IV puntata
di Don Leonardo M. Pompei
Il sacramento della Penitenza, oggi poco praticato, è spesso ricevuto in modo sacrilego, mancando le necessarie disposizioni e condizioni da parte del penitente, o reso invalido dalla noncuranza del confessore. Vediamo come non incorrere in tale pericolo.
Iniziando l’analisi dei peccati contro il Primo Comandamento abbiamo visto che l’uso sacrilego dei Sacramenti rappresenta, in assoluto, la forma più grave di offesa diretta a Dio e alla sua divina Maestà. Oltre che le Comunioni sacrileghe, purtroppo, oggi è quanto mai diffuso un altro gravissimo peccato: quello dell’uso sacrilego del sacramento della Confessione.
Prima di addentrarci in questa nuova cancrena che affligge dal profondo i figli della Chiesa, è bene osservare che uno dei precetti generali della Chiesa obbliga i fedeli all’uso minimo di questi due importantissimi Sacramenti: la Confessione almeno una volta l’anno e la Comunione almeno a Pasqua. Per la verità il santo Curato d’Ars piangeva quando doveva rammentare ai suoi fedeli questo precetto, parendogli assurdo che la Chiesa dovesse imporre sub gravi una cosa tanto bella come la santa Comunione, che dovrebbe essere ricevuta (secondo le intenzioni di Chi l’ha istituita) preferibilmente ogni giorno. Tuttavia, il santo Parroco doveva amaramente costatare che è tale e tanta la stoltezza dell’uomo, che la Chiesa, come madre premurosa di un figlio discolo, ha dovuto imporre quel minimo assolutamente indispensabile per evitare di lasciare i suoi figli in stato di dannazione. Conseguentemente, non solo chi profana, ma anche chi omette almeno questa frequenza minima a questi Sacramenti, non è scusabile da colpa grave. Ecco perché la prima cosa da dire quando si entra in confessionale è da quanto tempo non ci si confessa e, qualora il penitente non lo faccia, il sacerdote è tenuto a interrogarlo in merito. Qualora, infatti, non ci si confessasse da dieci, quindici, trent’anni il confessore capirebbe subito che sul povero fedele gravano dieci, quindici, trenta peccati mortali.
Ora, la Santa Chiesa, nel Concilio tridentino (di cui è eco fedelissimo il grande dottore sant’Alfonso Maria de’ Liguori, patrono dei confessori e dei moralisti, a cui faremo ampio riferimento) ha insegnato che per ottenere il perdono di Dio dei peccati commessi dopo il Battesimo occorrono alcune condizioni, in mancanza delle quali la Confessione o è invalida o, peggio, è sacrilega. Anzitutto oggetto obbligatorio della Confessione sono tutti e singoli i peccati mortali di cui il penitente abbia coscienza, che siano stati commessi da quando si ha l’uso della ragione al momento in cui ci si sta confessando. Tali peccati vanno confessati per numero, specie e circostanze e si otterrà la misericordia di Dio solo se di essi si è realmente pentiti ovvero se: 1) si prova dolore per il peccato commesso (perfetto se originato dal fatto di aver offeso Dio o imperfetto se scaturisce dal timore dell’inferno e dei castighi dovuti per i peccati); 2) lo si detesta con tutto il cuore; 3) si ha il fermo, risoluto e deciso proposito di non commetterlo più.
Il confessore, durante l’amministrazione di questo Sacramento, svolge, come insegna sant’Alfonso, quattro funzioni; quella di padre, in quanto interprete della bontà e della misericordia di Dio; quella di maestro, in quanto deve aiutare il penitente nell’esaminare e nel formare la sua coscienza, formulando alcune domande qualora abbia motivo di ritenere che il penitente non sia in grado di discernere le colpe gravi (cosa che oggi accade spessissimo); quella di giudice, in quanto deve verificare se la Confessione è sincera e se il penitente sia pentito, cercando, in caso negativo, di stimolarne o provocarne il pentimento durante la Confessione stessa. In quanto giudice il sacerdote deve verificare se può o meno assolvere il penitente; ed in caso positivo impartire una soddisfazione sacramentale (o penitenza) che sia proporzionata al numero e alla gravità dei peccati; quella infine di medico, in quanto deve, con le opportune esortazioni, indicare al penitente le vie di futura preservazione dal male. Anche nel decidere il tipo di penitenza da imporre, il confessore deve ricordare che sta agendo come un medico dinanzi ad un malato che ha bisogno di terapie per guarire e per ristabilirsi in perfetta forma fisica.
Dinanzi a tale disciplina, vediamo ora quando la Confessione è sacrilega. Anzitutto quando il penitente non è pentito, cioè non prova dolore per quello che ha fatto, ma soprattutto non ha intenzione di smettere. È inutile, in questi casi, andarsi a cercare confessori dalla “manica larga” (oggi, purtroppo, molto diffusi), perché se anche il sacerdote osasse assolvere un fedele non pentito, commetterebbe peccato mortale e sarebbe responsabile di tutte le comunioni sacrileghe fatte dal penitente, erroneamente illuso di essere stato assolto.
Seguono le Confessioni incomplete per colpa del penitente, o perché si vergogna o ha paura di rivelare qualche peccato, oppure perché (cosa peggiore) rifiuta di riconoscere qualche peccato come mortale (pochissimi, per esempio, oggi accettano che mancare alla Messa domenicale o commettere atti impuri sia peccato mortale).
La Confessione viene invalidata in via successiva se il penitente omette di fare la penitenza sacramentale che gli è stata imposta dal confessore, che va adempiuta seriamente e scrupolosamente. Essa, infatti, è requisito essenziale della Confessione, tant’è vero che per larga parte del Primo Millennio l’assoluzione veniva concessa solo dopo aver adempiuto alla penitenza imposta.
L’esperienza pastorale insegna che quei (pochi) fedeli che si confessano spesso lo fanno assai male e che purtroppo non pochi ministri, atteggiandosi a fare i buoni, causano una vera e propria rovina d’innumerevoli anime.
A conclusione di questo spinoso tema mi permetto di dare alcuni consigli per evitare d’incorrere in spiacevoli e gravi inconvenienti: 1) pregare Dio che ci faccia trovare un buon confessore ed avere, di norma, un confessore fisso, di sana dottrina, di vita tendenzialmente santa e animato da santo zelo. I modelli di confessori sono tre: San Pio da Pietrelcina, il santo Curato d’Ars e sant’Alfonso M. de’ Liguori, tutti pieni di misericordia ma anche di severità, di dolcezza ma anche di fermezza; 2) far bene l’esame di coscienza e chiedere di persona al confessore di essere interrogati, qualora si pensi di non essere in grado di discernere le colpe gravi; 3) essere sommamente sinceri e curare di confessare bene i peccati per specie (non basta dire “ho commesso atti impuri”: un conto è l’adulterio, un conto l’omosessualità, un conto la pornografia, ecc.), per numero (non basta dire “ho mancato alla Messa”, ma bisogna specificare il numero e, qualora non lo si ricordi, dare un ordine di grandezza) e per circostanze (se un padre bestemmia davanti a un figlio deve specificarlo); 4) preparare la Confessione ricorrendo all’ausilio della Beata Vergine Immacolata e pregare per il confessore, perché abbia da Dio la luce e la grazia per aiutarci a troncare con il peccato, giacché, come diceva il santo Curato d’Ars, «se non c’è in noi un completo cambiamento, non abbiamo meritato l’assoluzione: e c’è da temere che il nostro sia solo un sacrilegio. Ah, se almeno ogni trenta assoluzioni ve ne fosse una valida, come si convertirebbe presto il mondo!».