fa quanti andavano in chiesa almeno una volta alla settimana erano quasi il doppio di quanti non ci andavano mai (33,4 per cento contro il 17,2 per cento), oggi il rapporto si è abbassato a 135: 135 persone che vanno in chiesa almeno una volta alla settimana ogni 100 persone che non ci vanno mai. Rapporto, questo, che nel centro Italia s’è già rovesciato – vanno in chiesa almeno una volta alla settimana 95 persone ogni 100 che non ci vanno mai – nel nord si sta avvicinando a grandi passi alla parità (110) e solo al sud fa registrare un fossato che appare incolmabile (240).
Così l'Europa dimentica la religione
Sempre meno persone nel Vecchio continente ritengono che la religione abbia importanza nella vita di tutti i giorni. I dati di uno studio del Pew Research Center.
di Redazione | 08 Agosto 2016
La chiesa del Gesu e Maria a Napoli
Sempre meno persone in Europa ritengono che la religione abbia importanza nella vita di tutti i giorni. Se infatti in Africa, in Asia centrale e mediorientale e in Sud America, la fede mantiene un ruolo centrale all'interno della società, questo sta sparendo in tutto l'occidente (ad eccezione degli Stati Uniti dove ancora il 53 per cento della popolazione dichiara di considerare ancora importante il fattore religioso).
Come riporta uno studio del Pew Research Center, i tassi più alti di mantenimento della centralità religiosa nella vita di tutti i giorni si riscontrano in Etiopia, dove il 98 per cento degli intervistati dichiara di considerare necessaria la componente religiosa, Senegal, Indonesia e Uganda.
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Se infatti la componente economica sembra prevalere a essere altrettanto importante è la centralità delle istituzioni religiose all'interno della vita sociale, e la situazione politica nella quale le persone vivono. L'instabilità politica genera un aumento del sentimento religioso, come dimostrano i dati riguardanti la variazione delle risposte alla stessa domanda "Quanto ritiene importante la religione nella sua vita?" nel corso degli ultimi 14 anni, tra crisi economica e ondate terroristiche.
Il monaco che non c’è
Ma non ci sono più nemmeno i benedettini né i cappuccini. Gli ordini religiosi al tempo di Francesco. Il problema delle vocazioni in calo e la presa d’atto che non tutti gli ordini e le congregazioni religiose sono più necessari
di Matteo Matzuzzi | 27 Giugno 2016
Ragazzini di un seminario nella Francia di fine anni Trenta
I vecchi seminari sono lì, monumentali e austeri, con parchi ampi e cancelli arrugginiti. Dietro l’inferriata, sovente si scorge qualche vetro rotto, sterpaglie ovunque, silenzio tombale. Cattedrali nel deserto dove non passa più neppure il giardiniere. E’ la sorte toccata a certe chiesette medievali di campagna, crollate su se stesse, vuoi per la forza degli elementi naturali o perché a un certo punto nessuno s’è più occupato di esse. Un po’ come accaduto a Cluny, che secoli addietro fu la più grande e ricca abbazia della cristianità, fondata nel 910 da Guglielmo d’Aquitania e di cui oramai “restano in piedi soltanto il campanile dell’Acqua benedetta e una parte, sventrata, del transetto maggiore. Oggi per vedere Cluny bisogna immaginarla”, scriveva lo storico Glauco Maria Cantarella. Resti di un tempo finito, di un’èra in cui fiumane di bambini entravano lì dentro non solo per farsi preti (almeno, non solo per questo), ma soprattutto perché spinti dai padri a uscire dal destino che la Provvidenza aveva consegnato alla famiglia, di generazione in generazione. Studio anziché lavoro nelle botteghe o nei campi, latino e greco antico invece di scalpello e roncola. Declinazioni e paradigmi verbali imparati a memoria sul vecchio Rocci, fino alle ore piccole, per poi ricordarseli fino alla vecchiaia. Compatendo figli e nipoti che più in là del rosa-rosae non sapevano andare, così impegnati a scaricare l’ultima app o a chattare su Facebook con l’amico virtuale conosciuto poche ore prima su qualche bacheca.
