Un Vaticano III servirebbe pure, il problema è logistico
Il conservatore Weigel apre sul tema ai progressisti: ma i vescovi sono 5.000
Questa volta non è la rivista progressista National Catholic Reporter a tirar fuori il tema. E nemmeno i gesuiti d’America, la rivista newyorchese della quale fu direttore padre Thomas Reese, il teologo ribelle che il Vaticano costrinse qualche anno fa a dimettersi per le posizioni troppo liberal su matrimoni gay, rapporti con l’islam e atteggiamento che i politici devono tenere sull’aborto. Oggi, del Concilio Vaticano III e della sua eventuale (quanto improbabile) convocazione, parla a sorpresa George Weigel su First Things. Weigel, ovvero uno dei commentatori cattolici americani di più indiscussa ortodossia, autore noto in tutto il mondo per la biografia di Giovanni Paolo II dal titolo “Testimone della speranza” e per First Things, e cioè la rivista conservatrice fondata anni fa dall’ex pastore luterano Richard John Neuhaus e che raccoglie al suo interno il meglio delle firme dei cosiddetti “teocon” della chiesa americana, ex cattolici progressisti spostatisi a destra o ex protestanti convertiti.
Weigel torna sul Vaticano III consapevole degli impedimenti che una parte di chiesa sostiene esservi intorno a una sua convocazione. Dice: “Il cattolicesimo ha da poco iniziato a ‘digerire’ gli insegnamenti del Vaticano II sulla natura della chiesa, sulla chiamata universale alla santità, sulla riforma dell’episcopato, del sacerdozio, della vita consacrata, sulla vocazione dei laici nel mondo”. Weigel riporta anche le parole del gesuita padre John O’Malley, professore alla Georgetown University e decano degli storici americani del cristianesimo – di recente Fazi ha pubblicato il suo “Storia dei Papi” – secondo il quale il Vaticano II venne chiuso da Paolo VI piuttosto celermente per motivi economici: “Costava troppo”. Ma oggi molti problemi relativi alla eventuale convocazione di una nuova assise conciliare potrebbero in fondo essere sorpassati: già Joseph Ratzinger ricucendo “a sinistra” con parte del mondo protestante ha dimostrato di sfuggire allo stereotipo di Panzerkardinal, del grande inquisitore, cucitogli pretestuosamente addosso. Quale sarebbe allora l’ostacolo maggiore per un Concilio Vaticano III? La logistica, sostiene Weigel.
Si chiede il commentatore statunitense: “Dove potrebbe convocarsi un nuovo Concilio?”. “Il Vaticano I (1869-1870) si riunì in un transetto della basilica di San Pietro, c’erano soltanto 737 vescovi presenti. In 2.800 presuli hanno partecipato alle quattro sessioni del Vaticano II, che si è riunito nei mesi autunnali del 1962, 1963, 1964 e 1965. I vescovi hanno riempito l’intera vasta navata di San Pietro, seduti su gradinate costruite ad hoc. Tenuto conto dei vari osservatori ecumenici, periti e altri funzionari, la basilica vaticana era sostanzialmente stracolma. Oggi la situazione è molto diversa. Secondo le ultime statistiche ufficiali (2009) ci sono 5.065 vescovi cattolici nel mondo. Un Concilio generale o ‘ecumenico’ è, per definizione, un raduno in cui tutti i vescovi hanno il diritto di partecipare (Canone 339). Dove potrebbe essere accolta questa folla di oltre cinquemila vescovi e come potrebbero riuscire a far valere le proprie posizioni?”.
Weigel non fa previsioni. Ma intanto il tema del Vaticano III ritorna. Anche se nella chiesa continua a essere un tabù. Ne parlò più volte il cardinale Carlo Maria Martini, arcivescovo emerito di Milano. Vedeva in un nuovo Concilio la possibilità per rafforzare la collegialità ecclesiale e insieme offrire soluzioni su pochi temi “ma di massima urgenza, un po’ come era – disse – nella prassi della chiesa dei primi secoli”. Con Martini c’erano diversi cardinali, anche uno di curia: il giapponese Stephen Fumio Hamao firmò un appello per il Vaticano III, un’assise per “la bioetica, i cambiamenti in atto nella convivenza matrimoniale e nella famiglia, e una nuova impostazione dell’attività pastorale”. E oggi? La curia tace. In Italia ha detto la sua pochi giorni fa un martiniano doc, il vescovo di Pavia Giovanni Giudici. Un nuovo Concilio? “Le porte non vanno chiuse”, sostiene. Ci sono “istanze alle quali dobbiamo dare delle risposte e occorre che siano date assieme, da una comunità di credenti”. Quali? “Penso all’inculturazione della liturgia, ai riti dei sacramenti, alle fatiche dei cristiani che hanno visto fallire il loro matrimonio, al cambiamento del modo con cui si manifestano le vocazioni. Non va neanche sottovalutata la questione della diaspora di una parte del mondo cattolico rispetto alle indicazioni del magistero”.
© - FOGLIO QUOTIDIANO
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