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Il discorso vale pure per gli ordini e le congregazioni religiose, colpiti dalla secolarizzazione e ridotti a fare da conto tra morti, abbandoni e pochi ingressi. “Vi confesso – diceva il Papa lo scorso febbraio in occasione del Giubileo della vita consacrata – che a me costa tanto quando vedo il calo delle vocazioni, quando ricevo i vescovi e domando loro: ‘Quanti seminaristi avete?’ ‘quattro, cinque…’. Quando voi, nelle vostre comunità religiose – maschili o femminili – avete un novizio, una novizia, due… e la comunità invecchia, invecchia. Quando ci sono monasteri, grandi monasteri, che sono portati avanti da quattro o cinque suore vecchiette, fino alla fine. E a me questo fa venire una tentazione che va contro la speranza: ‘Ma, Signore, cosa succede? Perché il ventre della vita consacrata diventa tanto sterile?’”. Più che sul solito refrain del calo delle vocazioni, pur grave e minaccioso, Bergoglio poneva l’accento sull’invecchiamento e quindi sull’intorpidimento di intere comunità. Il rischio, insomma, di badare al quotidiano, conservando il passato nella teca dei ricordi e con ben poca propensione all’uscita e al rinnovamento. Che poi è anche quanto scriveva tempo fa Vittorio Messori, quando notava che “nella prospettiva di fede nulla può esserci di davvero inquietante”. Anche se l’immagine che si presenta gli occhi dell’ossevatore è sempre più spesso quella di vecchi monaci ricurvi che incedono lenti sotto le volte di qualche chiostro benedettino, in monasteri dove un tempo neppure troppo lontano ne passavano, con passo svelto, a decine. Per non parlare di monasteri già affollati di religiose che oggi contano sulle dita d’una mano le anziane custodi di un carisma che sopravvive benché appannato.
Il bilancio, nell’Europa del quaerere Deum, cioè del “cercare Dio e del lasciarsi trovare da lui” – “questo oggi non è meno necessario che in tempi passati”, disse Benedetto XVI parlando nel 2008 al Collegio dei Bernardini di Parigi – è quello che è, “ma non dobbiamo commettere l’errore di concentrarci sulla mancanza di vocazioni. Se cambieremo la vita della chiesa, allora avremo il numero di vocazioni di cui la chiesa avrà bisogno”, ha detto fra Bruno Cadoré, maestro dell’Ordine dei Frati Predicatori nel libro “Viaggio nella vita religiosa”, di Riccardo Benotti, edito di recente della Libreria Editrice Vaticana. E’ anche un invito a cambiare prospettiva, a guardare la situazione partendo da un punto di vista diverso che non sia quello della mera contabilità numerica: “Credo ci sia un problema di vocazioni e di vocazione”, ammette don Flavio Peloso, superiore generale degli Orionini, che però non sembra essere angosciato dalla riduzione dei confratelli: “Io da tanto tempo non parlo e non prego per le vocazioni se non dopo averlo fatto per la nostra vocazione di consacrati. Vedo la matrice della crisi di vocazioni e di vocazione nell’individualismo della cultura odierna, che ci pervade tutti, che fa ritenere troppo impegnativa una consacrazione perpetua e una forma di vita comunitaria come quella dei religiosi”.
Mons. José Rodriguez Carballo, segretario della congregazione per gli Istituti di vita consacrata e le società di vita apostolica, invitava già tre anni fa a non “lasciarci ossessionare dal tema” della mancanza di vocazioni, dal momento che “ogni ossessione è negativa”. “Non entro qui nel dibattito se la crisi della quale si parla sia positiva o no. E’ certo, tuttavia, che, tenendo conto del numero degli abbandoni e che la maggioranza di essi accade in età relativamente giovane, detto fenomeno è preoccupante”, sottolineava Rodriguez Carballo: “D’altra parte, considerando il fatto che l’emorragia continua e non accenna a fermarsi, gli abbandoni sono certamente sintomo di una crisi più ampia nella vita religiosa e consacrata, e la mettono in questione, per lo meno nella forma concreta in cui è vissuta”.
Insomma, bando ai bilancini e alle lamentele. Dopotutto, ha scritto Séan D. Sammon su America magazine, la rivista dei gesuiti statunitensi della East coast, bisogna prendere atto di quanto sia improbabile che le varie forme di vita consacrata presenti nella chiesa si rinnoveranno tutte allo stesso modo o arriveranno al medesimo risultato. Bisogna contestualizzare, tornare alle origini, al perché quegli ordini e quelle congregazioni sono nati. Al loro quaerere Deum, appunto. “Sono espressioni apostoliche che risalgono a tempi specifici della storia che presentavano sfide uniche”. Sfide che in tanti casi sono state vinte, facendo venire meno l’esistenza stessa di quell’ordine o congregazione. Una sorte di ineluttabile morte naturale, una parabola che prima o poi si chiude, senza drammi e lacerazioni.
Tre sono le strade che si hanno dinanzi: l’estinzione, la sopravvivenza minima (eufemismo che in realtà significa più banalmente un’esistenza in stato vegetativo), il rinnovamento. “Alcune congregazioni hanno adempiuto al loro scopo nella chiesa e cesseranno d’esistere. Altre continueranno, ma con un’adesione significativamente ridotta. Altre ancora potranno rinnovarsi, ma per farlo dovranno in primo luogo mostrarsi coraggiose nel rispondere alle vere sfide nel mondo e nella chiesa”, aggiungeva Sammon, che nella sua disamina procedeva con logica aristotelica. “La prima cosa evidente a tutti è che siamo in un mondo in profonda trasformazione. Si tratta di un cambiamento che porta con sé il passaggio dalla modernità alla post modernità – Giacomo Biffi sosteneva che a forza di inseguire la modernità, gli ordini religiosi si sono “disciolti in essa”. “Viviamo – proseguiva Rodriguez Carballo – in un tempo caratterizzato da cambiamenti culturali imprevedibili: nuove culture e sottoculture, nuovi simboli, nuovi stili di vita e nuovi valori. Il tutto avviene a una velocità vertiginosa”. Il fatto è che ormai “le certezze e gli schemi interpretativi globali e totalizzanti che caratterizzavano l’èra moderna hanno lasciato il posto alla complessità, alla pluralità, alla contrapposizione di modelli di vita e a comportamenti etici che si sono invischiati tra loro in modo disordinato e contraddittorio: sono tutte caratteristiche dell’èra post moderna”.
E’ anche la tentazione di accogliere chiunque si presenti alla porta della congregazione o del monastero è sempre in agguato. E’ l’illusione di allungare artificialmente la vita a chi ormai è avviato verso la morte naturale e ineluttabile. Francesco lo fece bene intendere, quando osservò che “alcune congregazioni fanno l’esperimento della ‘inseminazione artificiale’. Che cosa fanno? Accolgono…: ‘Ma sì, vieni, vieni, vieni…’. E poi i problemi che ci sono lì dentro… No. Si deve accogliere con serietà! Si deve discernere bene se questa è una vera vocazione e aiutarla a crescere. E credo che contro la tentazione di perdere la speranza, che ci dà questa sterilità, dobbiamo pregare di più. E pregare senza stancarci”. Parlando ai Superiori generali, nel 2013, il Pontefice aveva notato come ci siano “chiese che stanno dando frutti nuovi. Forse una volta non erano così feconde, ma adesso lo sono”, aggiungeva: “Ciò obbliga a ripensare l’inculturazione del carisma. Il carisma è uno, ma bisogna viverlo secondo i luoghi, i tempi e le persone. Il carisma non è una bottiglia di acqua distillata. Bisogna viverlo con energia, rileggendolo anche culturalmente”.
Il problema è capire se si è ancora disposti a sperimentare la conversione personale e – soprattutto – sottolineava ancora Sammon – se vi è la capacità di ritrovare lo spirito del carisma che pose le basi per la fondazione dell’ordine e della congregazione. La capacità di aggiornarsi e rigenerarsi, non perdendo di vista le radici ma attualizzando il messaggio per stare nel mondo. Si tratta anche di sapersi rendere credibili, questione che si lega indissolubilmente alla capacità attrattiva di un carisma che può essere logorato e percepito come antiquato.
L’aveva spiegato bene Soren Kierkegaard, con il celebre esempio del clown che in Danimarca chiedeva aiuto per l’incendio devastante senza essere ascoltato. Il pagliaccio, naso rosso e vestito a pois, si precipitò correndo a perdifiato fino al villaggio più vicino, chiedendo a tutti quanti incontrava di darsi da fare per spegnere le fiamme. Non ci fu nulla da fare: più s’agitava, più otteneva risate da parte della “platea” lì presente, che scambiò l’agitazione per un trucco del mestiere. Al povero clown scendevano le lacrime, giurava che era tutto vero, ma quel naso rosso e quella casacca appariscente non lo rendevano credibile. Quando gli abitanti del villaggio compresero che non si trattava d’una sciocca gag ben presentata, era troppo tardi. L’incendio aveva vinto.
E’ un problema di come si presenta il messaggio, dunque. Scrive Benotti che “la difficoltà di farsi ascoltare dagli uomini nell’annuncio della fede pone spesso i consacrati allo stesso livello del clown: più si affannano per mostrare la bellezza di una parola che libera, meno vengono accolti e compresi”. Ma c’è dell’altro, aggiunge: “Per essere creduti, sembra dirci Kierkegaard, bisogna essere credibili. Le persone non tollerano la contraddizione. Se indosso i panni di un pagliaccio, rideranno per quello che dirò. Non saranno disposte a prendermi sul serio ma accetteranno di seguirmi nel divertimento della recita, fino a quando vedranno con i loro occhi il circo che brucia e sentiranno sulla loro pelle il calore delle fiamme”.
'Effetto Francesco' inside out.
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